• Non ci sono risultati.

FRA RICERCA E DIDATTICA

*

1.

Acquisire una seconda lingua

Che cosa significa imparare una seconda lingua? Come avviene che, messa di fronte agli stimoli opportuni e in una situazione favorevole, una persona – non impor- ta di quale livello di cultura, età o capacità intellettive – impari a comunicare in una lingua diversa dalla propria?

È esperienza comune che il processo di acquisizione di una seconda lingua possa innescarsi spontaneamente, in assenza di qualunque forma di insegnamento istituzio- nalizzato ed esplicito. La riuscita e lo sviluppo di questo processo dipendono da diversi fattori – qualità e quantità del contatto con la lingua seconda, tipo e livello di motivazione dell’apprendente, sue peculiarità intellettive e caratteriali –, ma non sem- brano necessariamente vincolati al supporto dato da un insegnamento esplicito: si può imparare molto bene una seconda lingua, anche ad un livello quasi nativo, senza l’au- silio di alcuna forma di insegnamento esplicito.

La constatazione che esiste un processo naturale di acquisizione, che accomuna l’acquisizione di una seconda lingua e della lingua materna, ha portato diversi stu- diosi – psicologi e (psico)linguisti in particolare – a interessarsi dei meccanismi attraverso cui tali processi si esplicano. I due processi non sono naturalmente equi- valenti: apprendere la lingua materna – o le lingue materne, nei casi di bilinguismo – significa anche, e soprattutto, apprendere il linguaggio tout-court, ovvero impa- dronirsi di un oggetto cognitivo: un sistema di simboli per la comunicazione. Negli stessi anni in cui si acquisisce la lingua materna, sono in corso numerosi altri pro- cessi di sviluppo cognitivo, che si intersecano con l’acquisizione del linguaggio. Ad esempio, le diverse tappe attraverso cui il bambino giunge all’elaborazione cogniti- va del concetto di ‘tempo’, con tutte le categorie ad esso connesse – l’idea dell’asse del tempo e della sua irreversibilità; di un “prima” e un “dopo”; dell’estensione tem- porale degli eventi, degli stati e delle azioni – non possono non intervenire conside- revolmente nel percorso di elaborazione delle categorie linguistiche attraverso cui la sua lingua esprime tali concetti – cioè, in italiano, diversi elementi lessicali di varie categorie linguistiche (avverbi, preposizioni, nomi, aggettivi) e alcuni settori della grammatica verbale (la flessione tempo-aspettuale). Quando si impara una seconda lingua in età adulta, il compito cognitivo è diverso: si tratta infatti di imparare ad

* Il presente contributo nasce da una rivisitazione di due precedenti manoscritti non pubblicati, che hanno avuto però una certa circolazione come “materiali grigi”: La lingua degli apprendenti dal punto di vista delle varietà di appren- dimento, relazione conclusiva del laboratorio Analisi degli errori in chiave di interlingua interno al corso di forma- zione nazionale Insegnamento dell’italiano nella scuola dell’obbligo (a.a. 2000/01) coordinato per il Piemonte dalla prof. Carla Marello, e le Premesse teoriche contenute nella relazione conclusiva del corso Interlingua dell’allievo straniero. Elementi di teoria e ricerca applicata (a.s. 2002-03), organizzato e patrocinato dall’USR Piemonte – UTS per iniziativa dell’ispettrice Silvana Mosca.

esprimere in una nuova lingua concetti che già si possiedono e che già si sa espri- mere nella propria lingua materna.

Si sente talvolta dire che certi concetti vadano “imparati” nella seconda lingua perché nella lingua materna “non esistono”, ma questo è un caso – ammesso che si possa verificare – molto più raro di quanto non si possa pensare. Tutte le lingue umane infatti, almeno per quanto se ne sa fino ad ora, sono equipotenti, ovvero poten- zialmente in grado di esprimere gli stessi concetti. Ciò che cambia sono le modalità attraverso cui le diverse lingue esprimono uno stesso concetto: una lingua può ad esempio esprimere attraverso opposizioni flessive del verbo la diversa temporalità delle azioni – così fa l’italiano –, mentre un’altra lingua può servirsi di mezzi lessi- cali come avverbi o preposizioni – così fa il cinese –: le opposizioni temporali sono però esprimibili in ogni lingua. Ciò che l’apprendente sinofono di italiano L2 deve imparare non sono i concetti di tempo, di futuro, presente e passato, l’esistenza di un prima e un dopo, ma piuttosto il fatto che tali concetti in italiano possono – e di soli- to devono – essere espressi anche nelle forme dei verbi, e che in italiano esiste un sistema di flessione per questo scopo.

Apprendere una seconda lingua non equivale però ad un colossale lavoro di tra- duzione da un sistema ad un altro: piuttosto, si tratta di un lavoro di ristrutturazione di concetti cognitivi che in lingue diverse sono espressi e organizzati in modo diver- so. Un po’ come, quando si entra in una nuova casa, imparare a viverci non significa quasi mai solo “trasportare” gli oggetti e le abitudini dalla vecchia, così imparare una nuova lingua non significa solo “tradurre” parola per parola e concetto per concetto, ma significa riorganizzare i propri pensieri e le proprie modalità espressive: alcuni “mobili” potranno essere semplicemente trasferiti, ma la diversa disposizione degli spazi nella nuova casa costringerà anche a ristrutturare radicalmente oggetti e funzio- ni; se nella nuova casa non c’è un locale lavanderia come invece nella vecchia, non basterà “trasferirne” le attrezzature in un’altra stanza, ma occorrerà probabilmente riorganizzarle e ridistribuirle nei diversi locali, che acquisteranno quindi nuove fun- zioni, e anche cambiare le proprie abitudini riguardo alle attività connesse.

Esempi del lavoro che spetta all’apprendente sono conosciuti per esperienza per- sonale da chiunque ha prima o poi imparato una seconda lingua. Ad esempio, le dif- ficoltà che incontriamo noi italiani nell’apprendere il sistema verbale dell’inglese non sono tanto dovute alla necessità di apprendere nuove forme dei tempi verbali, che non sono fra l’altro più numerose nel nuovo sistema di quanto siano nel nostro; la diffi- coltà risiede soprattutto nel capire la funzione dei diversi tempi del sistema verbale inglese, cioè nel capire come la lingua inglese organizza il concetto della temporalità, organizzazione che in buona parte differisce da quella del nostro sistema.

Descritta in questo modo, l’acquisizione di una seconda lingua appare come un compito piuttosto complesso, che infatti sappiamo procedere attraverso un cammino piuttosto lungo e quasi mai destinato al completo successo. Tuttavia, purché si sia messi a contatto con un input comprensibile e sufficientemente variato, purché siano cioè dati i giusti stimoli, il meccanismo si avvia e procede con una sua sistematicità. Vale la pena allora che chi si occupa di didattica delle seconde lingue sappia qualco- sa di più sui meccanismi di acquisizione spontanea, per poter valutare se e come appoggiare il proprio intervento su tali meccanismi, per modificarli laddove possano essere causa di deviazioni o di arresto dell’apprendimento, o per potenziarli laddove

possano essere troppo lenti o limitati rispetto agli obiettivi che ci si propone. In una prospettiva più forte, vale la pena conoscere qualcosa di più su tali meccanismi per capire fino a che punto è possibile costruire il proprio intervento didattico su princi- pi divergenti da quelli naturali, ovvero per capire quanto l’insegnamento influisca e possa influire sull’apprendimento.

2.

Varietà di apprendimento

Le ricerche sull’acquisizione delle seconde lingue, avviati oramai da diversi decenni, hanno portato ad alcuni risultati condivisi da tutti gli studiosi. Il risultato probabilmente più importante è stato la definizione del concetto di interlingua. Si intendono, con interlingua, le varietà di apprendimento di una lingua, ovvero la lin- gua così come è usata da coloro che stanno apprendendo quella lingua come lingua non materna. L’enunciato:

1) Io palale italiano no bene

è un esempio di varietà di apprendimento (o interlingua) di italiano, così come l’e- nunciato:

2) Si informa la gentile clientela che siamo in arrivo nella stazione di Asti

è un esempio di varietà di italiano burocratico, in particolare degli annunci ferroviari. L’adottare l’etichetta di interlingua o di varietà di apprendimento per enunciati come quello in (1) non è una semplice operazione di restyling sul concetto di ‘erro- re’ (cioè non significa semplicemente chiamare ‘interlingua’ ciò che avremmo potu- to chiamare ‘enunciato italiano realizzato in modo scorretto, probabilmente da uno straniero’), ma porta a mutare considerevolmente l’approccio che si ha ai dati di apprendimento. Parlare di interlingua o di varietà di apprendimento significa infatti: • riconoscere che nell’uso che gli apprendenti fanno della seconda lingua esistono regolarità tali da poter riconoscere a questi usi lo statuto di vera e propria lingua; • ipotizzare che gli apprendenti, di fronte alla lingua non conosciuta, non reagisca-

no copiando in modo confuso e casuale frammenti di enunciati recepiti dai par- lanti nativi, ma si servano di questi enunciati come indizi per ricostruire un vero e proprio sistema di regole, cioè una grammatica; questa grammatica, diversa da quella della lingua dei nativi, si modifica costantemente nel corso del tempo asso- migliando sempre più alla grammatica della lingua dei nativi.

Un esempio renderà immediatamente evidente che cosa si intende con ‘gramma- tica di interlingua’. Un parlante adulto nativo di italiano (cioè di italiano L1), per indi- care un evento già accaduto e concluso, si serve di una forma del verbo per lo più ter- minante in -to (il participio passato), preceduta da una forma dell’indicativo presente del verbo avere o essere:

Parlante adulto di italiano L1:

evento accaduto e concluso

ho mangiato, ho detto, sono caduto, ho spinto…

Un apprendente di italiano di livello iniziale1per indicare un evento già accaduto

e concluso, si serve di una forma del verbo per lo più terminante in -to: Apprendente iniziale di italiano L2:

evento accaduto e concluso

mangiato, mangeto, detto, dicito, cadato, spingiato, spingiuto…

Pur nell’estrema variabilità delle forme, e pure se esse spesso non coincidono con quelle dell’italiano nativo adulto, non possiamo negare che esista una regolarità, una regola appunto. Queste forme di passato, che somigliano al participio passato dell’i- taliano dei nativi – anche se non sempre coincidono con esso –, sono una delle prime regole della grammatica di interlingua dell’italiano, che potremmo grossomodo descrivere così: «in italiano, per indicare un evento già accaduto e concluso, si usa la forma ‘verbo-to’». Nel corso del tempo, a queste regole se ne aggiungeranno altre, come: “per indicare un evento del passato mentre si sta svolgendo, si usa la forma verbo-va (ad es.: mangiava, diciva, cadeva, spingiava)”; inoltre, la regola iniziale diventerà più complessa, ad esempio: «per indicare un evento già accaduto e conclu- so, si usa la forma ‘verbo-to’ preceduta dal verbo avere: ho, hai, ha (ho mangiato, ho

detto, ho dicito, ho cadato, ho spingiato)». In questo modo, a poco a poco, la gram-

matica dell’interlingua diventa sempre più simile a quella nativa dello stadio finale. Gli esempi proposti e il loro commento riflettono il metodo osservativo che si è fatto a poco a poco strada negli studi sulle varietà di apprendimento. Da un approc- cio iniziale prevalentemente orientato sulle lingue di arrivo, ovvero orientato a valu- tare – in termini di errore – la “differenza” fra la lingua degli apprendenti e quella dei nativi, si è sempre più passati ad osservare le produzioni degli apprendenti “di per sè”, cercando di ricostruire il sistema di regole che ne è alla base. Intendiamo quindi nel seguito illustrare queste due prospettive:

• analisi dell’interlingua in prospettiva “contrastiva” (per confronto con la varietà dei nativi);

• analisi dell’interlingua in prospettiva “interna”.