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La deriva fascista e la scomparsa della pedagogia nei nuovi Centri Me- Me-dico-Psico-Pedagogici

Nel documento Società Italiana di Pedagogia (pagine 120-123)

Stefano Lentini

2. La deriva fascista e la scomparsa della pedagogia nei nuovi Centri Me- Me-dico-Psico-Pedagogici

In epoca fascista, questi istituti furono inseriti sotto la gestione del Mini-stero di grazia e giustizia, nei Centri di rieducazione per minorenni destinati in ciascun distretto di Corte d’appello alla rieducazione dei minorenni ir-regolari per condotta o per carattere, nonché al trattamento ed alla preven-zione della delinquenza minorile4. Con la nuova denominazione di Istituti medico-psico-pedagogici, come per il resto degli istituti e dei servizi dei Centri di rieducazione per minorenni, nonostante il proclamato carattere rie-ducativo, esercitarono il compito di contenere e controllare, più che educare (Chiaravvaloti; Spadaro, 2012, p. 8). Nelle strutture manicomiali, special-mente alla fine degli anni ’30 del Novecento, l’illusione delle terapie biolo-giche, come l’elettroshock, l’insulinoshock, shock cardiazolici, ecc., riattivò nel trattamento della malattia mentale “un processo di medicalizzazione scientificamente malfondato e destinato a un sostanziale fallimento” (Scar-cella, 1980, p. 12).

Persino lo stesso Giulio Cesare Ferrari, precedentemente noto per le sue

4 Il nuovo Centro di rieducazione per minorenni venne istituito con Regio Decreto Legge n.1404 del 20 luglio 1934, Istituzione e funzionamento del Tribunale per i minorenni. All’art. 1, si specificava che esso era costituito dai seguenti istituti: istituti di osserva-zione, gabinetti medico-psico-pedagogici, uffici di servizio sociale per minorenni, case di rieducazione e istituti medico-psico-pedagogici, “focolari” di semi-libertà e pensionati giovanili, scuole, laboratori e ricreatori speciali, riformatori giudiziari, prigioni-scuola.

idee progressiste, negli anni del regime lasciò affiorare la proposta di elemi-nare dal manicomio tutti coloro che di esso non avessero bisogno quale luogo di cura e di custodia specifica; scienza psichiatrica e scienza giuridica legittimarono ciò che il nazismo mise in pratica massicciamente con lo ster-minio dei “degenerati”. Si trattò di una involuzione reazionaria che il clima culturale e politico del fascismo impose anche nel campo della psichiatria (Scarcella, 1980, pp. 42-43). L’opera rivoluzionaria dei pionieri della “via” italiana all’educazione speciale venne così abbandonata nella

folle, quanto crudele, legittimazione ideologica posta alla base dello ster-minio della popolazione disabile, ed in particolare di chi manifestava un deficit psichico, ad opera dei nazisti […] Non meraviglia dunque se in Italia, come nella maggior parte del mondo, nel periodo post-bellico gran parte delle persone interessate da ritardo mentale vivesse segregata negli istituti o circondata da uno stato di profondo disinteresse sociale, che nel caso degli insufficienti mentali o sub-normali[…] dava luogo, ancor più che per altre condizioni di disabilità, ad un clima di ghettiz-zazione e di compatimento (Mura, 2016, pp. 674-675).

Rinominati Centri medico-psico-pedagogici nel secondo Dopoguerra, questi istituti ebbero una importante diffusione nel territorio nazionale, con l’obiettivo di dare risposte urgenti ai gravi problemi pedagogici e sociali dell’infanzia vittima della guerra5. Nel 1947 vennero costituiti in Italia i primi due Centri medico-psico-pedagogici: uno a Milano, ad opera della Croce rossa italiana, poi rilevato dall’Opera Nazionale Maternità ed Infanzia (OMNI), diretto dallo psichiatra Virginio Porta, e l’altro a Roma, a cura dell’OMNI, diretto dallo psichiatra Gianni Bollea6. Parallelamente, nac-quero in Italia altri consultori analoghi, come servizi connessi ai Comuni, alle Province, all’OMNI, ai servizi minorili del Ministero di Grazia e Giu-stizia, alle cliniche universitarie, ecc. generando, in tal modo, un sistema

5 Nel corso del ventennio fascista, la collaborazione tra giudici e psichiatri sfociò nella legge istitutiva dei Tribunali per minorenni, sancita nel 1934.

6 Nel 1949, con scopi di prevenzione della delinquenza minorile venne istituito l’Ente nazionale per la protezione morale del fanciullo (ENPMF), eretto in ente morale spe-cializzato nell’assistenza medico-psico-pedagogica rivolto ai soggetti in età evolutiva (dai 6 ai 18 anni), e si istituì una rete nazionale di CMPP in cui si adottarono le mo-derne tecniche della psichiatria infantile e del case-work.

di consultori medico-psico-pedagogici su base provinciale non omogeneo (Fontana Capocaccia, 1969, pp. 13-16).

Fino alla rivoluzionaria battaglia per il rinnovamento della cultura psi-chiatrica di Franco Basaglia, i Centri medico-psico-pedagogici italiani con-tinuarono a portare il segno di una cultura nella quale risuonava forte “l’eco delle classificazioni di Lombroso, con il loro chiaro scopo di tutelare i sani dai ‘mattoidi’” (Basaglia, 2005, pp. 196-197) e che faticava a riconsiderare il problema dei devianti e della psicopatia in chiave pedagogica. Nonostante le pionieristiche sperimentazioni dei “medici pedagogisti” avessero imma-ginato gli Istituti medico-pedagogici come luoghi di collaborazione tra di-scipline diverse, per la realizzazione di ambienti di apprendimento adattati alle specifiche esigenze dell’“infanzia anormale”, e la Costituzione repub-blicana avesse sancito una serie di diritti totalmente incompatibili col re-gime manicomiale (Scarcella, 1980, pp. 11-12), ancora nella seconda metà del Novecento si continuava a disporre il ricovero manicomiale di bambini, di età inferiore anche ai tre anni, bollandoli sbrigativamente con la formula standardizzata “Pericoloso a sé e agli altri”. Ritroviamo infatti questa formula ancora nel 1963, in un atto redatto dalla dottoressa Luisa Levi, primo vi-cedirettore di Villazzurra, con il quale si dispose il ricovero di un bambino di non ancora tre anni. Quella formula infamante “suscitò soltanto una pic-cola, tenue, reazione all’accettazione del ricovero da parte del medico re-sponsabile: un anonimo punto interrogativo vergato con inchiostro nero. Chi lo appose accanto al terribile ‘pericoloso a sé e agli altri’ registrato dalla dottoressa Levi non aggiunse altro” (Gaino, 2017). E affinché lo stigma re-stasse a vita, segnando il minore in modo indelebile con il marchio del-l’emarginazione sociale, si annotavano nel casellario giudiziario di competenza territoriale le sue generalità e ogni dato connesso alla identifi-cazione dei suoi ascendenti.

Numerose inchieste-denuncia sui manicomi, pubblicate nel corso degli anni Settanta del Novecento, misero in evidenza un sistema di abusi e di torture perpetrati a danno dei pazienti ricoverati in queste istituzioni del terrore; abusi e torture che non risparmiarono nemmeno i minori. In questa sede, per ragioni di spazio, ne possiamo richiamare solo alcune che all’epoca fecero scalpore e portarono alla progressiva chiusura di alcuni di questi isti-tuti per minori. Nel 1975, un libro-dossier di Psichiatria democratica,

l’emblematico titolo Bambini in manicomio7, mise nero su bianco le con-dizioni dei 2761 bambini internati nell’arco di sessant’anni nell’Istituto me-dico psico-pedagogico “Sante De Sanctis”, appartenente all’Ospedale psichiatrico romano di S. Maria della Pietà; il dieci per cento di quei bam-bini erano d’età inferiore ai quattro anni.

Questo caso, che portò presto alla chiusura dell’istituto nell’ottobre del 1973, si aggiunse alle tristi vicende di Villa Azzurra, un istituto apparte-nente ad uno dei padiglioni degli Ospedali psichiatrici di Torino, collocato in una palazzina posta all’interno di un parco ai confini tra Collegno e Gru-gliasco, chiuso a seguito di un’inchiesta giornalistica del settimanale l’Espresso del 26 luglio 1970. Dell’inchiesta rimangono alla memoria sto-rica le riprese fotografiche degli orrori perpetrati in quel luogo, con le im-magini che raccontano la totale assenza “del diritto” all’infanzia dei bambini ricoverati in quell’istituto; una fra le tante immagini che fecero scalpore fu quella di una bambina completamente nuda, stesa su un lettino con una tela cerata sotto il corpo, legata mani e piedi ad un letto di contenzione. Perché non potesse essere pericolosa a sé e agli altri!

Nel documento Società Italiana di Pedagogia (pagine 120-123)

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