IL TESTO NELLA SEMIOLOGIA INTERPRETATIVA
3.1. Una semiologia per il testo
Negli Studi di semiotica interpretativa (2007), Paolucci riconosce nell’articolo «L’antiporfirio» di Eco (1985 : 334-361)219 il «testo fondatore» (Puech 2010) di questa specifica prospettiva semiotica. Paolucci sostiene che questa particolare prospettiva semiotica sia caratterizzata innanzitutto della radicale opposizione alle «teorie dell’ineffabile» e per il continuo «sforzo di sintesi» che mira a conciliare prospettive diverse. Precisamente, nella semiotica
interpretativa ciò consisterebbe nel conciliare la semiotica peirciana, di matrice logica e
cosmologica insieme, e la semiotica hjelmsleviana, di matrice linguistica. Secondo Paolucci, questo sforzo di «tenere insieme» si trova, da un lato, già all’interno della sola semiotica peirciana, che guarda alla semiotica come parte di una teoria più ampia220; dall’altro, invece, nella figura e nella
funzione dell’inter-pres, di colui che media fra due parti.
Da cosa si riconosce la semiotica interpretativa? Paolucci suggerisce nove criteri per identificare la semiotica interpretativa. Innanzitutto, la posizione che questo approccio semiotico assume rispetto alle due prospettive che vuole tenere insieme, cioè il suo stesso costituirsi come
inter-pres, come terzo fra le due parti. «Ecco allora la prima dimensione da cui si riconosce la semiotica interpretativa : tenere insieme le prospettive di Peirce e Hjelmslev in un equilibrio felicemente instabile » (Paolucci 2007: 47). Il secondo criterio di riconoscimento è legato al primo,
ossia «l’individuazione di un’immanenza pura del semiotico » (Paolucci 2007: 48), un terzo ordine che rappresenta a sua volta il tra, quella distanza che separa i fatti e la teoria, ma che nella semiotica interpretativa viene colmata dal semiotico come ordine altro e specifico. Questo terzo ordine si identifica, allora, nella prospettiva peirciana nella nozione di interpretante, quella grandezza semiotica capace di mettere in relazione e individuare ciò che rientra nell’ordine dei fatti e ciò che rientra nell’ordine delle teorie; nella prospettiva hjelmsleviana, invece, si identifica nel concetto di
classe, che secondo Paolucci sta al centro dell’analisi glossematica poiché si viene rinviati ad esso
ad ogni momento dell’analisi. La semiotica interpretativa, allora, non ha bisogno di uscire fuori da se stessa per cercare gli strumenti teorici che le consentono di mettere in relazione fatti e teorie, ma
219 La prima pubblicazione risale al 1983 (in G. Vattimo e P.-A. Rovatti (eds), Il pensiero debole, Milano : Feltrinelli);
ora in Eco (1985), pp. 334-361. Naturalmente, gli aspetti fondamentali della semiotica interpretativa sono presenti già nei suoi scritti precedenti (Eco 1975). Per una rassegna di saggi sulla semiotica interpretativa, cfr. Paolucci (2007, 2010), ma anche il voluminoso saggio di Petrilli e Ponzio (2005), Semiotics Unbounded: Interpretive Routes Through
the Open Network of Signs.
220 Il sinechismo peirciano è «teoria del “tenere insieme”, del “connettere” o del “rendere continue” delle parti [sunekein
in greco significa esattamente “tenere insieme”, “connettere”. (…) Il sinechismo peirciano non è infatti altro che la sua teoria del continuum] (cfr. CP 5.213-357; 6.102-3)» (Paolucci 2007 : 44).
trova in se stessa i presupposti di questa relazione, per cui si può parlare appunto di immanenza221 del semiotico (Paolucci 2007 : 50-52). Gli altri sette criteri che distinguono la semiotica interpretativa, che ci riguardano tuttavia meno da vicino, sono l’autosimilarità, l’identità
differenziale, l’iteratività, ma anche il presentarsi come antilogos, enciclopedia di interpretazioni e rizoma 222.
Il modello semantico dell’enciclopedia che abbiamo incontrato nel corso dell’analisi degli strumenti semiologici (cap. 1) lo ritroviamo anche nella teoria del testo sviluppata da Eco (1979) in parallelo alla sua riflessione nell’ambito della semiotica generale. «In Eco [1979] sono state definite teorie di seconda generazione (indipendentemente dalla loro data di nascita) tutte quelle che concepiscono la necessità di rappresentare il contenuto delle espressioni come serie di istruzioni orientate all’inserzione contestuale. In tali semantiche il semema (ovvero la rappresentazione del contenuto) appare come un testo virtuale, e ogni testo non è che l’espansione delle virtualità di uno o più sememi. Idea peraltro già presente in Greimas [1973, p. 174] a proposito dei "programmi narrativi"» (Eco 1984 : 124-125). L’idea del semema come testo virtuale è presente già prima in Greimas (1966a), sebbene essa non si presenti esplicitamente come teoria del testo. Vedremo allora (§ 3.1.), come la semantica interpretativa di Umberto Eco – che trova compimento nel suo saggio «L’antiporfirio» (Eco 1985) e su cui si fonda la sua semiotica interpretativa (Paolucci 2007) – sia proprio su questo aspetto assolutamente divergente da un altro tipo di semantica interpretativa, quella inaugurata da François Rastier (1987), che trova compimento in quella che è stata definita (seppur rapidamente) come semiologia interpretativa (VESS), su cui ci soffermeremo più a lungo in seguito (cap. 3). Questo porta, infatti, a identificare due diverse – seppur compatibili – teorie del
testo che si svolgono intorno a due diversi concetti di interpretazione (§ 3.5.2).
Il rinvio alla figura dell’inter-pres, quindi a una nozione ermeneutica di interpretazione, costituisce il punto di partenza della nostra riflessione. Infatti, proponiamo di distinguere due prospettive diverse che si sviluppano intorno alla nozione di interpretazione: l’una è la semiotica
221 Ricordiamo il principio di immanenza così come adottato dalla semiotica della Scuola di Parigi: «Le principe
d’immanence, essentiel pour la linguistique (et par extension, pour la sémiotique dans son ensemble), est à la fois le postulat affirmant la spécificité de l’objet linguistique qui est la forme, et l’exigence méthologique excluant tout recours aux faits extralinguistiques.» (DRTL, ad vocem).
222 Riassumiamo brevemente la relazione fra questi nove criteri citando direttamente Paolucci. «Non raccogliendo gli
oggetti che si manifestano sotto un baccello comune [metafora del logos come sostantivizzazione di legein, raccogliere, ordinare, da cui in italiano la radice di legume – quindi l’immagine del baccello come ciò che raccoglie il molteplice in unità –, ma anche di leggere] che li conterrebbe e non articolandoli in una struttura profonda che ne rappresenterebbe sempre una dimensione superiore o supplementare, un rizoma, in quanto molteplicità frattale, si propone come un Antilogos. […] Ma è allora proprio questa immanenza pura che è propria di un antilogos ciò che definisce quel terzo ordine al di là dell’oggettività dei fatti e delle loro rappresentazioni teoriche che è proprio della semiotica interpretativa. A questo punto del nostro percorso ne abbiamo compreso la struttura autosimile, la natura dei suoi elementi (classi e interpretanti) [rispettivamente, per Hjelmslev e Peirce], il rapporto esistente tra questi elementi (funtivi la cui identità differenziale è puramente topologica e relazionale), il tipo di operazione che è proprio della genesi di questo stesso rapporto (iterazione di una stessa funzione, triadica in Peirce, di taglio in Hjelmlsev)» (Paolucci 2007: 92-93). Per un approfondimento, rinviamo direttamente al saggio di Paolucci (2007: 43-144).
interpretativa indicata da Paolucci, che trova nella semiotica di Umberto Eco il suo fondatore e che
mira a conciliare l’approccio logico peirciano e quello linguistico hjelmsleviano intorno al problema del segno e del suo funzionamento; l’altra, invece, è la semiologia interpretativa che trova invece in François Rastier il suo principale esponente e che mira a conciliare piuttosto l’approccio linguistico e quello ermeneutico intorno a quel complesso oggetto linguistico che è il
testo. Perciò proponiamo di vedere in essa un’altra direzione interpretativa, nell’ambito di una più
specifica semiotica linguistica, che giustificherebbe così la sua denominazione di semiologia
interpretativa (§ 3.6.), piuttosto che ascriverla nell’ambito di una semiotica generale come
conviene, invece, alla semiotica interpretativa di Eco. Due ragioni fondamentali si presentano a sostegno della nostra ipotesi: 1) nella semiologia interpretativa di Rastier il centro di gravitazione è il testo, piuttosto che il segno; 2) semiologia interpretativa di Rastier cerca di conciliare l’approccio linguistico a quello ermeneutico, piuttosto che logico, nell’affrontare i problemi del senso, piuttosto che della significazione. Ecco allora che nel panorama complessivo della semiotica contemporanea, possiamo riconoscere due approcci diversi al problema dell’interpretazione in semiotica, rispettivamente la semiotica interpretativa (Eco) affiliata alla logica e la semiologia interpretativa (Rastier) affiliata, invece, all’ermeneutica.