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L’apprendimento post-infortunistico: tra individui e organizzazioni

Dopo l’infortunio: le traiettorie individuali, tra attori istituzionali, organizzazioni e mercato del lavoro

8.3 La gestione organizzativa dell’infortunio

8.3.3 L’apprendimento post-infortunistico: tra individui e organizzazioni

In termini analitici, come abbiamo già avuto modo di evidenziare (si vedano in particolare i capp. 1 e 7), l'infortunio può essere interpretato come un punto di snodo tra un prima e un dopo. Tale prospettiva si applica in primo luogo a livello organizzativo, come potenziale occasione di riconfigurazione dei sistemi di sicurezza e opportunità di apprendimento organizzativo (Catino, 2008). La nostra analisi si è focalizzata, infatti, sull'infortunio come evento precipitante, che ha solitamente luogo al termine di una “fase di incubazione”

(Turner, 1978), nel corso della quale l’organizzazione, attraverso una serie concatenata di processi inefficaci, ri/produce situazioni di rischio, che sfociano poi nell’episodio stesso.

Sulla base di tale prospettiva, a questo punto del percorso analitico è opportuno quindi chiedersi se e come le organizzazioni apprendano da quanto avvenuto e se intercorrano quindi modificazioni significative delle pratiche lavorative, allo scopo di evitare il ripetersi di accadimenti analoghi.

Vedi, qui ho il dito mi fa male. Non sono andata in pronto soccorso, ma avrei fatto meglio ad andare, perché mi fa male, mi hanno dato il ghiaccio, finita lì. Però, per fortuna, dopo hanno portato le imbragature, perché prima non c’erano. Almeno è servito per quello. Fino a poco tempo fa con un’imbragatura dovevamo gestire tutto il piano. Ma io mi sono fatta male e devo pensare anche alla mia salute. Infatti ora sono arrivate [le imbragature].

[14A_ Donna, 51 anni, ausiliaria assistenza anziani, Italia]

Sono stata portata in ospedale... e adesso non posso fare le cose pesanti. E posso dire che tutte le colleghe che sono con me mi hanno fatto il piacere, perché io non faccio il lavaggio, non faccio queste cose pesanti che non posso fare.

[13B_Donna, 47 anni, cameriera di mensa scolastica, Serbia]

Nell’intero corpus di interviste, pochi sono i racconti di organizzazioni che cambiano in qualche misura le proprie routine lavorative a seguito di un evento infortunistico. Ciò, del resto, non stupisce, per due principali ragioni. In primo luogo, la caratterizzazione del campione, composto da lavoratrici/tori a termine, che testimonia di una certa difficoltà manageriale nel concepire il lavoro in chiave prospettica, non solo su un piano individuale, ma anche in termini organizzativi di formazione, apprendimento e costruzione di una

“memoria organizzativa”: tutti obiettivi difficilmente perseguibili, entro contesti di continuo turn over. In secondo luogo, per via di una già evidenziata, dominante cultura organizzativa improntata alla ricerca di colpe individuali e/o a una lettura degli incidenti in termini di imprevisti o fatalità inevitabili, dunque parte ineliminabile dei processi lavorativi.

Anche i due casi sopra riportati (gli unici nel complesso del materiale empirico) testimoniano di un apprendimento piuttosto limitato. Nel primo caso, non sono i processi lavorativi a essere posti in questione, ma il più basilare, “precedente” piano della presenza di attrezzature sufficienti (in questo caso, le imbragature per sollevare i pazienti). Un cambiamento certamente importante per la quotidianità lavorativa dell’infortunata, ma che non chiama in causa un ripensamento strutturale di ritmi e carichi di lavoro che, come

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abbiamo visto, rappresentano le principali ragioni del verificarsi degli infortuni. Anche nel secondo caso, più che a una vera e propria riconfigurazione delle pratiche organizzative in ottica di prevenzione, siamo di fronte a pur encomiabili forme di solidarietà orizzontale tra colleghe, allo scopo di alleggerire l’infortunata da compiti gravosi per il suo stato di salute.

Vi è poi un'altra testimonianza, isolata, che racconta dell’introduzione di modifiche nella prassi organizzativa, ma anche in questo caso dal carattere piuttosto controverso:

Mah, dopo l’infortunio ci hanno obbligati, ci controllavano a vista, oltre alle scarpe anti-infortunistica, che mettevo già, ero sempre comunque in divisa e sempre a posto, però dopo di più, ci volevano far tenere tutto, sempre tutto quello che si poteva bisognava usarlo. […] Lì non aveva tanta importanza la salute del lavoratore, lì l’importante è che tu lavori sodo quando sei lì. La sicurezza, sì, è importante perché l’azienda non vuole che manchi nessuno, però lo stato psico-fisico di una persona è in secondo piano, come credo da tantissime altre parti.

[5B_Uomo, 24 anni, aiuto cuoco, Italia]

A seguito dell’infortunio, la dirigenza dell’organizzazione reagisce imponendo l’utilizzo di una serie di dispositivi di protezione individuale in maniera piuttosto verticistica (“ci controllavano a vista”). L’infortunio (illustrato nel capitolo precedente, a p. 110) si è verificato, anche in questo caso, per via di ritmi di lavoro frenetici, in corrispondenza di un picco stagionale, all’interno di un ambiente organizzativo marcatamente stressante. Pare dunque che la reazione dirigenziale, più che alla riflessione su tali aspetti critici, sia improntata all’applicazione formale delle norme, a scopo di autotutela, ma non al fine di ripensare criticamente né la gestione dei tempi di lavoro, né il clima organizzativo, che subisce invece un ulteriore peggioramento, dovuto proprio all’inasprirsi del clima di controllo.

La maggior parte delle interviste ha delineato poi, in maniera omogenea rispetto ai due settori, un peculiare processo di apprendimento, che assume sia carattere individuale, sia a posteriori:

Ogni cosa che faccio ho paura di finire in carrozzina. Perché per un movimento sbagliato che faccio, capito? Perché nei consigli che danno i medici… devo stare attenta. Poi l’età avanza, le ossa diventano fragili e se ti succede qualcosa, una caduta…. Io sul lavoro sto sempre attenta, prima controllo il cervello, poi agisco. Anche se sto mezz’oretta, un’ora in più, non mi preoccupo. Perché i figli sono grandi, non mi preoccupa se vado un’ora dopo a casa.

Qualche volta metto il busto se devo stare al computer o se devo preparare le terapie, che la sedia si gira da tutte le parti, allora lo metto per me, per la sicurezza per me.

[1A_Donna, 55 anni, infermiera professionale, Albania]

Sono conoscenze che impari sul campo, prendendoti delle scottature. Per quello che riguarda lo sgambettare – è un problema quotidiano, perché stai tutto il giorno in piedi – devi arrangiarti da solo: arrivi a casa, ti metti un cuscino sotto le gambe, ti togli le scarpe con il tacco e infili un paio di pantofole. Un mocassino ti distrugge il piede: io ho rischiato di far saltare i tendini dei piedi per il lavoro, era durante la stagione invernale.

[17B_Uomo, 35 anni, cameriere, Italia]

I/le lavoratori/trici apprendono la sicurezza sul campo, letteralmente facendosi male: ecco dunque che le “carriere infortunistiche” diventano, paradossalmente, anche percorsi di apprendimento definibili, più che in termini di esperienze pratiche, di usura fisica progressiva. In tale processo, va altresì rilevato come il rischio assuma un carattere intersezionale anche rispetto all’avanzare dell’età, che accentua una serie di problematiche preesistenti.

Nel primo caso, vediamo l’intervistata fare i conti quotidianamente con una tipologia di

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rischio piuttosto impegnativa, derivante dalle conseguenze di un precedente infortunio (un danneggiamento di due vertebre vicine all’area sacrale che, in caso di cadute, la metterebbe a rischio di paralisi). Ciò la pone, come immaginabile, in uno stato di allerta e tensione costante: dunque, oltre che di usura fisica e familiarità al rischio, l’apprendimento si sostanzia anche della capacità di gestire la paura derivante. Emerge inoltre, ancora una volta, la questione cruciale dei ritmi di lavoro: se non è possibile introdurre cambiamenti organizzativi che li rendano meno serrati (dunque, meno pericolosi), l’unica soluzione resta quella, quando possibile, di prolungare (gratuitamente) il proprio tempo di lavoro, al fine di poter procedere più lentamente, contenendo l’esposizione ai rischi. Nel secondo caso, esemplificativo di numerose esperienze del settore, i piccoli incidenti o malesseri fungono da campanello di allarme e da alfabeto corporeo che bisogna saper leggere e interpretare, evitando così di incorrere in episodi più seri. Anche qui emerge la dimensione dell’usura del corpo, la cui prevenzione diviene sapere esperto e squisitamente individuale, posseduto da chi è “del mestiere” e appreso sulla propria pelle.

Vi è poi una tipologia particolare di apprendimento individuale e a posteriori, specifica del settore di cura e assistenza alla persona e concernente il già analizzato, diffuso fenomeno delle aggressioni da parte dell’utenza:

Nell’arco di 10 anni ho subito due aggressioni da due pazienti completamente diversi, in due situazioni completamente diverse... succede. […] È difficile anche spiegarlo: perché lui ti ha aggredita? Perché? Perché? Perché? E alle volte ci si sente... non capiti. Nel senso, IO l’ho subita. L’aggressione è una cosa che fa male e che ti mette veramente a disagio, perché dopo con quell’ospite devo elaborare tutto e ricominciare... Ma io me lo dico, perché se dalla direzione non vengono queste attenzioni... Io sono assolutamente per la formazione, […]

bisognerebbe lavorare sul farsi aiutare, prima e dopo. E invece niente. […] Oppure “Sappiate che noi sappiamo che voi potete subire queste aggressioni e vi siamo vicini”. Ti chiamano:

“Quanti giorni hai?” “No, scusa, non mi chiedi come sto?”. Perché allora capisci che lavoriamo assieme, così ti sembra invece di no. Le ho prese e dovevo anche tacere quasi.

[2A_ Donna, 45 anni, assistente educatrice disabili]

Quando rientrerò al lavoro dovrò avere precauzione, tanta. Puoi aspettarti qualcosa da un momento all’altro. Devo stare molto attenta e controllare i suoi gesti. Questo si impara, da tutti gli errori che succedono. […] Dovrebbero prendere delle medicine, per essere più calme.

O dovrebbero esserci due persone per fare questo lavoro. […] Se fai un lavoro devi portartela dietro e guardarla, non puoi fare altro. Dovrebbe esserci un’altra persona per controllarla, sempre. L’ho detto anche ai nipoti, una volta, “Lei va dappertutto, è argento vivo!”. Ma devi cucinare, stirare, fare la spesa e tenere pulito e non puoi controllarla sempre.

[18A_Donna, 54 anni, assistente familiare, Moldavia]

Vengono qui proposte due testimonianze che raccontano dello stesso problema, vissuto però entro luoghi lavorativi differenti: da una parte, il contesto collettivo e pubblico (non in termini di gestione, ma di accesso) di una cooperativa; dall’altra, la dimensione marcatamente individuale e privata della casa. In un caso come nell’altro, la gestione dell’infortunio e della sua elaborazione è comunque demandata alla singola lavoratrice, che deve fare i conti sia con le implicazioni emotive, sia con quelle di tipo pratico. Da una parte, le lavoratrici apprendono quindi a fare “lavoro emotivo” (Hochschild, 1983), gestendo in solitudine una serie complessa di ricadute emozionali derivanti dalla relazione di prossimità con gli utenti e dai loro scatti di aggressività. Dall’altra, esse devono prevenire attraverso strategie individuali il rischio che occorrenze simili si ripetano, mettendo in atto strategie e accorgimenti per farvi fronte. Rispetto a entrambe le questioni, la risposta organizzativa e/o datoriale è sostanzialmente nulla, ferme restando le differenti difficoltà messe in campo da un contesto di lavoro comunque collettivo, quale appunto la cooperativa o RSA e dall’abitazione privata, in cui l’assistente familiare è sola nella gestione del paziente.

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Alla questione della complessa gestione emotiva, tanto delle aggressioni nello specifico, quanto, più in generale, del lavoro di cura, si legano poi altre forme di apprendimento individuale emerse dai materiali:

Questo tipo di lavoro dal punto di vista emotivo ti rapisce un po’, no? Quindi inizialmente ne sei completamente assorbito. Io ti dirò che dopo questa esperienza [di infortunio]

sicuramente ho cambiato. Eh, insomma perché mi sono un po’ spaventata. Poi avevo dei dolori talmente forti che ho detto “No, qua, mi devo fermare”. Sai proprio quando dici “che cavolo sto combinando?!”… Poi le esperienze ti aiutano un po’ a curare alcune cose. Che dici, guarda te se devo andare a forzarmi quando avevo dei dolori allucinanti. Non sono indispensabile. […] anche per quanto riguarda la sicurezza, proprio… è mantenendo la giusta distanza, col tempo, che impari.

[6A_Donna, 31 anni, educatrice disabili, Italia]

A me non interessa se prendono altri operatori [per via dell’assenza da infortunio]. Io guardo la mia salute: una volta andavo anche quando ero malata, mentre non potresti andarci se hai la tosse o due linee di febbre, perché rischi di attaccarla agli altri. Era proprio per questo senso di dovere, e poi a me il mio lavoro piace, lo faccio con amore. Non mi rendevo conto di sbagliare, perché quando si è malati bisogna stare a casa.

[9A_Donna, 58 anni, assistente domiciliare, Italia]

Come da più parti sottolineato (de Raeve 2002; Mann 2005), la peculiarità del lavoro in alcuni ambiti di cura attiene alla gestione di aspetti a forte carica emotiva, quali appunto la sofferenza, la malattia, la morte, rispetto ai quali si innesca una dinamica di forte coinvolgimento empatico (Iori 2009) e una costruzione dell’identità professionale spesso centrata sulla “vocazione”, intesa come adesione totalizzante al lavoro. Proprio tale forma di estremo coinvolgimento, citata da più intervistate come chiave per svolgere il lavoro al meglio, costituisce tuttavia un elemento di rischio che con il tempo è necessario imparare a gestire diversamente. Essenziale in questo senso, per non incorrere in situazioni di pericolo, per non superare un limite – fisico e/o psicologico – è per l’appunto imparare, con il tempo e con l’esperienza di precedenti infortuni, a mantenere la “giusta distanza” tra coinvolgimento e distacco.

Infine, una considerazione valida per entrambi i settori oggetto della ricerca SICURTEMP attiene alla dimensione della corporeità, legata all’apprendimento individualizzato e a posteriori della sicurezza. I racconti relativi alle vicende post-infortunistiche chiamano infatti in causa il corpo, rappresentato come macchina resistente e, soprattutto, resiliente, capace quindi di “tornare in forma” o, quantomeno, di simulare una condizione di impeccabilità, anche quando molto lontana dalle reali condizioni fisiche e psicologiche. I risultati di ricerca mostrano come i soggetti infortunatisi si trovino spesso costretti ad apprendere la simulazione di uno stato di salute, più che la sicurezza, proponendo un’immagine impeccabile del corpo pubblico al lavoro, anche quando è proprio la salute ad essere compromessa. La paura di un mercato del lavoro feroce, che ha tempi rapidissimi, e che se sbagli ti esclude, costringe dunque a reagire – soprattutto chi è impiegato con contratti a termine – performando un’immagine e un corpo corrispondente al corpo immaginario richiesto dal mercato (Armano e Murgia, 2011).

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