1. DAL PROBLEM SOLVING AL JOINT PROBLEM SOLVING
1.4. La cooperazione nei processi decisionali e il joint problem solving
1.4.6. Relazioni di collaborazione con soggetti non organizzati
Ormai da molti anni le imprese hanno appreso l’importanza dell’ascolto dei propri pubblici, tra i quali quello principale dei clienti, in precedenza concepito come monitoraggio di bisogni, interessi, opinioni e valori e poi come dialogo costruttivo, che dovrebbe essere attivato già nei processi aziendali di ideazione e produzione e quindi sfruttato nelle fasi di identificazione e risoluzione dei problemi.
Nella società postmoderna, connotata come società della conoscenza, il consumatore cambia notevolmente, da un lato rafforzando la propria consapevolezza nel momento della catena del valore a lui propriamente dedicato, dall’altro divenendo un soggetto attivo nella rete di propagazione della conoscenza e, quindi, nella fase di produzione del valore. Il consumo comincia da una pervasiva ricerca di informazioni, relative non solo alle semplici funzioni d’uso dei beni, ma anche e soprattutto al loro significato in termini di possibilità di espressione personale. Rullani (2004) osserva come oggi la componente materiale di un bene riveste un’importanza marginale, mentre il suo valore dipende per lo più da elementi immateriali, quali il significato, l’esperienza, il servizio, in perfetta coerenza con l’affermarsi dell’economia della conoscenza. La rilevanza di questi aspetti stimola il consumatore a superare la passività del proprio ruolo, per definire un sistema simbolico e attribuire egli stesso un senso alle merci. Nel consumo dei prodotti, il cliente ricorre alla propria conoscenza in modo da renderlo un’esperienza cognitiva coinvolgente e rilevante. Pertanto, non si limita più a soddisfare i propri bisogni mediante il possesso, ma vuole affermare la propria capacità creativa contribuendo alla realizzazione di ciò che successivamente consumerà e concorrerà a definire la sua identità all’interno
della società (Stigliano, 2011). Questo fenomeno prende il nome di prosumerismo21 e provoca un forte cambiamento nelle dinamiche del processo di creazione del valore, per cui il confine tra produzione e consumo diventa sempre più labile.
L’attività svolta dal prosumer viene descritta da Ferraresi (2004) non come produzione classica, ma piuttosto come elaborazione di nuove concezioni e modi di pensare le merci, di nuove modalità di uso e consumo. Questa considerazione sottolinea nuovamente la centralità della conoscenza e la valenza cognitiva del lavoro, in quanto la produzione di valore deriva in primis dalla propagazione della conoscenza ad un numero crescente di usi, che comporta per ognuno di essi la creazione di un valore addizionale. Come sostiene Rullani (2004), l’economia della conoscenza sposta l’attenzione dal processo di produzione, basato sul consumo delle materie prime, al processo di propagazione, che si fonda sulla realizzazione di reti per la diffusione di ciò che le persone sanno e sanno fare. Le reti permettono di moltiplicare gli usi ed il valore della conoscenza, favorendo la comunicazione e la condivisione e consentendo a più persone ed imprese di lavorare insieme. Chiaramente, la creazione e la crescita delle reti sono decisive nella modifica del ruolo di consumatori e soggetti non organizzati nel processo produttivo, poiché gli attori possono sviluppare una propria intelligenza sul piano dei significati, della tecnologia e delle relazioni, attingendo a economie di specializzazione e di scala, e diventano responsabili del governo e dell’auto-regolazione dei rapporti attivati nella produzione e nel consumo (Rullani, 2011). Inoltre, grazie al progresso ed alla pervasività delle tecnologie dell’informazione, la diffusione della conoscenza può avvenire addirittura in maniera globale ed istantanea, rendendo possibile la divisione del lavoro e il coinvolgimento in processi di joint problem solving di un numero estremamente ampio e variegato di attori autonomi. L’apporto dei consumatori e, in generale, degli stakeholder alla realizzazione dei prodotti e alla risoluzione dei problemi può essere sempre più sostanziale e determinante, poiché le reti di relazioni, ora potenziate dal web 2.0, non si limitano a fornire l’accesso alle conoscenze altrui e a moltiplicarne gli usi, ma alimentano la creatività e supportano lo sviluppo di idee innovative: abilitano le intelligenze soggettive che, sfruttate collettivamente, generano forme originali di intelligenza produttiva (ibidem).
Oggi le organizzazioni ricercano nuove forme ed esperienze per acquisire e sviluppare conoscenze sfruttando i meccanismi della rete, tenendo in considerazione il desiderio e la capacità di clienti e di altri soggetti esterni di prendere parte attivamente ai propri processi; di conseguenza, la maggior parte dei prodotti e delle soluzioni sono il frutto di numerosi contributi, provenienti anche da non professionisti, da gruppi di soggetti non organizzati e, nel complesso, dal crowd. Pierre Lévy
21 Nel 1980 il futurologo Alvin Toffler inserisce nel suo libro The Third Wave il termine prosumer, come unione delle parole producer (o professional) e consumer, per identificare un consumatore attivo non solo nella fase di consumo, ma anche in quelle di ideazione, produzione e distribuzione dell’offerta di un’impresa. Pertanto il prosumerismo esprime il processo di fusione e confusione dei ruoli di produttore e consumatore, evidenziando la volontà di quest’ultimo di prendere parte in maniera creativa nelle attività produttive e di problem solving di un’organizzazione.
(1995), il primo autore a parlare di crowd wisdom, afferma l’impossibilità di limitare la conoscenza ed il suo movimento a gruppi di specialisti, considerando ogni forma di conoscenza come fonte primaria di valore. Ogni individuo possiede delle proprie conoscenze ed abilità, che sommate a quelle di tutte le altre persone nel mondo formano l’intero patrimonio conoscitivo dell’umanità, ovvero l’intelligenza collettiva (o crowd wisdom). Si tratta di un’intelligenza universalmente distribuita, che si arricchisce costantemente, grazie a una mobilitazione efficace di conoscenze appartenenti ai singoli e coordinate in tempo reale. Anche Surowiecki (2004) riconosce il valore della crowd wisdom osservando che una soluzione ha successo quando emerge da un vasto gruppo di soggetti, piuttosto che da un singolo genio isolato. Infatti, nelle attività di decision making si riscontra che è maggiore e più efficace l’intelligenza di una collettività composta da attori con caratteristiche e competenze diverse rispetto a quella dei singoli individui più brillanti che ne fanno parte.
Sulla base del valore attribuito alla wisdom of crowd, nell’ultimo decennio si è affermato un particolare modello di distributed problem solving definito come “crowdsourcing”. Questo approccio evolve dalla considerazione privilegiata dell’intelligenza propria di una moltitudine di individui con conoscenze diverse rispetto a quella di un unico esperto, per avvalersi concretamente delle competenze di gruppi di soggetti non professionisti e non organizzati, quali ad esempio i consumatori. Il crowdsourcing si fonda infatti su di un meccanismo di contribuzione collettiva alla realizzazione di una soluzione ad un dato problema (Stigliano, 2011), che permette di conseguire dei vantaggi analoghi a quelli ottenibili attraverso le collaborazioni interorganizzative. Allo stesso tempo, questo modello consente di ovviare ad alcuni degli svantaggi tipici delle collaborazioni tra imprese; infatti, se l’azienda che esternalizza al crowd una propria attività è in grado di attuare opportuni meccanismi di osservazione, interazione e partecipazione, può puntare ad acquisire le competenze apportate e sviluppate dalle persone coinvolte, contribuire anch’essa a questo processo creativo, favorire un equo bilanciamento tra conoscenze architetturali e specifiche – limitando la probabilità di incorrere nei rischi dello svuotamento delle conoscenze e della trappola della modularità (par. 1.4.3.). Inoltre – come notato in precedenza (par. 1.4.4.) – l’istituzione di un rapporto specifico per un determinato progetto è funzionale al miglioramento delle capacità dinamiche.
Le riflessioni sull’intelligenza collettiva e sull’emergere di un modello di risoluzione dei problemi come il crowdsourcing evidenziano nuovamente il superamento della concezione del decisore unico che ambisce alla perfezione nella scelta, che viene sostituita da quella del joint o distributed problem solving per la ricerca di una soluzione accettabile. Brabham (2008) individua tre fattori attualmente dominanti nei processi di risoluzione dei problemi, ossia la distribuzione (o ripartizione), la pluralità e la collaborazione, che determinano la possibilità che i problemi emergano e vengano affrontati praticamente ovunque, così come anche le soluzioni, che sono testate e confrontate con altre idee e
fatte confluire nel patrimonio globale di conoscenza come beni comuni. Queste dinamiche spingono ad osservare non più solo la singola organizzazione ma l’intera società come un contenitore dei rifiuti, dove si muovono casualmente soggetti, problemi e soluzioni.
L’impresa che si inserisce in questo contesto ambiguo e caotico, in cui le competenze sono distribuite in maniera disparata e tutti possono fornire un valido contributo ai processi di problem solving, dovrebbe configurare generalmente la propria struttura e la sua intera rete di relazioni interne ed esterne come un’anarchia organizzata. Questo è il suggerimento di Knudsen, Stieglitz e Yi (2012), che estendono il garbage can model per analizzare come le differenti abilità e conoscenze delle persone influenzano le performance di un’organizzazione. Gli autori osservano l’utilità dei contributi di soggetti dotati di conoscenze generiche, che, essendo applicabili ad un’ampia gamma di problemi, possono essere sfruttate dall’impresa favorendo un coordinamento spontaneo degli attori e lasciando che siano le singole persone ad individuare la situazione in cui possono ricoprire efficacemente un ruolo di solutori22.
Il crowdsourcing chiama le persone a partecipare ad un’attività di problem solving mediante una open call; combina così gli aspetti principali degli approcci alla knowledge creation, ossia la concezione della società come reti di relazioni propria del network approach, a cui si somma una predilezione per i legami informali, e lo sviluppo di una comunità di pratica, i cui membri sono accomunati dalla volontà di risolvere uno stesso problema e, collaborando a questo scopo, diffondono ed alimentano la conoscenza. In generale, influisce positivamente sulle variabili determinanti le capacità di problem solving e costituisce un caso emblematico di struttura decisionale flessibile, che integra i contributi spontanei di attori non organizzati, ma abili portatori di interesse.
22 Solo per la risoluzione di problemi che richiedono l’uso di competenze fortemente specializzate è meglio organizzare il processo in modo più rigido e burocratico, facendo intervenire direttamente chi possiede le conoscenze appropriate ed è in grado così di elaborare una soluzione in tempi relativamente rapidi (Knudsen, Stieglitz e Yi, 2012). Tuttavia, se le competenze non sono possedute dall’azienda, il coinvolgimento di un esperto di professione esterno è spesso molto costoso e può rivelarsi un’opzione ancora valida, e sicuramente più economica, l’auto-selezione dei soggetti nell’attività di problem solving, in quanto tenderanno a partecipare individui che, pur non essendo professionisti, detengono le conoscenze tecniche richieste.