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Gli anni Trenta

Nel documento Società Italiana di Pedagogia (pagine 109-113)

Silvia Guetta

3. Gli anni Trenta

Alcuni commentatori sostengono che, all’indomani dell’entrata in vigore delle leggi razziste del 19382, le normative che hanno immediatamente di-scriminato ed espulso il personale scolastico, quello universitario, gli alunni e gli studenti ebrei italiani dalle scuole pubbliche e private del Regno che non fossero di natura ebraica, la reazione e le prese di posizione dell’Unione delle Comunità Israelitiche si dimostravano poco coordinate e non tempe-stive come la situazione avrebbe richiesto. Di contro, per rispondere tem-pestivamente alle esigenze locali, le singole comunità ebraiche attivarono in autonomia sondaggi e strumenti per conoscere i bisogni della popola-zione scolastica per poter assicurare a tutti i bambini ebrei il diritto di

par-2 Per l’intero corpus delle leggi antiebraiche del 1938 è consultabile le rivista Cirse, V. 6 N. 2 (2019): Scuola, università e leggi razziali. Una riflessione storico-educativa sulle leggi

razziali in Italia tra storia, storie, testimonianza e autobiografia.

https://www.rivistadi-storiadelleducazione.it/index.php/RSE

tecipare all’avvio dell’anno scolastico 1938-1939 (Fishman, 1988). Le cau-tele e il disorientamento mostrati nelle prime settimane dopo la promulga-zione delle leggi antiebraiche dovuti sicuramente anche alla diversità degli orientamenti politici interni all’Unione ed alla già critica presidenza del-l’Unione (Almansi, 1977), fu anche motivato dal bisogno di comprendere l’evolversi di una situazione sicuramente inaspettata e fortemente trauma-tica. A fronte di una scarsa capacità di intervento organizzativo e risolutivo, debbano essere comunque evidenziate alcune tappe del rapporto tra la rap-presentanza ebraica in Italia e il governo fascista.

Come è stato precedentemente accennato, lo sconcerto per il posizio-namento della religione cattolica al centro dell’insegposizio-namento dando alle minoranze acattoliche la posizione di culti ammessi, aveva provocato un immediato risentimento, quasi una profezia da parte dell’allora rabbino di Roma Angelo Sacerdoti. Tullia Catalan sottolinea che, dopo la Riforma Gentile, “Un grande problema si pose all’ebraismo che si presentava privo di strumenti adeguati per contrastare Le comunità dotate di scuole lamen-tavano la scarsa frequentazione stesse in favore della scuola pubblica, e met-tevano in evidenza segnamento della religione fosse ormai disatteso da molte famiglie. Fermava così una tendenza del periodo liberale post-unita-rio, che iscritti alle scuole delle comunità soltanto i figli dei più poveri, ceto medio-alto preferiva frequentare” (Catalan, 2007, p. 34).

Da lì prese avvio, per quella parte dell’ebraismo italiano più attento al rapporto educazione- tradizione, una riflessione sui persistenti attacchi cul-turali e di fascistizzazione della scuola che mettevano in crisi le nuove ge-nerazioni allontanandole dai valori che sono propri dell’ebraismo e che si rifanno all’identità e alla cultura. Durante gli anni Trenta l’Unione delle Comunità Israelitiche Italiane (UCII)3dovette impegnarsi, per quanto

ri-3 L’UCII era un’organizzazione di recente istituzione. A seguito della legge sui culti ammessi del 1929, era stata istituita una commissione per individuare un progetto da presentare al governo contenente le indicazioni per disciplinare i rapporti con i culti acattolici. Il 30 ottobre del 1930 fu emanato il Regio Decreto contenente le norme sulle Comunità Israelitiche e l’istituzione dell’Unione, e nel dicembre del 1931 entrò in vigore il regolamento di attuazione. La nuova organizzazione dell’ebraismo italiano nasceva per volontà di una politica che potesse controllare e intervenire a suo piacimento su un organismo che si doveva presentare uniforme perché più facile da sottoporre alle direttive dello Stato. La realtà ebraica italiana sarà tuttavia l’unica tra le minoranze acattoliche ad essere disciplinata da norme specifiche durante il periodo

guarda il problema educativo, su due fronti: far valere le proprie istanze presso il governo; implementare i rapporti di coordinamento con ogni sin-gola comunità ebraica in Italia per migliorare la qualità della loro offerta formativa.

Nel corso degli anni l’Unione si troverà quindi fortemente impegnata a promuovere lo sviluppo di una coesione interna tra le comunità e a rinfor-zare e rinnovare le attività scolastiche ebraiche presenti all’interno delle co-munità. Pur con forti elementi di criticità e con un progressivo allontanamento delle famiglie dai centri comunitari, le scuole ebraiche, anche di antica istituzione, non riuscivano a proporsi come luoghi di for-mazione in grado di competere con quelli pubblici. Vari motivi avevano portato le famiglie a scegliere la scuola pubblica piuttosto che quella ebraica. Tra questi quello permettere ai propri figli di frequentare un ambiente socialmente stimolante e di far partecipare i propri figli a quel processo di partecipazione alla crescita della Nazione che si esprimerà poi, negli anni del fascismo, con tutta la sua forza.

Alcuni esponenti dell’élite ebraica ritennero che gli accordi promossi tra la Santa Sede e lo Stato italiano del 1929, portassero i genitori a compren-dere quanto fosse importante ritornare e rinforzare l’impegno per l’educa-zione ebraica dei figli. “Roberto Bachi, uno dei più attivi sostenitori della necessità di un’educazione ebraica, si augurò che nelle scuole elementari ‘oggi che la generalità dei ragazzi sente la parola del prete ed ha l’insegna-mento cristiano in classe, le nostre famiglie cambieranno il loro atteggia-mento, sentiranno il bisogno di mandare i loro ragazzi alle nostre scuole, o per almeno di procurar loro n antidoto all’insegnamento che ricevono nelle scuole pubbliche” (Minardi, 1998, pp. 705-706).

Anche se l’impegno dell’UCII si rivelò, nel corso degli anni, decisivo per il miglioramento delle realtà scolastiche esistenti, la formazione dei

do-del fascismo. Il controllo sulla realtà ebraica sostenuto anche antiche e moderne forme di antigiudaismo clericale riportava l’ebraismo alla categoria di confessione religiosa. In realtà questa categoria “non è del tutto consona a definire il fenomeno ebraico nel suo complesso. Il termine ‘confessione’ è anzi estraneo alla tradizione ebraica, sem-brando invece di derivazione tipicamente cattolica, o quantomeno cristiano, e im-plicando l’istituzionalizzazione di credenze e riti, la professione di una dottrina di cui è depositario un magistero sovraordinato ai fedeli, che è estraneo all’ebraismo” (Disegni 1983 p. 115).

centi e la preparazione del materiale didattico, in primis tra tutti i libri sco-lastici, le scuole ebraiche continuavano ad essere frequentate solo dai figli delle famiglie più osservanti e delle famiglie più povere.

L’introduzione del libro di Stato, entrato nella scuola lo stesso anno di istituzione dell’UCII, rappresentò per i responsabili dell’UCII una costante preoccupazione. Ancora più di prima emergeva la necessità di rendere i ge-nitori responsabili di ciò che stava succedendo e di come il rischio della perdita di ogni riferimento identitario avanzasse inesorabile. Le difficoltà si manifestarono con tutta la loro criticità quando l’introduzione del testo unico per le elementari imponeva alle scuole ebraiche delle comunità di adeguarsi alle disposizioni. Il testo però presentava espliciti riferimenti e ri-chiami al cattolicesimo e al culto della persona, che non si adattavano per niente ai valori e agli insegnamenti dell’ebraismo. Fin dall’avvio dei processi emancipatori le scuole ebraiche, allo scopo di preparare gli alunni agli im-pegni e ai doveri che il nuovo Stato richiedeva, avevano deciso di adottare gli stessi libri in uso nelle scuole pubbliche. La loro adozione comportava che venissero sostituite le parti dove erano presenti i riferimenti alla religione cattolica, con i contenuti ripresi dalle materie ebraiche insegnate. Ma “dopo il 1930 il Ministero dell’Educazione nazionale non autorizzò più questi cambiamenti. Angelo Sacerdoti, in una lettera al ministro della giustizia e deli affari di culto Rocco, sottolineava come tale divieto contrastasse con la libertà di coscienza di coloro che, nell’ambito di un diritto riconosciuto dalla legge, seguivano i ‘culti ammessi’ ”(Minardi, 1998, p. 109) e come questo non implicasse in alcun modo di ottemperare all’obbligo dell’ado-zione del libro di Stato. Nonostante le insistenze, ripetute anche nel tempo, i risultati si limitarono ad ottenere l’eliminazione di alcune frasi troppo cat-toliche presenti nel testo. Una procedura che rendeva il testo di difficile let-tura complicandone la consultazione.

Per questioni di spazio non è possibile dare visione del dibattito che con-tinuò a prolungarsi anche negli anni successivi fino ad arrivare alla situa-zione sicuramente paradossale, dell’obbligo del libro di Stato dopo l’emanazione delle leggi antiebraiche, anche nelle classi per bambini ebrei e nelle scuole ebraiche riorganizzate all’interno delle comunità.

Nel documento Società Italiana di Pedagogia (pagine 109-113)

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