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L'instabilità contrattuale di lavoratori e lavoratrici migranti

Prima dell’infortunio: un'analisi processuale della costruzione del rischio

6.4 L’intersezionalità della vulnerabilità

6.4.3 L'instabilità contrattuale di lavoratori e lavoratrici migranti

L’ultima, probabilmente più complessa e pervasiva dimensione intersezionale in esame è legata alla provenienza di lavoratori e lavoratrici. Abbiamo già affrontato parzialmente la questione del lavoro migrante in apertura (si veda il paragrafo 6.1.1.), ma a tali considerazioni aggiungeremo ora un ulteriore tassello. I/le migranti intervistati/e risultano infatti particolarmente vulnerabili non solo in termini di costruzione di carriera, sul lungo periodo (a causa, come abbiamo visto, di una maggiore instabilità e deprofessionalizzazione). A tale aspetto si somma una vulnerabilità di carattere immediato e diretto, che espone nel quotidiano a rischi gravi.

Adesso sono cittadina italiana e da quando mi sono sposata non c’è stato più questo problema. Ma prima, avendo bisogno del rinnovo del permesso di soggiorno, dovevo presentarmi in questura con un contratto e dovevo cercarmi qualsiasi lavoro. Tutto quello che ti dicono di fare: “Se accetti ti rifaccio il contratto, altrimenti no”. Se vuoi avere il posto sicuro, devi stare zitto ed accettare. Questo influisce anche sulla psicologia della persona: perché non si sa mai. Ti trattano come uno schiavo, è una parola brutta, ma è così.

[6B_Donna, 48 anni, cameriera di sala Moldavia]

Questioni di in/sicurezza Un percorso di ricerca su contratti a termine e incidenti sul lavoro in provincia di Trento

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Quattro anni fa ho iniziato a lavorare lì, prima come tuttofare e lavapiatti e pian piano come aiuto cuoco. Il contratto era di tre mesi, ma lavoravo sempre cinque, quindi per due mesi in nero. Pagato pochissimo. […] Tredici, anche quattordici al giorno. […] Negli anni sono rimasto solo io, è cambiato tantissimo personale. Stavano due, tre mesi al massimo e poi cambiavano. Io ero il più vecchio là dentro, ho visto tantissime persone. Andavo da loro tutte le stagioni, per i miei documenti. Hanno sempre fatto il nulla osta, quando scadeva andavo in Ucraina per rinnovare e poi tornavo. Stava per uscire una legge e mi hanno detto che mi avrebbero fatto il contratto a tempo indeterminato, ma quando questa legge è uscita loro hanno cambiato idea e si sono tirati indietro.

[19B_Uomo, 30 anni, tuttofare, Ucraina]

Il primo, basilare elemento di vulnerabilità per chi giunge nel mercato del lavoro italiano da altri paesi (soprattutto se extraeuropei) è generato dal legame tra contratto di lavoro e permesso di soggiorno (o comunque autorizzazione a permanere legalmente in Italia). Il timore di scivolare o non fuoriuscire mai dalla condizione sommersa di “clandestinità” forza ad accettare condizioni lavorative gravose, sovente ai limiti dell’abuso. Per i/le lavoratori/trici migranti, infatti, non è in gioco “soltanto” la perdita del lavoro, ma anche il più generale progetto migratorio. Nei rapporti di forza con la parte datoriale pesa quindi un ricatto che ha proporzioni generalizzate, esistenziali, che conduce a esperire condizioni lavorative pessime, che espongono in maniera costante a rischi elevati, tanto in termini di salute e sicurezza, quanto in termini di stress e malessere psicologico.

Altro aspetto intersezionale di vulnerabilità è rappresentato dalla difficoltà di accesso a informazioni e formazione circa i propri diritti lavorativi, tratto che accomuna gran parte delle traiettorie lavorative migranti.

Dopo la guerra sono venuta qua e, con la poca conoscenza della lingua e tutti i problemi che avevo, avevo urgenza di trovare un lavoro qualsiasi e ho cominciato a lavorare da ***

[impresa di pulizie]. Avevo poche ore: tre o massimo cinque. Là mi è successo un infortunio, la mia collega ha chiamato il capo e mi hanno mandato al Pronto Soccorso. Lui [il datore] mi ha detto di non dire dove era successo l’infortunio […]. Io neanche sapevo cosa volesse dire infortunio. La mia collega mi ha chiamato, dicendomi che lui si era arrabbiato, che mi avrebbe mandato via o mi avrebbe diminuito le ore. Io avevo paura, sarei rimasta senza lavoro con un affitto da pagare e tre giorni dopo mi sono presentata al lavoro. Adesso, quando ci ripenso, capisco che è stata l’ignoranza e non è giustificata, ma mi è successo questo. […] Ma che ne sapevo io? Adesso è difficile fregarmi, ma in quel momento non conoscevo neanche i miei diritti. Avevo paura di perdere il lavoro, non badavo a me stessa.

[8A_Donna, 56 anni, ausiliaria assistenza anziani, Bosnia Erzegovina]

Si tratta di un aspetto ricorrente e ben esemplificato dallo stralcio qui proposto, che racconta la vicenda di un primo infortunio (precedente a quello poi approfondito nell’intervista), avvenuto subito dopo l’arrivo in Italia, nel corso del primo contratto di lavoro (precario). La mancata conoscenza dei propri diritti si compone di elementi svariati, spesso tra loro interrelati: l’arrivo recente, le difficoltà linguistiche, l’isolamento e la mancanza di reti di sostegno familiare e sociale, le barriere culturali e, ancora una volta, la necessità impellente (economica e burocratica) di lavorare. Non conoscere i propri diritti conduce, in maniera pressoché inevitabile, a non poterli effettivamente esercitare, esponendosi a condizioni di rischio notevoli, quali appunto il prematuro rientro da un infortunio di entità abbastanza seria, che infatti avrà poi conseguenze permanenti sullo stato di salute dell’intervistata (soggetta, da quell’episodio in poi, a periodici blocchi della schiena).

Sulla base di tali presupposti, appare evidente come possano facilmente innescarsi dinamiche di abuso che, come già chiarito, sono purtroppo frequenti nel campione di intervistate/i, ma che certamente raggiungono picchi allarmanti nel caso delle assistenti familiari:

Questioni di in/sicurezza Un percorso di ricerca su contratti a termine e incidenti sul lavoro in provincia di Trento

I primi anni in cui ero qui lavoravo per una signora molto ricca, senza figli, e il primo mese abbiamo avuto un battibecco. Lei era molto forte, molto dura e voleva fare le cose a modo suo. […] Ho subito un po’ di aggressività: quando uscivamo per fare una passeggiata lei mi bastonava – è successo un paio di volte – in pubblico, le piaceva umiliarmi davanti alla gente. […] Quando mi hanno preso in casa lei si metteva al tavolo e si serviva, e se avanzava un piatto voleva darmelo. Lei da dietro la schiena mi passava un piatto di plastica rovinato. Allora le ho detto: “Io sarò anche venuta da un paese più povero, ma a casa non ho mai mangiato in un piatto così! Non li teniamo neanche in casa di piatti così”. Pian piano, le ho fatto capire tutto e mi sono fatta rispettare.

[18A_Donna, 54 anni, assistente familiare, Moldavia]

Due anni fa avevo un altro lavoro, ma la signora è morta. Quella alzava le mani! Io avevo anche delle foto, poi le ho buttate perché suo figlio è troppo altolocato… Quando portavi da mangiare, magari lo buttava via, ti sgridava o ti alzava le mani. Non mi faceva tanto male, ma ti graffiava le mani, una volta mi ha rotto una catenina. Si arrabbiava, perché non facevi tutto come voleva lei. E non era una persona malata di testa!

[13A_Donna, 58 anni, assistente familiare, Ucraina]

Nel caso delle assistenti familiari emerge un’intersezionalità della vulnerabilità che ha carattere, per così dire, “multiplo”: non vi è soltanto lo status di migrante, ma anche una questione di genere, che incide ulteriormente nella costruzione di condizioni lavorative allarmanti. Il lavoro di assistente familiare, in quanto lavoro di cura, è infatti altamente (se non quasi esclusivamente) femminilizzato e riproduce una serie di stereotipi di genere: al riparo da occhi indiscreti, nel privato delle case, le relazioni lavorative assumono tratti vischiosi, che mescolano dipendenza, affetto, abuso, disagio (spesso da entrambe le parti della relazione lavorativa, sebbene in termini che rimangono profondamente asimmetrici dal punto di vista del potere). Anche quando tali situazioni si manifestano pubblicamente (come nel caso del primo stralcio), sono coperte da una sorta di “invisibilità” sociale: la figura dell’assistente familiare – colloquialmente sminuita al ruolo di “badante” – assume a ben guardare i tratti del vecchio lavoro servile, rivisitato e riattualizzato. E, come si sa, servire non è lavorare: tale condizione presuppone infatti la cancellazione del diritto, dunque della separazione tra prestazione lavorativa e individuo, in favore di una coincidenza totale tra vita e lavoro di cura (così come, e non è secondario, tra luogo di lavoro e luogo di abitazione).

Occorre infine sottolineare la vulnerabilità che caratterizza l'intreccio tra lo status di migrante e la dimensione generazionale:

Adesso col passare del tempo non posso più alzare persone pesanti. Adesso mi fa male e mi hanno detto che non devo alzare pesi e fare lavori pesanti. Ma dove lo trovo un lavoro così?

Chi mi aiuta? Io ho aiutato, ma a me chi mi aiuta? Ho chiesto a tutte le agenzie di lavoro, ma non riesco a trovare un lavoro buono per la mia salute Non so, credo che non troverò da nessuna parte.

[17A_Donna, 53 anni, assistente familiare, Bulgaria]

Come vedremo meglio nel corso del capitolo 8, centrato sulle traiettorie post infortunistiche, a condizioni e traiettorie lavorative vulnerabili corrisponde uno stato di usura fisica progressiva che, con l’avanzare dell’età, rende lo svolgimento delle proprie mansioni sempre più difficoltoso, quando non impossibile. Si viene così a creare un conflitto tra esigenze di salute e sicurezza e traiettoria lavorativa. Con un gioco di parole, si può restituire tale condizione paradossale in forma di domanda: chi avrà cura di chi ha lungamente svolto mansioni di cura, trovandosi a non poter più lavorare entro tale settore?

La questione chiama in causa, vista la sua intersezionalità, piani differenti: dall’usura fisica determinata da alcuni lavori di cura, altamente femminilizzati, all’accesso a servizi e tutele per lavoratrici/tori migranti, al già citato prolungarsi dell’età lavorativa.

Capitolo 7

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