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Instabilità contrattuale e appartenenza generazionale

Prima dell’infortunio: un'analisi processuale della costruzione del rischio

6.4 L’intersezionalità della vulnerabilità

6.4.1 Instabilità contrattuale e appartenenza generazionale

La prima dimensione di costruzione intersezionale della vulnerabilità che prenderemo in esame è relativa all’età e all’appartenenza generazionale di lavoratori e lavoratrici. Come ormai ampiamente evidenziato in letteratura (per una sintesi recente, Sargeant e Giovannone, 2011) e come vedremo ora, a età diverse possono infatti corrispondere rischi e criticità differenti, che necessitano di interventi di prevenzione differenziati. Ad esempio, i rischi emergenti per quanto concerne le fasce di età giovanili hanno a che fare con i mutamenti strutturali occorsi nel mercato del lavoro negli ultimi anni, nel segno di una crescente precarietà e di una riduzione di diritti e tutele. Nelle interviste ai/lle lavoratori/trici in fascia di età giovanile, la vulnerabilità della temporaneità contrattuale non è infatti descritta come una iniziale fase passeggera, ma come un tratto permanente, che caratterizza l’esperienza lavorativa in maniera continua e pressoché irreversibile.

[L’instabilità contrattuale porta a] ritmi maggiori di sicuro, perché quando tu non hai ferie pagate, tredicesima, quattordicesima, quando non hai un certo tipo di rientro che hanno gli altri, è evidente che devi lavorare di più, perché quello che guadagni è di meno. È evidente che i contratti a progetto e i contratti a collaborazione sono un’usura legalizzata. […] È evidente che siamo una generazione che è stata particolarmente illusa e presa in giro da

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questo punto di vista. Questa è la realtà dei fatti, però la capacità dell'intelligenza umana è anche la capacità di adattamento: io mi adatto e nel frattempo non soccombo.

[6A_Donna, 31 anni, educatrice disabili, Italia]

Quando le aziende ti tirano su, dopo se sei fortunato e bravo e fai vedere che fai i salti mortali, allora forse dopo ti prendono. Ma non lo prendi neanche più oggi, a meno che non gli fai vedere che fai chissà che, però altrimenti il posto fisso in questo momento è da dimenticare per un bel po’ di anni. Per avere il posto fisso, se sai far tutto, se gli servi, allora ti dicono “Te lo faccio” [il contratto a tempo indeterminato]. Ma se non sei proprio super, non sai fare un lavoro proprio bene bene non te lo fanno … Diciamo che l’importante alla fine per stare in un’azienda è farsi vedere che si lavora. Ti fai vedere che lavori, che non hai problemi, che corri, allora sai che per l’azienda sei un punto forte.

[5B_Uomo, 24 anni, aiuto cuoco, Italia]

La coordinatrice potrebbe stare attenta e darmi dei casi più leggeri, in coppia o con persone autosufficienti, ma il lavoro è quello: o lo fai o possono licenziarti. Ce ne sono tante, di mie colleghe, che accettano proprio tutto, soprattutto le più giovani, con la crisi non possono dire di no... Noi siamo un gruppo di nove persone, quasi tutte più giovani e part-time, siamo in due a fare tempo pieno. Quelle assunte adesso fanno 21, 24 o 27 ore, fanno tutte part-time, perché ora stai meno di un’ora per utente. Prima non era così: quando ho cominciato facevo tre utenti la mattina e due, massimo tre, di pomeriggio. Io adesso ne faccio otto al giorno:

quattro la mattina e quattro il pomeriggio.

[11A_Donna, 52 anni, assistente domiciliare, Italia]

Nel primo stralcio vengono mobilitate rappresentazioni ormai note e diffuse rispetto al mercato del lavoro: una generazione (ormai nemmeno più giovanissima, visto il lungo processo di precarizzazione del mercato del lavoro) di persone “illuse e prese in giro”, escluse da diritti un tempo garantiti, nel moltiplicarsi di forme contrattuali cosiddette atipiche. Si tratta di una descrizione che segna chiaramente la distanza tra lavoratori con differenziali di potere e tutele, sia per quanto riguarda la retribuzione, sia per quanto riguarda la continuità di reddito, sia per quanto attiene alla gravosità dei tempi e dei ritmi di lavoro (“ritmi maggiori di sicuro, perché quando tu non hai ferie pagate, tredicesima, quattordicesima, quando non hai un certo tipo di rientro che hanno gli altri, è evidente che devi lavorare di più, perché quello che guadagni è di meno”). Inoltre, significativamente, l’intervistata passa da una descrizione della propria condizione contrattuale specifica entro le varie organizzazioni lavorative, a una narrazione ben più ampia e generalizzata, che assume i tratti di una vera e propria frattura generazionale (“siamo una generazione illusa e presa in giro”) e, soprattutto, di un cambiamento irreversibile, rispetto al quale non si possono che opporre strategie di adattamento individuale (“io mi adatto e nel frattempo non soccombo”). Anche il giovane lavoratore inserito nel settore della ristorazione dipinge un quadro del mondo del lavoro che, nella sua esperienza biografica e lavorativa, è ormai indiscutibilmente segnato dalla precarietà: unica via di scampo è rendersi indispensabili, costituire una risorsa a tal punto preziosa per l’organizzazione da non poter essere scartati. L’indispensabilità, legata ad una eccezionale competenza (“se gli servi, ma se non sei proprio super”), non si associa soltanto alla stabilizzazione contrattuale, ma si trasferisce anche al piano più generale delle relazioni di lavoro: sul luogo di lavoro, bisogna “correre e far vedere che si lavora”, con tutte le conseguenze che ciò può comportare in relazione alla costruzione del rischio e dell’insicurezza.

Al di là delle vicende lavorative, si produce un più ampio cambiamento in termini di valori e cultura del lavoro, nel segno del radicale ridimensionamento di diritti e possibilità di rivendicazione, come l’intervista al giovane cuoco lascia emergere: per chi non ha conosciuto altro, la dimensione della precarietà – con tutto il suo portato di vulnerabilità – rischia di darsi come orizzonte “naturale” e inevitabile, contribuendo a produrre condizioni

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di rischio specifiche per una categoria di lavoratori che non solo non è nella posizione di rivendicare diritti, ma può giungere addirittura a non concepirli più come tali: a quel punto, il diritto a lavorare in condizioni salutari e sicure rischia di trasformarsi in un “lusso” o in una “fortuna” e, come tale, a cessare di essere rivendicato e monitorato. Un cambiamento indirettamente confermato dalla terza intervistata che, per appartenenza generazionale e percorso individuale, ha esperito condizioni di lavoro migliori e le raffronta con quelle attuali, in particolare dal punto di vista delle colleghe più giovani, costrette ad “accettare tutto”: dalla riduzione forzata dell’orario di lavoro (il part-time involontario), all’aumento dei ritmi lavorativi, aspetti legati entrambi a politiche di riduzione dei costi del personale, che erodono la qualità della vita lavorativa e diventano particolarmente stringenti anche in concomitanza con la fase attuale di crisi economica, come abbiamo già avuto modo di mettere in luce nel precedente paragrafo.

L’intersezionalità dei rischi emerge anche all’opposto, in relazione a lavoratori/trici in età matura, agendo su leve di rischio e vulnerabilità diverse:

Stiamo iniziando a diventare vecchi. Quelli che arrivano sono giovani, ma tra noi c’è una percentuale alta di anziani: pensa che abbiamo gente di 60, 62 anni. Non è semplice portare in giro le persone, portartele sulla schiena e metterle sulla carrozzina.

[14A_Donna, 51 anni, ausiliaria assistenza anziani, Italia]

Io ho cinquant’anni, in casa di riposo ci sono ospiti più giovani di me. Devo lavorare altri quindici anni: pensi che avrò la forza di alzare, sistemare, sopportare e comunicare? Non ce la faccio, sarò al suo stesso livello! La mia forza fisica non c’è più.

[3A_Donna, 47 anni, ausiliaria assistenza anziani, Italia]

Io è da tanti anni che faccio questo mestiere, è che nel mestiere del cuoco ci sono persone disastrate a sessant'anni: ginocchia e schiena aperte, sei sempre in piedi, sei lì che traffichi sempre... È un lavoro che ti consuma abbastanza, perché i ritmi sono alti e… non è un lavoro che consiglierei a nessuno di fare per quarant'anni. È un lavoro molto duro. È un lavoro di fisico.

[8B_Uomo, 43 anni, cuoco, Italia]

Le interviste a lavoratori/trici di età avanzata, o comunque impiegati da lungo tempo nel settore, evidenziano sovente la preoccupazione per il proprio generale stato di salute, soprattutto in relazione ad una progressiva usura fisica, cui si accompagna il timore di non riuscire a reggere ancora a lungo condizioni di lavoro rese sempre più faticose dall’avanzare dell’età. Anche quest’ultima dimensione intersezionale del rischio e della vulnerabilità, al pari di quella dei/lle giovani, è indicativa di più ampi processi di cambiamento del mercato del lavoro, relativi, come noto, al prolungarsi dell’età lavorativa.

Appare chiaro come simili mutamenti pongano problemi rilevanti in termini di salute, sicurezza e benessere lavorativo, rispetto ai quali sarebbero necessarie linee di intervento mirate. Inoltre, va tenuto presente come le condizioni di usura progressiva del corpo non si leghino soltanto a un più o meno “naturale” processo di invecchiamento biologico, ma entrino in relazione anche con il già citato, generale peggioramento delle condizioni di lavoro, in particolare dovuto all’intensificazione dei ritmi lavorativi. Non solo, dunque, i lavoratori devono gestire la vulnerabilità crescente data dal proprio invecchiamento, ma ai loro corpi, al lavoro, è richiesto un livello di perfomance sempre più elevato e serrato. A ciò si aggiunge, come avremo modo di vedere nei prossimi due capitoli (7 e 8), i diversi modi in cui si articolano le “carriere infortunistiche” dei soggetti: spesso le interviste hanno infatti messo in luce come le carriere lavorative siano costellate da una pluralità di episodi di infortunio (più o meno gravi, denunciati o meno), che contribuiscono ad accelerare e/o aggravare lo stato di usura fisica dei/lle lavoratori/trici.

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