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La repressione penale del mobbing e la prevenzione dei rischi psicosociali sui luoghi di lavoro

Nel documento INTEGRITA' PSICHICA E TUTELA PENALE (pagine 154-158)

LA SOFFERENZA PSICHICA

LA TUTELA PENALE DELLA SOFFERENZA PSICHICA NEL DIRITTO ITALIANO

4. La repressione penale del mobbing e la prevenzione dei rischi psicosociali sui luoghi di lavoro

Come abbiamo già visto, l’art. 572 c.p. si è particolarmente prestato alla repressione penale del mobbing, poiché quest’ultimo ha delle caratteristiche 343, che possono includerlo nella fattispecie dei “maltrattamenti”.

Tuttavia, la giurisprudenza 344, di recente, ha ristretto il campo sociale del reato di maltrattamenti alla sola “famiglia”, onde per cui si potrebbe ricorrere all’art. 572 c.p. in caso di “mobbing”, unicamente nel caso in cui risultasse, tra i colleghi di lavoro, un “peculiare rapporto di natura para – familiare”.

341 Anche perché la stessa “famiglia”, come abbiamo già ampiamente visto, ha

subito cambiamenti tali da includervi altre realtà, come le unioni di fatto, la convivenza o relazioni extraconiugali).

342 V. COPPI F., voce Maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli, in Enc. dir.

XXV, Milano, 1975.

343 Le caratteristiche di cui si parla sono: la ripetitività degli atti, il loro carattere

vessatorio e la produzione di un danno alla persona.

344 Cass. 6 febbraio 2009, n. 26594, in DeJure; analogamente, Cass., 22

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In linea di principio, si può apprezzare il tentativo di non far rientrare un evento lesivo così specifico, quale il mobbing, all’interno dell’art. 572 c.p., evitando quella che sarebbe una “forzatura”.

Allo stesso tempo va considerato come molti comportamenti, che si è soliti far rientrare nel mobbing, assumono rilevanza penale a prescindere dall’applicabilità dell’art. 572 c.p. Ad esempio, si richiama il delitto di atti persecutori (art. 612 bis c.p.), se, alle ripetute minacce o molestie, segue uno stato di ansia o un cambiamento di vita del lavoratore 345.

Inoltre, a differenza del reato di maltrattamenti, gli atti persecutori non presuppongono un rapporto di autorità, e dunque permettono di punire condotte diverse dal mobbing verticale.

Nonostante ciò, né l’art. 572 c.p. né l’art. 612 bis c.p., riescono a coprire tutti i fenomeni lesivi dell’integrità psichica del lavoratore, come ad esempio lo straining 346, che manca della necessaria

345 Sulla riconducibilità del mobbing al delitto di atti persecutori, GALANTI A.,

Prime considerazioni in ordine al reato di stalking: e se diventasse (anche) mobbing?in Giust. pen., 2010, II, c. 63-64.

346 Accanto al più diffuso mobbing – termine ormai di utilizzo comune, visto anche il particolare appeal mediatico di cui gode – la giurisprudenza ha introdotto il concetto di straining, visto come “una situazione di stress forzato

sul posto di lavoro, in cui la vittima subisce almeno un effetto negativo nell’ambiente lavorativo, azione che, oltre ad essere stressante, è caratterizzata anche da una durata costante. La vittima è, rispetto alla persona che attua lo straining, in persistente inferiorità. Lo straining viene attuato appositamente contro una o più persone, ma sempre in maniera discriminante”. Cfr. Tribunale del lavoro di Bergamo, Sent. n. 286 del 2005. La

sentenza citata, la prima in Italia sull’argomento, ha avuto il pregio di definire i contorni di una fattispecie molto particolare, nella quale, a differenza del mobbing, i comportamenti vessatori da parte del datore di lavoro non presentano i caratteri della frequenza e della ripetitività, potendosi concretizzare anche in una sola azione ostile nei confronti del lavoratore. Ciò che importa, ai fini dell’individuazione dello straining, è piuttosto la permanenza, in capo alla vittima, di una condizione psico-fisica di disagio sul luogo di lavoro. In tale contesto, hanno rilevanza situazioni lavorative particolarmente “stressanti”, come, ad esempio, episodi di dequalificazione e/o isolamento professionale, che, oltre a doversi dimostrare ingiusti secondo un criterio di oggettività, devono generare nel destinatario una forma di pressione superiore a quella connaturata alla natura stessa del lavoro svolto ed alle normali interazioni organizzative.

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ripetitività della condotta, o del Burn – Out 347. Per questi ultimi ci si rifà piuttosto alla tutela apprestata dai reati di lesioni personali volontarie, nella misura in cui ne seguono malattie nel corpo o nella mente.

È evidente, dunque, che il problema di cui trattiamo non può essere interamente riconducibile all’esegesi dell’art. 572 c.p. Una domanda, a cui ci viene spontaneo cercare una risposta, poiché strettamente correlata con quanto appena detto, è se sia possibile attribuire al datore la responsabilità per la sofferenza generata da un’organizzazione “difettosa” del lavoro. Chiaramente, questo impone di inquadrare il tema della sicurezza psicofisica del lavoratore in un ambito più vasto e generico rispetto al solo mobbing.

Il punto di partenza è il Testo unico sulla sicurezza nei luoghi di lavoro (d. lgs. 81/2008, e successive modifiche), al cui interno troviamo un obbligo di valutazione dei rischi, che comprende “tutti i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori (…), ivi compresi quelli riguardanti lo stress – lavoro correlato348, secondo i contenuti dell’accordo europeo dell’ 8 ottobre 2004” (art. 28, co. 1°, TU). La sua omissione configura una contravvenzione (art. 55, commi 1° e 2°, TU).

La disciplina in esame pone diverse questioni interpretative; ci si chiede, ad esempio, se con il riferimento esplicito al solo “stressa

347 Il Burn Out, parola di origine anglosassone, che letteralmente significa

esaurimento, crollo o surriscaldamento, dà chiaramente l’idea di ciò di cui si sta parlando, ovvero una condizione di stress. Stress quindi inserito in un contesto lavorativo e/o derivante da esso, che determina un logorio psicofisico ed emotivo, con vissuti di demotivazione, di delusione e disinteresse con concrete conseguenze nella realtà lavorativa, personale e sociale dell’individuo. La sindrome del burnout venne inizialmente associata alle professioni sanitarie e assistenziali, per poi essere riconosciuta come associata a qualsiasi contesto lavorativo con alte condizioni stressanti e pressanti come ad esempio posizioni di grande responsabilità lavorativa.

348 V. CURI F., Stress lavoro – correlato: una rilevanza penale impropria, in F.

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da lavoro correlato” si sia voluto limitarsi proprio a quest’ultimo oppure se si possano considerare, all’interno dei rischi c.d. “psicosociali”, altri rischi, di cui lo stress è solo un’esemplificazione.

Anche in sede comunitaria si è risposto che i rischi, che devono essere valutati dal datore, non possono essere predefiniti dal legislatore, ma devono piuttosto adattarsi al mutamento del concetto di lavoro stesso. Per questo, l’obbligo si ritiene assolto, se sono valutati tutti i tipi di rischio, da quelli provenienti dal mobbing, dallo straining, dal Burn – Out, fino alle molestie ed allo stalking.

Tuttavia, in merito a quest’ultimo punto, potrebbero sorgere delle obiezioni: se, infatti, l’obbligo datoriale di valutazione dei rischi psicosociali si concentra sulla organizzazione del lavoro, si dovrebbe, quanto meno, dare un minor peso alla componente personale ed emozionale, caratterizzante, invece, lo stalking349. In questo quadro si innesta la valutazione del rischio da stress – lavoro correlato 350 , la cui descrizione è stata effettuata dall’Accordo quadro europeo dell’ 8 ottrobre 2004, richiamato dall’art. 28, co 1°, TU.

Tale definizione, oltre ad essere piuttosto vaga, consiste nella previsione di due fasi: la prima, “necessaria”, va messa in atto, rilevando indicatori oggettivi di rischio 351; ove questi non si verifichino, l’adempimento è assolto con un rendiconto nel documento di valutazione del rischio; se invece si verificano, dalla prima fase si passa alla seconda, caratterizzata dalla

349 Questo sembra essere il caso anche del c.d. stalking occupazionale,

originato nel contesto lavorativo, ma perpetrato anche al di fuori di esso o oltre la sua fine. La situazione lavorativa, infatti, può essere “occasione” di stalking, ma non fattore di rischio ad essa connesso strutturalmente).

350 Si veda, dal punto di vista della psicologia del lavoro, FAVRETTO G., Lo

stress nelle organizzazioni, Bologna, 1994.

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pianificazione di “azioni correttive”, che, se inefficaci, vanno integrate con le “valutazioni della percezione soggettiva dei lavoratori” 352.

È evidente come la valutazione del rischio da stress sia stato trasformato in una pratica burocratica eludibile in via documentale.

In conclusione, la pur apprezzabile apertura legislativa verso i rischi psicosociali discendenti dall’organizzazione lavorativa, si risolve nella creazione di una fattispecie penale indeterminata.

Nel documento INTEGRITA' PSICHICA E TUTELA PENALE (pagine 154-158)

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