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Rivista di diritto finanziario e scienza delle finanze. 1992, Anno 51, dicembre, n.4

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DICEMBRE 1992

Pubblicazione trimestrale

Anno LI - N. 4

RIVISTA DI DIRITTO FINANZIARIO

E S C I E N Z A D E L L E F I N A N Z E

F o n d a ta d a B E N V E N U T O G R I Z I O T T I

(e

R IV IS T A IT A L IA N A D I D IR IT T O F IN A N ZIA R IO )

D I R E Z I O N E

ENRICO Al l,ORTO - EMILIO GERELLI _ _ _

COMITATO SCIENTIFICO ^ A aO O i jV >*.. J & , 0 ,\a

ENRICO DE MITA - ANDREA FEDELE - FRANCESCO /O R Ak w ,

FRANCO GALLO - SALVATORE LA ROSA - IGNAZIO M X N Z m l : y

GIANNINO PARRAVICINI - ANTONIO PEDONE - ALDO fiCWTO SERGIO STEVE

COMITATO DIRETTIVO ROBERTO ARTONI FILIPPO CAVAZZIITT

-\ U < o v

AUGUSTO KANTOzSkO ' ® w Q l A

n o u n n i o r i n v i l i - r o l l i o V \

G. FRANCO GAFFURI - DINO PIERO GIARDA - EZIO L A N C E L L O T T f> ì^ -ii ITALO MAGNANI - GILBERTO MURARO - LEONARDO PERRONE ENRICO POTITO - PASQUALE RUSSO - GIULIANO TABET FRANCESCO TESAURO - GIULIO TREMONTI ROLANDO VALIANI

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(2)

P u b b licazion e so tto gli a u spici del D ip a rtim en to di E con om ia pu b b lica e territoria le d ell’ U niversità, d ella C a m era di C om m ercio di P a via e d ell Istitu to di d iritto p u b b lico d ella F a co ltà di G iu rispru d en za d ell’ U niversità di R om a. Q uesta R ivista v ien e p u b b lica ta con il con trib u to fin a n zia r io d el Consiglio N azion a le d elle R icerch e.

Direzione e Redazione: D ip a rtim en to di E con om ia p u b b lica e territo ria le d el­

l’ U n iversità , Strada Nuova 65, 27100 Pavia; tei. 0382/387.406, (Fax) 387.402. Ad essa debbono essere inviati bozze corrette, cambi, libri per recensione in duplice copia.

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Registrazione presso il Tribunale di Milano al n. 104 del 15 marzo 1968 Iscrizione Registro nazionale stampa (legge n. 416 del 5.8.81 art. 11)

n. 00023 voi. I foglio 177 del 2.7.1982 Direttore responsabile: Emilio Gerelli Rivista associata all’ Unione della Stampa Periodica Italiana

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(3)

IN D IC E -S O M M A R IO

P A R T E P R I M A

Am edeo Fossati- Etica e governo locale

Gilberto Muraro - Central Appraisal and Financing o f Local Projects:

Physiology and Pathology ... 617

Diego Piac e n tin o - Carbon Taxation and Global Warming: Domestic Policy

A sp ects... 636

Franco Gallo - Discrezionalità nell’accertamento tributario e sindacabilità

delle scelte dell’u ff i c i o... 655

Angela Monti - La motivazione dell’accertamento e l ’inversione dell’onere

della prova nell’accertamento operato tramite l ’utilizzo dei « coeffi­ cientipresuntivi » ... 670 A PPU N TI E RASSEGNE

Luisa Rim in i- La riforma fiscale svedese ... 686

NUOVI L IB R I 711

RASSEGNA D I PU BBLICAZIONI RECEN TI 715

P A R T E S E C O N D A

Maria Ce c il ia Fregni - Sulla diretta applicabilità delle direttive comunita­ rie nell’ordinamento tributario italiano ... 89 Ba r bara Ro ssi - Riflessioni sull’applicabilità dell’art. 327 c.p.c. al processo

tributario... 102 SENTENZE ANNOTA TE

Diritto tributario comunitario - Atti comunitari - Direttive - Applicazione immediata - Presupposti - Norma interna contrastante con la direttiva - Fattispecie in materia tributaria - Inapplicabilità della norma nazio­ nale - Questione di legittimità della norma nazionale - Inammissibilità (Corte Cost., 18 aprile 1991, n. 168) (con nota di Mar ia Ce c ilia Fre

-g n i) ... 85 Diritto processuale tributario - Appello - Termini - Art. 327 c.p.c. - Appli­

cabilità (Cass., Sez. Un., 20 gennaio 1992, n. 668) (con nota di Ba rba­

(4)

Guida ai periodici

per le professioni

dell’ammimstrazione

pubblica locale

Testate di grande tradizione

e più recenti iniziative editoriali

classificate e presentate

a funzionari

e amministratori pubblici

D

DIRITTO: FONTI E ATTIVITÀ’ Legislazione

Giurisprudenza ^ lin a m e n t e ^giudiziario

Ricerche e studf^iuridici

ASSETTO E ORGANIZZAZIONE DELLE AUTONOMIE LOCALI

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a s s e t o t e r r i t o r i a l e Urbanistica Tr^porti Labbri pubblici

Edilizia economica e popolare Ecologia

En§-gia

RICERCHE E STUDI POLITICI Attualità e interventi ,

(5)

Rivista di diritto finanziario e scienza delle fin a n ze, LI, b, I, 589-616 (1992)

ETICA E GOVERNO LOCALE (*)

di

Am e d e o Fo s s a t i

Istituto di fin an za - Facoltà di economia e commercio Università di Genova

So m m a r io: 1. Premessa. -— 2. Etica, morale ed ideologie. — 3. L ’etica e gli econo­ misti. — 4. Divagazioni sull’etica nel modello neoclassico. — 5. L ’etica e l’intervento pubblico. — 6. Sistemi etici e livelli di governo subcentrale. — 7. L ’etica ed il modo di governare.

1.

Premessa.

Sembra che per Aristotile non si debba parlare di etica fino a

cinquantanni: forse egli pensava che solo la saggezza della tarda

età permetta di trattare tali temi in modo adeguato, o forse, tenen­

do conto che allora quasi tutti morivano prima, per Aristotile solo

pochi eletti dovevano interessarsi di problemi etici. Certo è che

adesso molti economisti (anche giovani e vigorosi) studiano le inter­

relazioni tra etica ed economia, forse indotti da quella adesso così

diffusa tendenza ad applicare le metodologie economiche non solo

alle altre scienze sociali, ma anche a tutti i problemi di scelta: ad

esempio, « comprare » bambini, tendenza che è stata efficacemen­

te chiamata « spedizioni “ imperialiste” degli economisti » (1).

Per quanto mi riguarda, confortato dal fatto di essere in posi­

zione canonica (dal punto di vista aristotelico appena ricordato) mi

propongo, partendo dalla teoria dei livelli di governo subcentrali,

di porre dei quesiti etici e di suggerirne possibili linee di sviluppo; a

tale fine mi soffermerò prima di tutto su ciò che si intende per etica

e poi su quello che gli economisti intendono per etica. Nel seguito

(*) Relazione presentata al Seminario Siep “ Federalismo fiscale e fin an zia­ mento dei servizi pubblici locali” - Ferrara 18-19 settembre 1992. Ringrazio i par­ tecipanti al seminario, e don Giacomo Grasso o.p., le cui osservazioni ad una pri­ ma stesura mi sono state preziose.

( ! ) Hirsch m an (1987), p. 108.

(6)

— 590

cercherò di applicare tali nozioni all’economia pubblica ed infine

avanzerò alcune riflessioni su come la considerazione di principi

etici possa influire sulla teoria e sulla prassi dei governi locali. Con­

cluderò infine con qualche osservazione sulle disinvolte cosuetudini

che hanno portato recentemente problemi con 1 autorità giudiziaria

a più di un amministratore locale, pur senza avere l’ambizione di

spiegare direttamente problemi etici connessi con tale fenomeno.

2.

Etica, morale ed ideologie.

La prima nozione che mi sembra utile rinfrescare mi pare

quella di moralità o morale pratica, intesa come l’insieme di giudizi

morali intuitivi che presiedono alle nostre azioni. Allora l’etica do­

vrebbe spiegarne razionalmente i principi e metterne in evidenza

le leggi: in sintesi, etica e morale sono sinonimi nel senso di dottri­

na filosofica o religiosa che studia o definisce i doveri-obblighi mo­

rali ovvero i principi di condotta dell’agire umano secondo la dico­

tomia bene-male o giusto-errato. Ma sono sinonimi anche nel senso

di insieme di principi o doveri morali, ossia valori (morali) che im­

prontano le scelte di un soggetto o dei soggetti appartenenti ad una

collettività (2).

In secondo luogo, rispolverando vecchi manuali, l’etica come

dottrina filosofica mi è risultata articolata in tre problematiche, ossia:

a)

data la libertà di agire, il possibile contrasto tra ragione e

volontà genera l’imperativo morale e la capacità di trasgredirlo;

b)

la determinazione del bene supremo dell attività morale,

che dalla ragione è indicato come la realizzazione massima della

natura razionale umana;

c) la determinazione dei doveri verso noi stessi e verso gli al­

tri (doveri sociali).

A questo punto, così equipaggiato mentalmente, mi sentivo

pronto ad affrontare la letteratura economico-etica; tuttavia, leg­

gendo, a poco a poco mi è parso che non si trattasse esattamente

delle stesse cose: qualche cosa mancava mentre comparivano altri

elementi. In effetti, per quanto riguarda più propriamente la pro­

blematica dell’etica-economia, il punto di partenza sarebbe l’assio­

(7)

— 591 —

ma che esiste un senso morale nell’uomo, da cui scaturiscono i no­

stri giudizi morali intuitivi. Tali giudizi sono usualmente considerati

prescrittivi nel senso che sono prescrizioni di corsi di azione alter­

nativi, e quindi non cognitivi, ossia non esprimono valori vero-fal­

so. Si tratlerebbe perciò non tanto di derivare costruzioni descritti­

ve, ossia regole di impiego del linguaggio morale, quanto teorie

normative induttive, sia assiomatiche sia descrittive, caratterizzate

dal fatto che le prescrizioni delle teorie devono accordarsi ai giudizi

intuitivi; in caso contrario si concluderebbe che le teorie sono falsi­

ficate da un mancato accordo.

Evidentemente questo approccio della moderna filosofia ha

praticamente lasciato cadere la parte descrittiva, ed in particolare

l’analisi della determinazione del bene supremo dell’attività mora­

le, che invece appariva come la parte più rilevante dell’etica in

senso di dottrina tradizionale, per preoccuparsi invece della costru­

zione di teorie etiche normative. Anche se all’inizio mi sono più di

una volta sorpreso a simpatizzare con quel modo (giustamente stig­

matizzato da Sen) di considerare l’etica secondo il quale afferma­

zioni ‘ meaningless’ o ‘nonsensical’ sono prontamente considerate

etiche (3), mi pare di aver capito che il filo conduttore dei tentativi

etico-economici sia il suggerimento di schemi normativi, sottoposti

a controlli convenzionali, in grado di dare giustificazione alle istitu­

zioni economiche, o in parole più precise: « la proposta di argo­

menti normativi tesi a giustificare o rifiutare giustificazione a date

pratiche, organizzazioni o istituti dell’economia, attraverso l’appli­

cazione di teorie normative, sottoposte a controllo logico, linguisti­

co e metodologico » (4).

Poiché a volte sono usati anche altri termini parzialmente so-

vrapponentisi, come cultura, ideologia, credenze, valori, ecc., mi

pare che possiamo qualche volta assumere tutti questi termini l’uno

per l’altro in accezioni più o meno diverse, ma sembra opportuno

riservare per i sinonimi etica o morale il campo di azione del bene

e del male, ovvero i valori o le credenze o le idee in tale materia.

In un certo senso, pertanto, l’etica ha un campo assai più ristretto

dell’ideologia, della cultura, dei valori e delle credenze. Ad esem­

pio, se sono un economista neoclassico ho l’ideologia capitalista (del

(8)

— 592

mercato) e credo nell’/¿amo economicus. Al contempo posso essere

calvinista, musicologo e razzista nonché igienista, amante del giar­

dinaggio e della buona cucina: tutto rientra nella mia cultura. Ma

se credo di essere un predestinato e mi comporto in conseguenza,

tale mia credenza (chiaramente etica o morale) è solo una parte

delle cose in cui credo, ovvero dei miei valori o delle mie idee.

3.

L’etica e gli economisti.

Si afferma solitamente che gli economisti abbiano cominciato a

confrontarsi seriamente con l’etica da circa vent’anni (5): ma sem­

bra giusto ricordare — a parte i precedenti costituiti dai filosofi

greci, che bene o male facevano anche affermazioni di contenuto

economico — che l’economia come disciplina è figlia della filosofia

e della morale (6). In effetti Adamo Smith era di professione « mo-

ral philosopher

», e oltre alla Ricchezza delle nazioni scrisse altre

cose, tra cui la Theory of Moral Sentiments; negli autori classici so­

no poi presenti esplicitamente od implicitamente dei principi etici.

In effetti la Chiesa cattolica considerava la scienza economica ai

tempi dell’edonismo contraria alla sua dottrina, in quanto tali prin­

cipi etici erano contrari al proprio sistema morale (7).

La rottura tra etica ed economia avvenne chiaramente con la

distinzione di Pareto tra massimo « per » e massimo « della » col­

lettività, ma si diffuse internazionalmente nella coscienza degli eco­

nomisti negli anni trenta di questo secolo col « manifesto » del

Robbins (8). A partire da tale data venne più o meno ritenuto ovvio

che la scienza economica fosse neutra rispetto ai giudizi di valore

nel senso che essa fosse esclusivamente interessata alle scelte eco­

nomiche basate sull’ipotesi di razionalità dei soggetti, assumendo

come dati esclusivamente i gusti ed i vincoli. Nel revival neoclassi­

co, pertanto, (marginalismo, equilibrio generale, utilità ordinale,

razionalità economica, massimizzazione vincolata, incomparabilità

interindividuale delle utilità, ottimo paretiano) sembrava non ci

fosse più spazio per concetti « non scientifici » come i principi etici.

(5) E cioè a partire da Raw ls (1971). (6) Sen (1987), p. 2.

(7) Duchini (1989), p. 120.

(9)

593

[ n tale impostazione il paradigma neoclassico veniva conside­

rato poggiare sugli interessi egoistici dei soggetti economici, conci­

liati fino a raggiungere l’efficienza economica (l’ottimo paretiano)

dall’esistenza del mercato. Dal punto di vista positivo tutto era

compendiato nel primo teorema del benessere (il punto di equili­

brio concorrenziale è un ottimo paretiano o equilibrio efficiente);

dal punto di vista normativo tutto quello che rimaneva da dire era

espresso dal secondo teorema del benessere (qualunque punto di

ottimo paretiano può essere raggiunto dal mercato concorrenziale

mediante adeguati trasferimenti non distorsivi). E evidente che la

coscienza sociale dell’economista era fatta salva proprio da questo

secondo teorema, per mezzo del quale potevano rientrare in gioco i

giudizi di valore o etici, ovvero la nozione di bene e di male, di giu­

sto e di ingiusto. Se infatti il punto di equilibrio effettivo (paretiano)

appariva eticamente repellente all’economista nella sua incarnazio­

ne di moralista, egli poteva proporre una adeguata redistribuzione

delle risorse, in modo da raggiungere — sempre attraverso il mer­

cato — un altro punto di ottimo paretiano, tale da soddisfare il suo

senso etico.

Tuttavia è chiaro che tale posizione indebolisce assai l’influen­

za politica degli economisti, che appaiono privati, in quanto tali, di

gran parte del potere propositivo ossia dell’influenza sugli indirizzi

delle politiche economiche, anche se rimane la tematica del sugge­

rimento delle correzioni da apportare al mercato verso il raggiungi­

mento della libera concorrenza: « l’obbligare l’economista ad occu­

parsi unicamente di efficienza significa, de facto, condannarlo trop­

po spesso al mutismo nei confronti con la maggior parte degli inter­

venti pubblici » (9). Non è probabilmente un caso che il risveglio

dell’etica sia praticamente coincidente con il tramonto dell’imposta­

zione keynesiana: quest’ultima non aveva bisogno dell’etica per

proporre la figura dell’economista deus ex machina dell’economia

nazionale, in quanto l’affermazione di andare ricercando l’equili­

brio di piena occupazione equivale in senso lato alla ricerca dell’ot­

timo paretiano.

Il risorgere dell’impostazione neoclassica è pertanto accompa­

gnato dal risveglio dell’interesse per l’etica, che mi sembra prenda

spunto da tre considerazioni che appare opportuno distinguere, an­

(10)

— 594 —

che se presentano aree di sovrapposizione. La prima mi sembra in­

dividuabile dall’approccio interdisciplinare con la filosofia: qui il

punto di partenza è dato dalla critica che la sistemazione robbinsia-

na dell’economia senza giudizi di valore è in realtà basata su un si­

stema etico (sia pure minimale), e da ciò si procede alla ricerca di

alternativi sistemi etici su cui fondare la scienza economica (ad

esempio: utilitarismo, convenzionalismo, liberalismo, contrattuali­

smo, ecc.). La seconda prende come punto di partenza la critica al

welfarismo, nel senso che ritiene che le scelte dei soggetti economi­

ci non possano essere effettuate solo su considerazioni economiche,

ma anche su altri e differenti valori (10). La terza considerazione,

infine, è la continuazione degli sforzi a partire da Arrow per arriva­

re ad una funzione (o ad un ordinamento) del benessere sociale, o

comunque ad un criterio di scelta collettivo (11). Qui il punto è che,

se si vuole che siano soddisfatti miti requisiti di ragionevolez­

za (12), sono stati dimostrati vari teoremi di impossibilità; per pro­

cedere occorre allora allentare la portata di qualche assioma o ri­

durre in qualche modo le pretese di misurabilità ordinale delle uti­

lità e di incomparabilità interindividuale, così che servono dei prin­

cipi etici, a partire daH’utilitarianismo ed oltre, per provvedere al

« ponte » tra le sensibilità dei vari soggetti (13).

La prima considerazione, ossia l’abbraccio interdisciplinare

con la filosofia, a ben vedere, si risolve in un problema di scelte in­

terindividuali in quanto l’etica diventa un problema di giustizia o di

giustizia sociale: ma in tale modo si arriva ad una concezione di eti­

ca particolarmente riduttiva.

In effetti alla moderna economia del benessere è essenziale il

concetto di efficienza economica, a sua volta basato sull’individuali­

smo e sul principio di Pareto, intesi come « ethical principles » nel

senso di giudizi di valore (14). Ma sono considerati principi etici

anche gli assiomi della indipendenza dalle alternative irrilevanti e

dell’unrestricted domain-,

più in generale, quando ci si pone il pro­

(10) Sen (1987); Etzio n i (1988); Elster (1986).

(11) Il riferimento essenziale è all’opera di Se n.

(12) Si tratta in particolare di: i) unrestricted domain, ossia qualsiasi confi­ gurazione logicamente possibile degli ordinamenti di preferenza degli individui; ii) principio debole di Pareto, ossia che se una situazione è preferita ad un’altra da ciascuno, ciò deve valere anche per la collettività; iii) indipendenza dalle alter­ native irrilevanti; iv) non dittatoriale.

(11)

— 595 —

blema di valutare differenti equilibri oltre al criterio paretiano, os­

sia il problema di scegliere tra differenti stati sociali implicanti con­

flitti tra le utilità individuali, occorre disporre di una teoria della

giustizia, intesa come struttura logica costruita su un insieme di

giudizi di valore o postulati etici, ossia occorre disporre di un siste­

ma etico interindividuale, così che l’etica finisce con l’essere sem­

plicemente la giustizia sociale (15).

In altri termini il problema è di decidere tra A et B, caratteriz­

zati dal fatto che l’ordinamento del soggetto 1 è tale da preferire A

a B, mentre per il soggetto 2 è B preferito ad A. Per decidere devo

avere dei criteri, ossia per decidere devo appoggiarmi a dei valori

o giudizi di valore: nella letteratura etico-economica a tali giudizi di

valore viene dato il nome di giudizi o principi etici.

In tale situazione sembra opportuno notare ancora che il ter­

mine « etico » è usato in modo che il bene ed il male, o i doveri e

gli obblighi sono bensì interessati, ma soltanto dopo che si è co­

struita la teoria della giustizia ossia il sistema etico. Ma allora si

possono fare esempi in cui la decisione tra A et B abbia differenti

profili etici anche in presenza di un particolare insieme organico di

giudizi di valore. Ad esempio, sia A lo stato del mondo in cui Mao­

metto ha arrosto di montone mentre Maria ha quello di maiale, e lo

stato B viceversa; circa le preferenze individuali sia Maometto sia

Maria preferiscono il maiale; il sistema etico sia tale da portare al

criterio etico operativo « favorire Maometto »: in tali ipotesi la

scelta dovrebbe ovviamente cadere sullo stato B. Ma se tuttavia a

Maometto la sua religione proibisce di mangiar carne di maiale, il

principio etico « favorire Maometto » andrebbe o non andrebbe in­

terpretato in una ottica « super-etica », in modo da tener conto del­

le etiche individuali? E se invece il criterio fosse « favorire il più

buono » oppure « favorire il più bello » o ancora « favorire la fem­

mina », tali giudizi etici non avrebbero a loro volta rispettivamente

valenza etica, estetica o sessuale?

Il problema essenziale che interessa gli economisti etici sem­

bra essere quindi la tensione che si verifica tra l’interesse indivi­

duale razionalmente perseguito, ed un qualche concetto dell’inte­

resse collettivo inteso come criterio etico, ossia la tensione tra ra­

(12)

— 596 —

zionalità ed etica (16): tensione esemplificata tipicamente come un

dilemma del prigioniero. In tale senso, una teoria etica normativa

deve formulare giudizi morali in modo da soddisfare ai requisiti ge­

nerali metaetici della universalizzabilità e della imparzialità, e cioè

rispettivamente in modo che la validità dei giudizi possa essere

estesa a tutti i casi simili, qualunque sia il soggetto; e in modo da

trattare « imparzialmente le caratteristiche morali (pretese, ragio­

ni, diritti, bisogni, ecc.) che definiscono i protagonisti di una data

teoria morale » (17).

Per meglio chiarire le idee ricordo adesso alcune delle più note

teorie etico-normative, senza alcuna pretesa né critica né di com­

petenza espositiva, ma solo per fissare le idee su qualche cosa di

concreto, se così posso dire, in modo convenzionale. Ciò vale in

particolare a giustificare la non considerazione del liberalismo, qui

non trattato direttamente, e per le teorie dei diritti, qui raggruppa­

te in modo differente ad esempio da quanto fatto in Granaglia (18).

Il paretianesimo e l’utilitarismo hanno in comune il welfarismo

ed il consequenzialismo, e cioè, rispettivamente, sono fondati sul­

l’assunto che la valutazione etica di ogni situazione sia basata sol­

tanto sulla utilità individuale, e che ogni scelta sia basata sulla con­

siderazione degli effetti ultimi delle scelte stesse, e cioè le scelte ri­

guardanti azioni devono essere fatte tenendo conto esclusivamente

degli effetti sullo stato del mondo che viene posto in essere come

conseguenza dell’azione stessa (19). L ’utilitarismo ha, in più, la

massimizzazione della somma delle utilità individuali (20), anche se

le sue varie versioni differiscono in raffinatezza, dall’edonismo ori­

ginario di Bentham alla versione di Harsany (21), che tra l’altro

sposta la massimizzazione dalle singole azioni alle regole di azione.

Per il contrattualismo in particolare l’idea sembra essere quel­

la di trovare un modo soddisfacente per arrivare a considerare una

scelta etica come risultato di una scelta razionale, dove la scelta

etica fondamentale è l’ingresso in società, ossia l’adesione al grup­

po sociale: « Il contrattualismo può così essere visto come la teoria

(16) Ham lin (1986), pp. 2-5. (17) Saccon i (1991), p. 37. (18) Gran aglia (1990). (19) Ham lin (1986), p. 63. (20) Sen (1987), p. 39.

(13)

— 597

della giustificazione morale delle istituzioni sociali » (22). Gli agen­

ti, che sono dotati di ragione, in un primo momento stabiliscono ac­

cordi circa le istituzioni sociali, ed in seguito cooperano secondo gli

accordi; secondo il contrattualismo ideale (Rawls), ciò deriva dalla

scelta razionale sotto il velo dell’ignoranza (nessuno sa chi sarà, e

quindi sono rispettate sia la universalizzabilità sia la imparzialità).

Nel contrattualismo reale (Buchanan) questi caratteri sono com­

pendiati nel rispetto delle preferenze individuali, che a sua volta

consente la adesione unanime al contratto istituzionale.

Circa le teorie dei diritti, questi ultimi sono concetti morali pri­

mitivi, con i quali non solo si determina quello che gli altri non de­

vono fare, ma anche quello che gli altri devono fare nei riguardi di

ciascun soggetto. Si tratta quindi di un approccio deontologico, e

non consequenzialista o teologico come l’utilitarismo o il paretiani-

smo. Per Nozick il valore morale può essere riferito solo ai vincoli

che tutelano i diritti inviolabili degli altri (diritti-libertà), e che in

un certo senso costituiscono dei filtri: solo le istituzioni sociali che

non violano tali diritti (che passano attraverso tali filtri) sono pro­

ponibili; in effetti Nozick, come è noto, è un assertore dello Stato

minimo, in quanto per lui i diritti morali sono intesi come libertà

negative, ossia libertà da interferenza da parte di altri.

Per Dworkin i diritti sono principi morali « forti », o carte vin­

centi che consentono la priorità sugli obiettivi collettivi: si tratta

quindi di diritti-pretesa, alla base dei quali ci sono i due principi

della dignità umana (ogni persona è fonte di valore morale in sé) e

della democrazia, nel senso che ciascuno deve partecipare al go­

verno della cosa pubblica con lo stesso peso degli altri. Tuttavia

questa impostazione è bensì compatibile con la libera concorrenza

intesa come mero scambio (test dell’invidia), ma non con una eco­

nomia produttiva (23).

Infine, per quanto riguarda il convenzionalismo di von Hayek,

ci si può riferire al contrattualismo come quadro generale, con la

variante suggestiva che qui non si tratta di arrivare ad accordi vo­

lontari, ma l’accettazione delle regole di convivenza avviene nella

forma di assuefazione a convenzioni autoformatesi attraverso l’evo­

luzione dei gruppi sociali. Per von Hayek l’individuazione di tale

(22) Saccon i (1991), p. 69.

(14)

— 598 —

ordine spontaneo rappresenta una considerazione euristica di note­

vole importanza, e al tempo stesso una confutazione del meccani­

smo irreale di formazione dei vari accordi volontari o contratti.

Le regole morali (o convenzioni) sono in larga massima osser­

vate spontaneamente, perché ciascuno si rende conto della loro uti­

lità sociale (e quindi anche propria), generando un sentimento di

appartenenza alla collettività. In tutti i modi « gli unici valori co­

muni di una società libera e aperta... [sono] quelle comuni norme

di comportamento astratte che assicurano] il mantenimento co­

stante di un ordine egualmente astratto, il quale assicura] agli indi­

vidui migliori prospettive di raggiungere i loro fini individuali, ma

non [dà] loro diritti su cose particolari (24).

4.

Divagazioni sull’etica nel modello neoclassico.

Il problema che gli etici-economisti cercano di risolvere po­

trebbe forse essere individuato nella sostanziale possibilità di con­

traddizioni interne provocate dalla eventuale esistenza di un siste­

ma etico del soggetto, piuttosto che nel problema formale di andare

alla ricerca di sistemi morali da applicare al modello neoclassico.

In altri termini, la massimizzazzione dell’utilità indicherebbe al

soggetto delle scelte, mentre altre scelte gli sarebbero suggerite dal

suo sistema etico, e tali scelte potrebbero essere tra loro incompati­

bili. Se io voglio essere un buon cristiano e voglio massimizzare le

mie entrate esiste tensione tra il mio io etico ed il mio io economico:

devo scartare attività immorali come il traffico di droga, oppure de­

vo accontentarmi di un livello inferiore di moralità. A tale proposi­

to una via d’uscita potrebbe consistere nel postulare una super fun­

zione di utilità che includa anche gli argomenti etici, ma la cosa non

sembra soddisfacente, sopra tutto nella considerazione delle prefe­

renze rivelate.

Questa riflessione può essere generalizzata in riferimento alla

più ampia nozione di cultura, nel senso che i soggetti economici in

realtà hanno una cultura che comprende aspetti etici, sociali, eco­

nomici, musicali, ecc. Le scelte etiche, sociali, economiche, musi­

cali, ecc. sono bensì indotte dallo specifico aspetto o lato culturale

rispettivamente etico, sociale, economico, musicale, ecc., ma risen­

(15)

— 599 —

tono in generale anche di tutti gli altri aspetti e dei relativi vincoli.

In altri termini, per farmi una bella mangiata devo « dimenticare »

i miei vincoli dietetici e morali (peccati di gola?), oltre che superare

i vincoli di bilancio. Mentre prima si considerava solo il possibile

contrasto economico-morale, adesso la sfera dei possibili contrasti

si amplia consistentemente, in quanto si considera tutto l’orizzonte

culturale di cui l’aspetto etico è solo una componente.

A parte ciò, la ricerca di sistemi morali da sovrapporre alla

teoria economica è affrontata dagli etici-economisti molto spesso

sulla base delle difficoltà di funzionamento del mercato: quest’ulti­

mo per funzionare ha bisogno, oltre che del banditore, anche di

uno Stato sia pure minimo. Qui si entra da un lato nella problemati­

ca del free rider, e dall’altra in quella del dilemma del prigioniero.

Il free rider, come è noto, è il viaggiatore che non paga il biglietto,

usufruendo quindi del servizio a spese degli altri viaggiatori, men­

tre per il dilemma del prigioniero qui è considerata in generale

quella classe di giochi per i quali il risultato di ciascun soggetto è

determinato anche dalla strategia degli altri soggetti, in modo tale

per cui la strategia non cooperativa è quella dominante, mentre

quella cooperativa è paretianamente superiore. La differenza mi

sembra consistere nel fatto che mentre il free rider è un caso di

conflitto tra un problema etico (ad esempio l’imperativo di non dan­

neggiare gli altri) ed un problema economico (minimizzare il costo

del trasporto), il prisoner’s dilemma non mi sembra implicare ne­

cessariamente tensioni con il sistema etico di ciascun soggetto. Nel

dilemma del prigioniero si resta nel campo esclusivamente econo­

mico se il gioco è economico, estetico se il gioco è estetico, ludico se

il gioco è un passatempo, ecc. Non pagare le tasse implica avvan­

taggiarsi indebitamente danneggiando ingiustamente gli altri (cosa

che mi è vietata dal mio imperativo categorico), mentre nella scelta

tra cooperare e non cooperare giocando a risico il mio imperativo

tace, ovvero non mi obbliga a cooperare. Ciò sembra vero a condi­

zione, bene inteso, che il sistema etico individuale non includa, tra

i doveri verso gli altri, anche quello di una qualche forma di coope­

razione.

(16)

Ínterin-— 600 Ínterin-—

dividuali, e l’etica come giustizia sociale. Ma mi sembra anche che

si commetta una imprecisione quando si imposta la problematica

del prisoner’s dilemma come un problema etico: da tale distorsione

di ottica possono forse scaturire quanto meno una sene di falsi

problemi.

Con ciò non intendo negare che in generale la collaborazione

sia assai importante: essa pervade ogni azione economica di cia­

scun soggetto, ed in particolare presiede al funzionamento dei mer­

cati; in effetti i rapporti interindividuali sono sempre un compro­

messo tra armonia e conflitto (25). Ogni nostra azione economica

implica in qualche modo la collaborazione con altri soggetti econo­

mici, collaborazione che a sua volta è il risultato di una qualche

composizione dei conflitti, e che avviene non solo attraverso delle

assunzioni esplicite (contratti giuridici), ma anche e sopra tutto con

l’implicito mutuo rispetto di convenzioni o regole del gioco di varia

natura, senza le quali non potrebbe aver luogo nella società orga­

nizzata alcuna attività economica. Per altro il problema della colla­

borazione, ossia della composizione dei conflitti interindividuali in

vista in un vantaggio per tutti, non è limitato alla sfera economica,

ma riguarda qualsiasi aspetto dell’attività umana. In altri termini,

anche se accettiamo che tutte le nostre azioni siano motivate dal

nostro interesse (non necessariamente strettamente egoistico), e

che siano presiedute dal principio di razionalità, le nostre scelte so­

no limitate consciamente od inconsciamente dall’accettazione di

certe convenzioni etiche, sociali, economiche, musicali, ecc.

Ad esempio a scuola fare la spia non è un comportamento ac­

cettato tra i ragazzini, così che lo spione può anche essere menato,

qui si tratta di una mera convenzione sociale, perché

1

ragazzini (le

potenziali spie) sanno benissimo che è stata violata una norma di

comportamento eticamente valida, e che sarebbe loro dovere rife­

rire all’autorità scolastica: la spia sarebbe anzi obbligata da un im­

perativo categorico. In campo economico, il rispetto di certe con­

venzioni è tutelato da una sanzione dell’autorità pubblica; tuttavia

quest’ultima non basta, da sola, a far osservare la convenzione, se

non in casi di singole devianze macroscopiche: la convenzione deve

essere accettata spontaneamente dalla larga maggioranza dei sog­

getti. Ad esempio l’acquisto di un bene implica lo scambio delle

(17)

— 601 —

unità monetarie contro il bene stesso, scambio che è tutelato giuri­

dicamente dallo Stato, così che se un singolo compratore prende

possesso del bene e poi si rifiuta di pagarne il prezzo, il venditore

può denunciarlo all’autorità giudiziaria. Ma se tutti i compratori si

comportassero così nessuno scambio potrebbe essere effettuato: il

mercato non potrebbe esistere.

Si potrebbe considerare tale convenzione basata su un princi­

pio etico, ed in particolare deontologico: potrei pensare che ciascu­

no osservi l’imperativo categorico di non arricchirsi indebitamente

a spese degli altri, e ciò basterebbe per permettere l’esistenza del

mercato come istituzione. Poiché tuttavia la convenzione stessa po­

trebbe essere considerata fondata su altri tipi di principi ad esem­

pio sociali (come nell’esempio sopra fatto del ragazzino spione), o

estetici, ecc., il principio etico rappresenta una condizione suffi­

ciente, e non una condizione necessaria o tanto meno necessaria e

sufficiente.

Questa considerazione porta alla conclusione che le istituzioni

economiche capitalistiche:

i) possono funzionare solo se il comportamento della larghis­

sima maggioranza degli agenti economici è normalmente basato (ol­

tre che sulla razionalità) anche su certi automatismi metaeconomici

al di fuori della sfera razionale individuale, non necessariamente

(ma molto probabilmente) identici per tutti;

ii) non necessitano di principi etici per poter funzionare;

iii) ciò malgrado certi insiemi di principi (sistemi) etici ne fa­

voriscono potentemente lo sviluppo e la permanenza.

Per recenti affermazioni sostanzialmente equivalenti al punto

i) si può fare riferimento al Novak (26), e per il punto iii) alla cor­

rente di pensiero cattolico originata dal gesuita Heinrich Pesch, e

cioè alla scuola dell’economia sociale (27), oltreché ancora al No­

vak. A conclusioni simili — circa lo sviluppo del capitalismo — era

però già arrivato il Weber (di cui è ben nota la tesi circa l’etica pro­

testante ed il sorgere del capitalismo) come è mostrato dalla se­

guente affermazione: “ Non si deve combattere per una tesi così

pazzamente dottrinaria [nota: nonostante questa ed altre avverten­

ze abbastanza chiare rimaste sempre invariate, una tale tesi mi è

(26) Novak(1982).

(18)

— 602 —

stata — è strano — ripetutamente attribuita] come sarebbe la se­

guente: che lo « spirito capitalistico »... sia potuto sorgere solo co­

me emanazione di determinate influenze della Riforma— o che

addirittura il capitalismo come sistema economico sia un prodotto

della Riforma” (28). Qui il Weber chiaramente afferma che l’etica

protestante non è né una condizione necessaria, né necessaria e

sufficiente, e neanche sufficiente, ma solo una circostanza che fa­

vorisce potentemente lo sviluppo capitalistico.

Al contrario, per quanto riguarda il punto ii) sembra che non vi

siano precedenti nella letteratura etico-economica, salva natural­

mente la somiglianza con la posizione di Robbins che pone 1 etica

fuori dall’economia in quanto confinata tra i fini (etici), mentre rile­

vanti per l’economia sono gli strumenti: e tuttavia Robbins non si

pone il problema di come possono funzionare i mercati senza prin­

cipi metaeconomici oltre all’assunto della razionalità.

La non necessarietà dei principi etici per il funzionamento del­

le istituzioni economiche sembra anzi negata dalla letteratura: ad

esempio Hirschman, dopo aver citato Hirsch che afferma la neces­

sità di valori come onestà, sincerità, fiducia, riserbo e senso del do­

vere', conclude che « Se si sommano tutti questi valori personali ne­

cessari, l’ammontare di benevolenza e di moralità per il funziona­

mento del mercato risulta piuttosto impressionante! » (29). Tutta­

via la fiducia, il riserbo e la benevolenza appartengono realmente

al campo etico o non fanno parte di quei valori metaeconomici a cui

alludevo sopra? Quello che voglio dire non e che 1 onesta, la since­

rità, ecc. non siano utili per il funzionamento dei mercati, o che non

siano sufficientemente rinvenibili concretamente tra gli operatori

economici di un certo mercato, ma piuttosto che il funzionamento

di certe istituzioni sociali possa dipendere anche da altre caratteri­

stiche non necessariamente etiche, ed in particolare dall istinto di

solidarietà o dall’idea di appartenenza ad una qualche collettività.

Solo se accettiamo che l’istinto di solidarietà o idea di appartenenza

sia un imperativo categorico le due posizioni si confondono; in caso

contrario esse restano distinte.

Per concludere queste considerazioni mi sembra di poter affer­

mare:

(19)

— 603 —

a)

che il funzionamemto dei sistemi economici capitalistici

implica certi automatismi metaeconomici nel comportamento degli

agenti economici, la considerazione dei quali può essere trascurata

o assunta implicitamente in certi contesti, ma in altri contesti (e co­

me impostazione generale) è invece importante;

b)

che nell’economia pubblica si presentano situazioni in cui

il comportamemto individuale massimizzante avvantaggia il singolo

danneggiando la collettività (free rider): in tali casi dei sistemi etici

individuali sono in grado di frenare il comportamento da free rider.

In altre situazioni il comportamento individuale massimizzante por­

ta ad equilibri non paretiani (dilemma del prigioniero), ma qui l’e­

quilibrio paretiano potrebbe essere raggiunto se i soggetti si com­

portassero secondo certe convenzioni, che non sembra debbano

avere necessariamente qualità morali; in questi casi, tuttavia, pos­

sono esistere anche altre possibilità: ad esempio 1 apprendimento

con la ripetizione del gioco. In tutti i casi la presenza di una qual­

che struttura statuale può facilitare molto il raggiungimento degli

equilibri, imponendo coattivamente delle regole di comportamento,

le quali devono tuttavia essere accettate dalla grande maggioranza

della collettività;

c) per poter avanzare oltre all’ottimo paretiano (problemi di­

stributivi nell’economia pubblica, economia del benessere) è neces­

sario un insieme di regole coordinate per poter effettuare scelte im­

plicanti conflitti interindividuali, a cui nella letteratura etico-econo­

mica si dà il nome di sistema etico. In questo caso il termine etico

può anche non aver nulla a che fare con la problematica propria­

mente morale: ad esempio, se la regola di scelta collettiva è la vo­

tazione a maggioranza.

Per banali che possano apparire tali affermazioni, la loro in­

corporazione nel modello neoclassico sembra assai importante, ur­

gente e fruttuosa. Tuttavia tale incorporazione appare lungi dal­

l’essere facile: « possiamo piuttosto prevedere che un’integrazione

efficace del ragionamento morale nell’analisi economica proceda

faticosamente, distinguendo caso per caso » (30).

5.

L’etica e Vintervento pubblico.

Appare caratteristico che a molte teorie etico-normative pro­

poste può essere apposta l’etichetta del liberalismo puro: da Nozick

(20)

— 604

e Buchanan, da Hayek al paretianesimo (31), a qualcuna di libera­

lismo progressivo nel senso che prevedono pari opportunità inizia­

le, ma poi ritornano nell’ambito del liberalismo (Dworkin e Acker-

man); in pratica, soltanto da Rawls e dall’utilitarianismo sono giu­

stificate istituzioni sociali radicalmente volte alla redistribuzione.

Ora, finché intendiamo normativo con valenza astrattamente scien­

tifica la cosa ha poca importanza, ma se passiamo al punto di vista

positivo o anche se intendiamo normativo in vista di applicazioni

sufficientemente concrete, sembra che la cosa sia di non poco mo­

mento, in quanto ben poche tra le esistenti istituzioni statuali del

capitalismo avanzato appaiono giustificate da tali teorie etico-nor­

mative.

Al contrario, se ipotizziamo che tutti gli agenti economici con­

dividano esattamente la stessa etica deontologica (ad esempio: non

rubare) l’interesse egoistico di ciascuno troverebbe dei limiti au­

toimposti, e sarebbe pertanto compatibile con l’interesse degli altri

e quindi con l’interesse della collettività. In tale ipotesi il mercato

potrebbe funzionare anche in assenza di istituzioni statuali: la mano

invisibile, per essere efficace, ha bisogno di un substrato etico. Poi­

ché nella realtà da un lato la carne è debole e dall’altro lato i siste­

mi etici degli agenti economici non coincidono esattamente, ed infi­

ne poiché usualmente esistono individui più o meno largamente de-

vianti dalla norma etica comune, le istituzioni statuali, con la loro

coazione, facilitano il normale svolgimento dell’attività economica.

La stessa conclusione vale anche per la problematica del free

riding,

in particolare per il pagamento delle imposte relativo alla ri-

partizione del costo dei servizi pubblici collettivi: agenti economici

« ragionevolmente etici » e compresenza di istituzioni statuali ren­

dono possibile lo svolgimento dell’attività economica organizzata in

forma capitalistica.

Nel caso di asimmetrie informative, di deviazioni dalla libera

concorrenza dovute a presenza di monopoli od oligopoli, di esterna-

lità alla produzione e in generale in tutti i casi di fallimento del

mercato, l’ipotesi che la maggior parte degli agenti economici siano

abbastanza etici non garantisce di per sé che il mercato, abbando­

nato a se stesso, funzioni al meglio. Ma l’intervento regolatorio

(21)

605 —

le istituzioni pubbliche, imposto coattivamente, può raggiungere

l’obiettivo nell’ipotesi — abbastanza ragionevole — che gli agenti

favoriti dalle imperfezioni dei mercati siano in generale non etici,

ma che essendo relativamente poco numerosi, possano essere for­

zati al rispetto delle regole imposte dall’autorità pubblica.

Tuttavia lo svolgimento dei processi produttivi in uno stadio di

capitalismo avanzato non richiede soltanto una ragionevole onestà

conculcata con la forza quando è necessario, ma anche spirito di

iniziativa, gusto del rischio, armonia sociale, ecc.: in sintesi, resi­

stenza di una cultura capitalistica tra i soggetti economici. Ora, un

tratto essenziale della cultura capitalistica è lo spirito di coopera­

zione, in larga misura basato su automatismi; in altri termini, oc­

corre che le problematiche del tipo « dilemma del prigioniero » sia­

no normalmente superate mediante un orientamento preferenziale

verso la cooperazione da parte della maggioranza dei soggetti. Da

questo punto di vista le istituzioni statuali capitalistiche devono

ugualmente recepire un orientamento favorevole alla cooperazio­

ne, pur senza imporla necessariamente: la possibilità di costituire

società per azioni a cui lo Stato garantisce certi privilegi (i.e. irre­

sponsabilità patrimoniale dei soci azionisti) è un esempio di tale

orientamento.

Infine, certi sistemi etici possono consentire anche un ragione­

vole grado di redistribuzione, anche se nella realtà spesso i soggetti

manifestano buone propensioni alla redistribuzione intendendo pe­

rò che siano sopra tutto gli altri a contribuire: da questo punto di

vista l’azione coercitiva dello Stato gioca un ruolo essenziale. In

conclusione, l’esistenza di sistemi etici individuali sufficientemente

uniformi tra loro (di tipo « benevolente ») appare altamente favore­

vole al funzionamento delle concrete economie di mercato.

(22)

— 606

qui si è fatto ricorso alla mera assunzione di un assioma, in Rawls

la giustificazione delle istituzioni sociali discendenti dal maximin di­

pende da una ingegnosa procedura o esperimento mentale così che

la scelta morale appare come una decisione autointeressata. Dal

punto di vista positivo (ossia come strumentazione per spiegare la

realtà) mi pare però che mentre è facile convincersi che la maggior

parte dei soggetti economici si comportano come se quasi sempre

accettassero l’imperativo (abbastanza) categorico di non rubare,

non è altrettanto facile pensare che i soggetti economici si abbando­

nino, anche una sola volta nella vita, all’esperimento rawlsiano ex

ante,

e comunque siano fedeli alle sue prescrizioni ex post.

6.

Sistemi etici e livelli di governo subcentrale.

Per prima cosa mi pare di poter avanzare alcune rapide rifles­

sioni circa l’inquadramento dei governi di livello subcentrale nelle

principali teorie etico-normative, ed in particolare in quelle ricor­

date sopra; la strategia seguita sarà quella di considerare se i diver­

si livelli di governo, giustificabili sotto il profilo di una superiorità

paretiana, sono compatibili con i detti schemi teorici. Per il mo­

mento, non sono stati presi in considerazione altri criteri (ad esem­

pio, il criterio del « rispetto di sé ») per cui la pluralità di strutture

potrebbe essere preferibile all’unico livello di governo, in quanto è

sembrato che il maggiore interesse fosse nella comparazione rispet­

to all’efficienza economica. In effetti questa procedura permette di

prendere l’avvio direttamente dalla c.d. teoria del federalismo fi­

scale (32) secondo la quale al governo centrale spetterebbero le

funzioni di mantenere il pieno impiego e la stabilità dei prezzi, non­

ché la fornitura di beni collettivi di interesse nazionale ed infine di

curare il livello desiderato di redistribuzione dei redditi, mentre ai

livelli locali sarebbe attribuita la funzione di provvedere alla forni­

tura di beni collettivi di solo interesse locale (33). Il punto è che

questa ripartizione discende proprio da considerazioni di efficienza

economica (34), anche se poi la prassi del federalismo fiscale, es­

sendo inquadrabile nel second best, tende ad allontanarsi dalla

pu-(32) Scotto (1951), Musgrave (1959), Oates (1991). (33) King (1988), p. 11.

(23)

— 607 —

ra efficienza teorica, ed in particolare a finanziare i governi locali

largamente con trasferimenti (principalmente sulla base di conside­

razioni di equità e di spillover effects), generando così effetti di ir­

responsabilità amministrativa (35).

Considerando il paretianesimo come il sistema etico-normativo

minimale (36), in cui ciascun soggetto è un massimizzatore egoisti­

co del proprio benessere in senso welfaristico, risulta che le istitu­

zioni statuali devono essere ridotte al minimo in quanto è necessa­

ria l’unanimità. In tale ipotesi (in una società composta da soggetti

differenti con differenti sistemi di valore) poiché il concetto essen­

ziale sembrerebbe essere il mercato ideale (di libera concorrenza),

e non la nozione di ottimo paretiano, si potrebbe argomentare che

sia i casi di dilemma del prigioniero sia quelli di free rider non pos­

sano essere considerati. Il paretianesimo, in quanto sistema etico­

normativo, è interessante soltanto come caso limite in cui il merca­

to funziona spinto solo dall’interesse egoistico delle parti, e pertan­

to per definizione non possono esservi considerate situazioni fuori

dal mercato stesso, come ad esempio un equilibrio di ottimo pare­

tiano con beni collettivi, perché questi ultimi non possono essere

offerti in mercato concorrenziale (37). Risulterebbe allora che le

istituzioni statuali debbano essere solo virtuali o addirittura inesi­

stenti: la loro unica giustificazione sarebbe la tutela del mercato

stesso, che tuttavia ex definizione nel sistema etico considerato fun­

ziona da solo. Se ciò è vero, a fortiori non vi è spazio per governi

subcentrali, per cui potremmo passare a considerare direttamente

il caso seguente, ossia l’utilitarismo; tuttavia si potrebbe considera­

re una versione più pragmatica come ad esempio quella di Fasiani

dello stato cooperativo in cui la classe eletta per definizione perse­

gue il massimo per la collettività, ossia l’ottimo paretiano (38). In

tale caso, superati i grossi problemi informativi, possono esistere

istituzioni pubbliche non solo per la fornitura di beni collettivi, ma

anche per ovviare ai casi di fallimento del mercato: rimangono ri­

gorosamente escluse solo quelle istituzioni che hanno per oggetto

(35) Rey (1991), p. 212.

(36) Si veda ad esempio in Ha m lin (1986); sostanzialmente nello stesso sen­ so anche Nicola(1983).

(37) Il fatto che i teoremi del benessere siano stati dimostrati anche in pre­ senza di beni collettivi non mi sembra sposti i termini della questione; cfr., ad esempio Dasgupta, Ha m m o n de Mask in(1979), citati da Sen (1987), p. 37.

(24)

— 608 —

fini redistributivi interpersonali. Allora potrebbero organizzarsi sul

territorio dei raggruppamenti di soggetti omogenei dal punto di vi­

sta delle utilità, così da raggiungere l’unanimità su un maggiore nu­

mero di azioni e trovare equilibri paretianamente superiori a quello

relativo al gruppo originario complessivo. La struttura di governo

sarebbe quindi caratterizzata da differenti livelli di governo, da

quello centrale a quelli periferici: saremmo cioè nel mondo ideale

del Tiebout, con tutti i limiti di tale sistemazione.

Naturalmente, se la produzione di certi servizi collettivi — ivi

comprese le azioni pubbliche in caso di fallimento dei mercati —

presentasse rendimenti di scala ossia profili di costi decrescenti al

crescere della quantità prodotta, ciò sarebbe irrilevante dal punto

di vista dell’articolazione dei livelli di governo subcentrale, ma por­

terebbe invece, per tali servizi collettivi, all organizzazione di dif­

ferenti agenzie decentrate per minimizzare il relativo costo produt­

tivo.

Nel sistema etico rappresentato daH’utilitarismo, la differenza

rispetto al paretianesimo è data dalla massimizzazione della somma

delle utilità individuali: questa caratteristica consente immediata­

mente di rendersi conto che, oltre alle istituzioni pubbliche viste

sopra riguardanti il perseguimento dell’efficienza economica, qui

devono esistere anche istituzioni volte alla redistribuzione del red­

dito. Se i soggetti fossero identici rispetto ai gusti, anche se con

redditi iniziali differenti, non ci sarebbe spazio per diversi livelli di

governo, in quanto le eventuali economie di scala rispetto alla di­

mensione dei servizi offerti dovrebbero essere affrontate semplice­

mente con misure amministrative dell’unico livello (centrale) di go­

verno. Ciò perché livelli decentrati di governo implicano diversi li­

velli di sovranità, ossia di decisioni di governo prese a diversi livel­

li, cosa che riguarda il lato della domanda, e non invece, come in

questo caso, il lato dell offerta.

(25)

— 609

pensare che — dovendosi massimizzare una funzione unica di utili­

tà, le scelte debbano essere effettuate ad un unico livello decisiona­

le, sia pure con ampio decentramento per le fasi operative; in altri

termini, sembrerebbe di poter argomentare che non possa trattarsi

di autonomie locali, ma di agenzie governative distaccate sul terri­

torio. Quanto detto si applica sopra tutto all’utilitarismo dell’atto

(versione benthamita o milliana), ed evidentemente presuppone

non solo la conoscenza perfetta da parte dell’istituzione pubblica

delle funzioni di utilità individuali, ma anche una miracolosa capa­

cità organizzativa.

Nell’ipotesi di utilitarismo della regola o delle istituzioni, la dif­

ferenza è che la massimizzazione viene effettuata non sulle singole

scelte, ma sulle scelte di alternative regole di comportamento. Si

può pertanto supporre che una delle regole su cui i soggetti sono

chiamati a scegliere sia la costituzione di collettività locali: ciascuno

dovrebbe, dopo aver calcolato i pesi numerici che attribuisce all’u­

tilità di ciascun altro mediante il solito ragionamento ipotetico (os­

sia stabilito il suo ordinamento delle preferenze estese), considera­

re quale sarebbe l’utilità di ogni individuo in ogni possibile aggre­

gazione locale di soggetti e moltiplicarla per la probabilità di essere

ogni individuo, scegliendo quindi l’aggregazione che rende massi­

ma la somma di tali utilità ponderate. A parte l’obiezione che cia­

scuno potrebbe arrivare ad ordinamenti sociali differenti, in quanto

ciascuno potrebbe calcolare pesi diversi per le utilità degli altri sog­

getti, e a parte il fatto che la capacità di effettuare tali calcoli sem­

brerebbe francamente superumana, l’esistenza di vari livelli di go­

verno sarebbe giustificata se questi ultimi permettessero un più al­

to livello nella somma delle utilità.

Per quanto riguarda il contrattualismo sia nella versione rawl-

siana sia in quella di Buchanan il problema della esistenza dei go­

verni locali non può che porsi propriamente in termini di adesione

al gruppo sociale attraverso una scelta razionale. I risultati, co­

munque, non sembrano differire a seconda se siamo nello schema

rawlsiano o in quello di Buchanan circa la possibilità di esistenza,

anche se la tipologia eventualmente realizzata sarebbe assai diffe­

rente.

(26)

— 610 —

le. Potranno perciò essere scelte le istituzioni sociali che incarnano

il principio di giustizia come equità, ed in particolare il principio di

libertà (massima libertà compatibile con quella degli altri), quello

di uguaglianza delle opportunità e quello di differenza (le differen­

ze sono tollerate solo se tornano a vantaggio di chi sta peggio). Poi­

ché da questo breve richiamo è evidente che lo schema è compati­

bile con il principio di Pareto, segue che l’esistenza delle collettivi­

tà locali può essere giustificata se permettono anche qui il raggiun­

gimento di equilibri paretianamente superiori; in tali sistemazioni

non sono esclusi trasferimenti tra i vari livelli di governo, in quanto

è da supporre che il c.d. flypaper effect sia non operante.

Nello schema di Buchanan (contrattualismo reale) il rispetto

delle libertà individuali conduce al contratto sociale unanime, ossia

alla Costituzione che può bene includere i governi locali, anche qui

se giustificati esclusivamente in termini di ottimi paretiani domi­

nanti. Questi governi locali, tuttavia, sembrerebbero dedicati

esclusivamente alla fornitura di beni collettivi locali finanziati local­

mente, in quanto considerazioni di equità non dovrebbero entrare

nelle scelte costituzionali.

Nelle teorie dei diritti di Nozick e di Dworkin non sembra in

linea di massima che siano concepibili diversi livelli di governo, in

quanto la giustificazione usuale basata sulla superiorità paretiana

non è applicabile perché questi schemi o teorie normative non im­

plicano il principio di Pareto. Per Nozick, infatti, il rispetto dei di­

ritti inviolabili preclude interventi volti a pur possibili migliora­

menti paretiani nel senso di maggiore efficienza sociale, e quindi

anche istituzioni pubbliche più complesse rispetto a quelle minime.

Per Dworkin, come abbiamo detto sopra, il test dell invidia

non supera l’economia produttiva se i soggetti sono differenti; ana­

logamente, poiché il miglioramento paretiano inducibile dalla even­

tuale esistenza di diversi livelli di governo discende dalla diversità

dei soggetti, sembra che possa non superare il test dell’invidia.

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