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Accentramento e razzismo del fascismo

Nel documento Società Italiana di Pedagogia (pagine 106-109)

Silvia Guetta

2. Accentramento e razzismo del fascismo

I prodromi dei processi di esclusione e il delinearsi di posizioni sempre orientate ad affermare il razzismo, fondati sulle negazioni del diritto alla

differenza e alla libertà di scelta e caratteristici di ogni regime totalitario, possono essere rintracciati già all’indomani della salita al potere di Musso-lini nel 1922. Pertanto ancora prima che Gentile riportasse, nel 1923 con la sua Riforma del sistema scolastico, l’insegnamento della religione catto-lica nelle scuole dello Stato, Mussolini aveva iniziato “a contestare e demo-lire la preesistente situazione di sostanziale parità delle religioni minoritarie (e quindi dei cittadini che le professavano). Nel discorso di presentazione alla Camera, Mussolini affermò: «tutte le fedi religiose saranno rispettate, con particolare riguardo a quella dominante, che è il cattolicismo»” (Sar-fatti, 2019, p. 11). Tali affermazioni vennero poi seguite dalla circolare mi-nisteriale emanata dal sottosegretario alla Pubblica Istruzione Lupi, che imponeva di appendere il crocifisso nelle aule scolastiche per fare “della re-ligione cattolica ‘il principale fondamento del sistema della educazione pubblica e di tutta la restaurazione morale dello spirito italiano” (Turi, 1995, p. 318).

La criticità del momento fu immediatamente avvertita all’interno del mondo ebraico che, pur non essendosi ancora costituitosi nella forma del-l’Unione delle Comunità Israelitiche, iniziò ad allarmarsi. Immediatamente cercò di far comprendere all’interno delle proprie comunità il presagire di imminenti conseguenze. Fu chiara poi, da parte ebraica, la presa di distanza pubblica dalla riforma Gentile all’indomani dalla sua presentazione. L’allora rabbino capo di Roma, Angelo Sacerdoti, contestava dalle pagine del gior-nale Israel «è lecito ritenere che, fra non molti anni, agli ebrei verrà a essere precluso l’esercizio dell’insegnamento nelle pubbliche scuole. Non mi sof-fermo sul grave pericolo che ci minaccia e cioè sulla progettata trasforma-zione della scuola laica, quale attualmente è in scuola ove l’insegnamento sia impartito ispirandosi alla fede di maggioranza. Le gravissime conse-guenze di tale trasformazione sono troppo evidenti!» (Sacerdoti, 2013). An-cora qualche anno dopo il senatore Vittorio Polacco si sentiva in obbligo di tornare sull’argomento, tanto risultava problematico all’interno del mondo ebraico. Nel discorso tenuto alla Camera Alta il 7 febbraio 1925 il senatore si appellava alla libertà di coscienza, alla tutela delle minoranze re-ligiose e denunciava la ferita inferta dalla riforma gentiliana al rispetto della libertà religiosa. «È un abisso che create per le minoranze religiose», soste-neva il senatore, evidenziando come i principi ispiratori della nuova legge tramutassero le aule «in un centro di proselitismo religioso, quasi un vivaio di catecumeni» e forzassero «centinaia di fanciulli a frequentare una scuola

donde uscirà deformata la loro coscienza religiosa in confronto a quella delle loro famiglie» (Pavan, 2013, p. 137).

Con la stipula dei Patti Lateranensi del 1929, si ha la completa perdita dell’indirizzo laico dello Stato con il riconoscimento della sola religione Cattolica e la conseguente diseguaglianza giuridica tra i culti. Una disegua-glianza che veniva trasmessa ed assimilata nei contesti che dovevano formare i futuri cittadini italiani: la scuola. Sarà proprio in essa che in modo più manifesto e violento si realizzerà, quindici anni più tardi, l’applicazione delle Leggi antiebraiche. “All’antigiudaismo cattolico si erano ormai intrec-ciati e poi sovrapposti l’antisemitismo nazionalista, quello cospirazionista, quello esoterico e infine quello razzistico-biologico” (Sarfatti, 2008).

I processi di esclusione, funzionali ad ogni forma di regime totalitario ossessionato dall’imposizione del controllo e da un’educazione finalizzata alla passiva ubbidienza, vennero meglio compresi con l’imposizione, nelle scuole del Regno, del testo unico di Stato, a partire dall’anno 1930-1931 (Betti, 1984). Un’azione che confermava il raggiungimento di un ulteriore passo verso il completamento dell’educazione e della cultura prettamente fasciste (Ascenzi, Sani, 2005).

Negli stessi anni in cui la scuola e tutto il sistema educativo diventavano tra gli obiettivi prioritari della fascistizzazione della popolazione la propa-ganda del regime iniettava nuovi elementi di pensiero razzista. La guerra italo-etiopica (1935-1936) rappresenta un vero e proprio campo di prova per come motivare e legittimare il razzismo per escludere i cittadini dal con-testo sociale. Secondo Bidussa (1994), facendo riferimento alla relazione letta da Salis al terzo congresso di studi coloniali del 1937 si viene a deli-neare quella logica che separa Nazione dallo Stato, riconoscendo nelle di-verse appartenenze, specifiche condizioni di rapporto. Nel discorso di Salis, che non riportiamo per la lunghezza, viene chiaramente affermato che “Gli indigeni [etiopi] sono bensì dell’impero, ma non ne fanno parte che in senso improprio, perché non fanno parte del popolo italiano, né della Na-zione, ma solo dello Stato” (Bidussa, 1994, p. 57). Salis si appellava, dunque, ad un’idea di Nazione per alcuni aspetti risorgimentale, fondata su una con-divisione di cultura, tradizioni e lingua. La visione fascista stabilisce una discriminazione tra tipologie di cittadini: non tutti hanno il diritto di ap-partenere allo Stato e alla Nazione. Questa scissione delinea come, secondo Bidussa “l’elemento discriminatorio non è pensato in termini persecutori e annientanti ovvero ‘sterminazionisti’, ma è funzionale alla edificazione di

una piramide etnica assolutamente umano vigile, costruita su una stratifi-cazione rigidamente orizzontale. Problema essenziale è la descrizione dell’’altro’ come estraneo alla Nazione, comunque come soggetto intorno a cui creare un ‘cordone sanitario’ e comunque da ‘recintare’, ma non da sopprimere” (Bidussa, 1994, p. 58). Se però gli indigeni venivano esclusi perché non avevano elementi che permettessero loro di essere inclusi della Nazione, “nel caso degli ebrei italiani, il problema è rovesciato: ovvero la questione si riformula nelle modalità di esclusione, ossia sul come espellerli” (Bidussa, 1994, p. 58). Con la costruzione di un sentimento di discrimi-nazione diffuso attraverso le differenti forme di propaganda, verrà rapida-mente smantellato quel processo, lungo più di un secolo, che aveva portato a condividere la costruzione di una Nazione che trovava in sé la forza per dare origine ad uno Stato. L’espulsione degli individui precedentemente in-clusi nella Nazione e di conseguenza nello Stato, ha significato in sostanza “privarli di diritti, imporre dei doveri e, al più, sovrintendere a un esercizio limitato e solo privato, di alcuni diritti. In questa chiave la legislazione an-tiebraica presenta alcune caratteristiche se vogliamo non fisicamente vio-lente, ma certo, inequivocabilmente razziste” (Bidussa, 1994, p. 54).

Nel documento Società Italiana di Pedagogia (pagine 106-109)

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