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1. DAL PROBLEM SOLVING AL JOINT PROBLEM SOLVING

1.4. La cooperazione nei processi decisionali e il joint problem solving

1.4.3. Relazioni cliente-fornitore

La relazione principale in cui sono coinvolte le imprese a livello di generazione della propria offerta è quella tra buyer e supplier, in cui un’azienda (supplier) fornisce ad un’altra (buyer) una serie di input impiegati nelle successive attività produttive. Questa relazione generica può essere declinata in diverse forme di collaborazione interorganizzativa, nelle quali si riscontrano pertanto le sue peculiarità fondamentali.

Parallelamente ai cambiamenti delle tecniche di produzione nel corso del tempo, si è assistito ad un’evoluzione nel rapporto tra cliente e fornitore e, inoltre, la natura di quest’ultimo è strettamente legata allo specifico contesto nazionale in cui si sviluppa, sebbene in letteratura siano stati condotti svariati tentativi di individuazione di un insieme di best practice da poter attuare su scala globale (Zirpoli e Caputo, 2002). In particolare, mentre in passato il concetto di relazione veniva ricondotto alla pura negoziazione, con una posizione attiva dell’acquirente ed una passiva del fornitore, oggi si riconosce una visione più ampia, determinata dalla concomitanza di più fattori rispetto al solo contratto formale e in cui entrambe le parti sono attive. Di conseguenza, il gruppo IMP – Industrial Marketing and Purchasing18 ha proposto un approccio interattivo all’analisi del rapporto buyer-seller, basato su quattro variabili influenti, ovvero il processo di interazione e i suoi elementi, i partecipanti, l’ambiente e l’atmosfera19. Una delle osservazioni più significative di questo modello è che una relazione di lungo periodo diviene di routine, comportando un’istituzionalizzazione delle aspettative e dei modelli di comportamento, ossia un consolidamento di tutti gli aspetti relativi all’adattamento tra i partner e delle pratiche operative.

Considerando le relazioni clienti-fornitori in una prospettiva allargata, la loro gestione, che coincide con quella della catena di approvvigionamento, si inserisce in un contesto di rete ed è pertanto indirizzata all’ottimizzazione della catena del valore.

Molti studi hanno dimostrato che il coinvolgimento dei fornitori in attività di co-design ha un impatto positivo sullo sviluppo di nuovi prodotti e, per lungo tempo, il modello di partnership giapponese è stato considerato il migliore per l’implementazione di questa relazione cooperativa. Questo modello, descritto da Lamming (2003) come “un’emulazione strategica delle compagnie di successo giapponesi”, consiste in una forma di collaborazione non paritaria, in cui il buyer riveste il ruolo di partner senior, controllando la relazione, e il fornitore quello di partner junior; questa appare

18 IMP è un gruppo internazionale di ricercatori universitari.

una formula vincente, ma allo stesso tempo limitata dall’impossibilità di raggiungere la ricchezza derivante da un contributo tra pari.

Attraverso il modello della subfornitura snella i fornitori acquisiscono uno status paritario rispetto ai clienti; infatti questa struttura di relazione si concretizza tra attori con pari poteri nella supply chain, che agiscono seguendo una logica realmente collaborativa, con lo scopo di ottimizzare l’offerta al cliente finale in termini di servizio e qualità dei prodotti, minimizzando i costi totali. Come osserva Lamming (2003), il rapporto cliente-fornitore assume così la configurazione di una “quasi impresa”, dotata di propri obiettivi, struttura organizzativa, cultura e meccanismi di comunicazione, e deve essere gestito secondo una precisa strategia di relazione, delineata in considerazione della rete di organizzazioni in cui l’impresa desidera operare e, quindi, valutando i fattori geografici, storici, commerciali e tecnici. La relazione segue pertanto uno sviluppo pianificato, sulla base ad esempio della prospettiva di vita utile, dei limiti pratici delle prestazioni e delle possibilità di miglioramento.

Per definire le strategie di diversificazione di un’impresa, comprese le decisioni di outsourcing di determinate attività, viene fatto riferimento alla prospettiva resource-based, secondo la quale il vantaggio competitivo deriva dal possesso o, perlomeno, dalla disponibilità di risorse caratterizzate da una serie di qualità, ossia la rarità, la non perfetta imitabilità e la non sostituibilità, tra le quali rivestono un’importanza crescente le risorse intangibili come la conoscenza e le capacità dinamiche (Becker e Zirpoli, 2003). Oggi la maggior parte delle organizzazioni, soprattutto quelle che realizzano prodotti complessi, devono rivolgersi a fornitori esterni per poter accedere a tutte le conoscenze necessarie alla conduzione delle attività ed al raggiungimento della propria mission, che sono appunto connotate da gradi sempre più elevati di specializzazione ed eterogeneità. Pertanto, i confini dell’azienda diventano più permeabili e i processi di ricerca e sviluppo vengono condotti in maniera congiunta, collaborando anche con attori sui quali l’impresa non esercita un controllo gerarchico, in una logica che si avvicina progressivamente a quella dell’open innovation (Zirpoli, 2010). La scelta di esternalizzare certi processi ha un impatto sia sui costi che sulla base di conoscenze e competenze, stabilendo la loro allocazione e quella delle opportunità di apprendimento lungo la supply chain. Di conseguenza, emerge il bisogno di integrare e coordinare un insieme di conoscenze maggiormente disperse e frammentate, che viene soddisfatto da organizzazioni in grado di qualificarsi come systems integrator, fondendo la molteplicità di risorse, conoscenze e capacità interne ed esterne.

Naturalmente, l’esternalizzazione e la sua gestione determinano sia dei benefici che dei potenziali svantaggi. In particolare, accanto al vantaggio di sfruttare sinergicamente asset complementari detenuti da soggetti diversi, l’innovazione distribuita comporta il problema dell’appropriabilità dei risultati, per cui un’organizzazione può raggiungere in modo più efficace ed efficiente una soluzione ad un certo problema, ma tendenzialmente deve spartire questo successo con coloro che hanno

contribuito ad ottenerlo. Inoltre, se da un lato la capacità di integrare i sistemi dovrebbe essere coltivata ed accresciuta per ottimizzare la network innovation, dall’altro sussistono una serie di rischi connessi ad un’eccessiva focalizzazione su di essa, quali lo svuotamento delle conoscenze (ibidem). Quest’ultimo dipende da una concentrazione esclusiva sulla conoscenza architetturale, a discapito di quella specifica che viene completamente acquisita dall’esterno dell’impresa, e causa l’incapacità di valutare correttamente la qualità delle offerte, di dare supporto tecnico ed operativo ai fornitori, di migliorare gli input ottenuti ed eventualmente di produrli in-house. Un altro rischio legato all’esternalizzazione prende il nome di “trappola della modularità” e dipende dalla decentralizzazione delle attività derivante dall’approccio modulare, svolte in modo indipendente da attori diversi, che si trovano quindi in difficoltà nel caso di modifiche nell’architettura integrale.

In particolare dall’analisi delle aziende che realizzano prodotti complessi emergono due criteri da seguire per stabilire se svolgere una determinata attività in-house o in outsourcing. Le imprese dovrebbero sviluppare al proprio interno conoscenze e abilità che hanno un impatto diretto sui risultati della propria offerta o che hanno un alto livello di interdipendenza con tecnologie e competenze chiave che concorrono a determinare questa performance.