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per che m‟aggrada tal sentenza e voglio

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Non posso più sopportare di tacere la mia pesante [insopportabile] e pericolosa condizione, sebbene in parte l‟abbia già palesata a parole e a fatti, in maniera veridica. Ne ho mostrato l‟entità quantitativa e qualitativa, e non vi sono elementi di contraddizione con quello che patisco/sopporto, che è così mortale: sono sicuro che non potrei avere condizione peggiore, perché condizione peggiore non esiste [ma semplicemente: non esiste]. La mia condizione è così catastrofica e sono così immerso in una infausto destino, che se possiedo qualcosa che sia nel novero dei piaceri umani ‒ o possa, in questo modo, sperare nel riposo ‒, quel qualcosa non rimane in me nemmeno un‟ora; e tuttavia apprendo e memorizzo tutti mali che un uomo [si direbbe: mente umana] potrebbe immaginare, al punto che la natura mi ha creato come loro dimora e anche come punto di origine di ogni essere umano sofferente.

1-2. Vd. per l‟incipit già l‟attacco di Guiraut de Bornelh « No·s pot sofrir ma lenga qu‟ilh no dia » Chiaro Davanzati, Per la grande abondanza ch‟ïo sento, vv. 3-4 «per nulla guisa non posso soferire / che di cantar non facc[i]a movimento» In opposizione a un pilastro portante della retorica politica duecentesca (ovvero il sapere parlare e rimanere zitti a momento debito, (vd. per esempio lo scopo di Albertano all‟inizio del Liber de doctrina dicendi et tacendi, 2 «Quoniam in dicendo multi errant nec est aliquis qui linguam suam ad plenum valeat domare», sull‟importanza del silenzio nella retorica duecentesca di veda Artifoni 2010), l‟impossibiltà di tacere una condizione particolarmente dolorosa è marca frequente di Monte (simili in effetti gli incipit di IV, VI, VIII, e ‒ in leggera variante ‒ IX). Il primo verso è molto vicino a passaggio del paragrafo della Rettorica sulle modalità di fare l‟uditore

intento, 102, 9 «Et di tutti modi per fare l‟uditore intento potemo noi colliere exempli in queste parole che

disse Tullio a Cesare parlando per Marco Marcello: “Tanta mansuetudine e così inaudita e non usata pietade e così incredebile e quasi divina sapienzia in nessuno modo mi posso io tacere né sofferire ch‟io non dica». Andrà altresì notato come Monte ritardi l‟esplicitazione del contenuto economico della canzone alla quarta strofe, dando la falsa impressione al lettore di trovarsi davanti a un testo d‟amore doloroso (come le precedenti Ahi doloroso lasso e Ahi misero, taipino).

5. Si segue la proposta di Minetti per evitare di mettere mano al testo, ma altrettanto soddisfacente sarebbe il senso complessivo, eliminando l‟ausiliare ò in mostrat‟ò e la congiunzione e prima di né mic‟à, ottenendo il seguente verso (con accenti di quarta e di sesta) «Quant‟o qual‟è mostrato né mic‟à» (da intendere „L‟entità quantitativa e qualitativa [dei dolori] che è mostrata non ha elementi in contraddizione

ecc.‟).

7. ch‟è si mortale: in Minetti, separato da quanto detto prima con il punto e virgola. Preferisco invece associare la stringa al verso precedente (come Minetti nella parafrasi). Ricorda il v. 18 di Ahi miseto,

tapino «ed ancor peggio se peggio si trova» e il v. 11 del son. Molto m‟agrada, certo, e sa.mi bello «Ca

peggio aver nom poteria ch'i' aggio».

9-10. cfr. l‟anonima O me lasso, tapin, perché fui nato, vv. 2-3 «po‟ ‟n sì fera fortuna mi ritrovo / che ʼl me crudele doloroso stato [...]» (la vicinanza tra il sonetto e la canzone di Monte è confermata anche dalla ripresa al v. 5 del v. 56 montiano, per cui cfr. la nota relativa).

11-12. Minetti mette a testo s‟è im piacere d‟ommo cosa alcuna, e possasi sperare alcun riposo (chiosando: «se esiste davvero al mondo cosa piacevole o auspicabile», la seconda coordinata non è tradotta). Tuttavia ‒ posto il solito compendio di nasale, privo di natura fonica, che il copista di V appone su omo ‒ il problema qui mi pare squisitamente soggettivo, e dunque si recuperano qui le prime persone

om ò e possa): non sono i piaceri a non esistere, ma è Monte che non riesce ad ottenerli o conservarli,

vedi infatti immediatamente sotto il v. 13 «[il piacere] in me non fa riparo» e, più avanti, il v. 54 « [...] tutto ben fuor di me resta». In generale,.più avanti, al v. 133, si dirà che il non potersi mantenere conduce l‟uomo lontano dal luogo dove sia piacere o bene, e cfr. anche Ahimé lasso perché a figura d‟omo, vv. 51-52 « [...] tutto quanto dir si puote ò ·‟ me / che sia fuor di piacere ad uomo vivo».

14. espressione ellittica caratteristica e ricorrente in Monte che spesso si ritrae come ricettacolo di ogni male, cfr. qui i vv. 21, 33 (con l‟elenco che precede), 39-40, 104, estremizzata nei versi successivi.

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ritegno ed apparo: hysteron proteron, su per es. Tesoretto, 544-545, segnalato già da Minetti «tu potessi

aparare / e ritenere a mente».

Ahimé, infelice, che vita è la mia? E come sono gettato in un feroce pianeta. Ogni cosa definibile come tormento [ogni tormento] si eredita solo da me: sono fatto sagrestia di ogni minaccia. Non posso sperare nel bene nemmeno un minimo. Dov‟è la gioia, l‟allegria, e il godimento? Dov‟è il piacere e il diporto [totale]? Dov‟è letizia e qualsiasi bene che esista? Rispondo [descrivendo] come sono spogliato di tutto [lett. tutti, i piaceri sopra elencati]. Depressione, pena, angoscia e risentimento, sconforto e sciagura, tristezza, noia, affanno all‟infinito [a dismisura, in quantità smodata], ho nello scudo [fuor di metafora dunque varrà come „mi tempestano di colpi]. Dolore, dispiacere, tutti i martìri, malinconia, pianto, gemiti e sospiri, tormento, ira, tutto il male e la tribolazione, di ciascuno di loro sono ammiraglio: ecco il tesoro che chiudo nella mia sagrestia.

20. forte pianeta: vd. almeno Chiaro, per il topos della poesia d‟amore, Allegrosi cantari, vv. 29-31 «Sì ho ferma credenza / che lo mio nascimento / fosse in mala pianeta».

21. sagrestia: a quanto risulta, l‟unica altra occorrenza in poesia della metafora del corpo come sagrestia che racchiude un tesoro (in Monte ironicamente, vd. più avanti il v. 34) è in Intelligenza, 301, cfr. i vv. 1,3 e 6 «[E] l‟anima con corpo è quel palazzo / [...] / E la gran sala è ʼl core spazioso, / [...] / quiv‟è la sagresti‟ e ʼl tesor nascoso». Per la metafora del corpo come luogo che racchiude qualcosa vd. almeno Isidoro, Ethim. XI I 73 « Thorax a Graecis dicitur anterior pars trunci a collo usque ad stomachum, quam nos dicimus arcam eo quod ibi arcanum sit, id est secretum, quo ceteri arcentur. Unde et arca et ara dicta, quasi res secretae».

23-25. La triplice interrogativa retorica ha lo scopo di enfatizzare quanto detto sotto (ovvero che il soggetto è completamente spogliato dei piaceri sopra elencati). L‟elenco contrasta con quello ben più ampio di mali che affliggono il poeta, che occupa quasi l‟intera sirma della strofe. I termini ricorrono anche in poesia d‟amore per cui cfr. dello stesso Monte, Nel core aggio un foco, vv. 69-70 «Perdut‟aggio diporto / gioia ed alegranza».

27-32. Il lungo elenco di dolori è quasi del tutt identico a quello di Ahi doloroso lasso, vv. 20-24, anche neggli elementi di cornice (domanda retorica, seguìta dall‟elenco introdotto dal verbo rispondo e, nella conclusione, un‟ironia simile, per cui vd. qui sotto n. al v. 34). Rimpiego di termini leggibili in poesia d‟amore, per cui vd. per es. Federigo dall‟Ambra, Oh, quanto male àven d‟Amor mondano, vv. 9-12 «Força, disdegno, frodo, torto e brama, / spiacer, dolor, sospiri, pianti e noia, / lamento, pena, pasmo, angoscia e morte, / dona l‟ Amore all‟amadore in sorte» (cito con qualche modifica dalla CLPIO). Per quanto riguarda il v. 27, con dialefe in cesura la congettura di Minetti e [gran] rancura (sulla base di Eo non mi credo sia

alcuno amante, v. 16 «sentendo pena e dolglia e gra[n] rancura») non è necessaria. Si sceglie per una

questione di simmetria interna al verso di applicare la dialefe dopo la cesura di quinta (ottenendo due coppie che sono in rapporto di consequenzialità, dal momento che l‟angoscia e la rancura rappresentano a mio parere un peggioramento di pensiero e pena).

34. Il verso è praticamente ripetuto dall‟anonimo autore di Sì come ‟l mare face per tenpesta, v. 10 «cotal tezoro in mia sagrestia chiudo» (cfr. il „cappello‟ introduttivo, alla fine). tale tesoro: forte ironia (peraltro ripetuta più avanti al v. 109) , costruità come già in Tanto m‟abbonda, vv. 20-25, dove all‟elenco di mali causati dall‟amore, segue la definizione di questi ultimi come gioie [da intendere gioielli, vd. n. al v. 112]. È la prima occorrenza di un termine ‒ ovviamente ‒ cruciale in tutto il blocco delle canzoni economiche (ventuno occorrenze, alle quali andranno aggiunti il riferimento al capitale economico di Carlo D‟Angiò nell‟incipit Se convien Carlo suo tesoro egli apra e il reimpiego del termine in contesto amoroso in Meo sir

cangiato veggioti il talento, ), ma in questo caso, per quanto detto alla n. 1, senza l‟accezione specialistica di capitale/possedimenti. Per la poesia d‟amore cfr. almeno Pierre Bremon, Si·m ten Amors, vv. 12-14 « Aitals

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Lasso, lasso, che sono condotto a una via peggiore di quella che descrivo: e sono sicuro ‒ tale è la rovina che ho ‒ non ci sarà per me mai alcuno scampo. Nemmeno per un‟ora mi danno sosta tutti i mali, attraversandomi ogni membro: il corpo, il cuore, l‟anima sono generati naturalmente assieme a loro al punto che non vivo un solo istante. Molti potrebbero dire: «Come fai a sostenere la vita, essendo tanto male a governo di te?». Rispondo che io sono l‟inferno del mondo, per non avere [mai] fine [si intenda alle sofferenze], identicamente all‟altro inferno che è nell‟abisso. Se il mondo avrà fine allora so che sarà di me, ma ne dubito fortemente. Tanto crudele, pieno di tormento e oscuro, per cui non spero aiuto.

35. lasso, lasso: per l‟epanalessi (ulteriormente rafforzata dal tristo del verso successivo), qui ‒ e al v. 111 (Ohimé, ohimé), con lo scopo di marcare la personale condizione di tormento, cfr. Serianni, 2005, pp. 21-23.

36. tristo son condotto: il campione è prelevato successivamente da Francesco Ismera, Per gran

Soverchio, v. 3 « Poi che io tristo son condotto a passo» (con echi anche da Ahi Deo merzé, v. 40 e Ahi doloroso lasso v. 73.

43-44. Minetti chiosa il verso «Come fai a chiamare „vita‟ un siffatto malgoverno di te», qui si propone ‒ congruamente con quello che verrà detto nei versi successivi, sull‟eternità dei mali e sull‟impossibilità di smettere di soffrire (immagine che dunque si accorederebbe meglio a una domanda così semplificata „come fai a essere vivo con tutti questi mali?) interpretare il verbo sostien, come altrove in Monte come sostenere-sopportare (come in Perfetto, amico, vostro consilglio tengno, v. 2 «dritto sostegno del mal sì doloroso»). Più complicato risulta trovare una collocazione a esser, che ricondurrei a una serie – seppur rara ‒ di infiniti con funzione di gerundio (per cui vd. Segre, 1974, pp. 127-128).

45-47. L‟immagine dell‟essere vivente che paragona i propri tormenti a quelli infernali è già in

Psalmos, 17, 6 «dolores inferni cirumdederunt me». Il tema dell‟inferno, già visto in Ahi misero tapino,

vv. 68-70, è qui presentato con rinnovata originalità: all‟inferno come luogo fisico, infatti, il poeta poeta oppone un inferno terreno circoscritto dal proprio corpo (il tutto da ricollegare al crescendo nella rappresentazione del dolore di cui si è parlato nell‟introduzione), dove i propri dolori non avranno fine, proprio come avviene all‟inferno che si trova nell‟abisso. Dunque al paradiso biblico che attenderebbe il povero, Monte oppone il proprio inferno personale (vd. più avanti n. al v. 85) sembrerebbe con una certa forza polemica, per cui vd. al contrario Agostino, De Genesi, XII, 33.63:« “Contigit ‒ enim, inquit, ‒ mori inopem illum, et auferri ab Angelis in sinum Abrahae: mortuus est autem et dives, et sepultus est; et cum apud inferos in tormentis esset” 74, et caetera. Videmus itaque inferorum mentionem non esse factam in requie pauperis, sed in supplicio divitis».

48. s‟averà fine il mondo: ovvero nel giorno del giudizio, come esplicitato in Ahimé lasso, perché a

figura d‟omo, vv. 107-108. Il concetto è ribadito pù avanti ai vv. 116-119.

Ora voglio dire come può accadere che la mia vita sia in una tal tempesta, e come tutto il bene fuori di me resta più del doppio di quello che dico (la proporzione è uno a cento): sono bloccato nelle ruote, di sotto, ripulito da ogni ricchezza, totalmente nudo di oro e argento e ancora di amici, che è maggiore catastrofe (o Minetti separazione). Ora che sono, come vi dico, privo [ma il verbo è più forte] d‟ogni cosa che può avere in me effetto virtuoso, vi fossero pure senno e tutte le qualità acquisite [esteriormente], regnasse in me virtù, non mi gioverebbero in ogni caso! Così vi dico come la disposizione interiore, la reputazione di chi è povero, la sua bontà [da intendere come valore morale] sono completamente estinte: nessuno amico si appagherebbe di una tale persona, ma sempre ha paura che ci perda il naso.

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53. tempesta: la metafora applicata al disagio della povertà è anche in Carnino Ghiberti, Poi ch‟è sì

vergognoso, v. 62 «la tempesta m‟avolge». Vd. più avanti anche Ancor di dir non fino, v. 5.

55. per un cento: calco di una formula provenzale di ampia diffusione (per un cen), primo esempio in Guido delle Colonne, La mia pena e lo gravoso affanno, v. 25.

54. ancora un prelievo di Sì come ‟l mare face per tempesta, v. 7 «e onni gioi e ben fòr di me resta». 56. il verso è molto simile all‟anonima O me, lasso, tapin, perché fui nato di cui si citano i vv. 2-5 (giacché l‟anonimo estensore del sonetto sembra avere in mente altri luoghi di questa canzone, cfr. infatti qui i vv. 10 e 50-51, ma nel commento relativo in PSS III, p. 1109, Monte non è richiamato) «po‟ ‟n sì fera fortuna mi ritrovo, /che ‟l me crudele doloroso stato / m‟adduce ognor torment‟e pianto novo! Di sotto nella rota son locato». Utilizza l‟immagine con lo stesso verbo Cione in tenzone con Monte nella politica I baron‟

de la Magna àn fatto impero «La rota no è confitta, amico meo». rote: l‟immagine della ruota della fortuna,

già presente nella tradizione classica e diffusissima nel Medioevo, per Pézard grazie alla mediazione di Jean de Meun (cfr Pézard 1966), ha una discreta diffusione nella lirica toscana (solitamente nella forma singolare

rota/ruota), cito, per coincidenza di contenuto, Poi ch‟è sì vergognoso di Carnino Ghiberti, v. 18 «Volt‟è

fortuna in basso». Da notare la differenza, perché caratteristica della ruota era ‒ come ovvio ‒ quella di girare e portare in altezza coloro che prima erano in basso (cfr. Paolo Lanfranchi, De la rota son posti

esempli as[s]ai, vv. 2-4 « [...] gira e volge e no dimora in loco, / e mette in bono stato quel c‟ha poco, / al

poderoso dà tormenti e guai»), la ruota di Monte e bloccata, costringendolo in basso (e d‟altra parte il participio confitto, letteralmente inchiodato, cfr. TLIO, s.v. configgere, §1, amplifica l‟idea di una coercizione violenta, con ulteriore rafforzamento a livello fonico tramite l‟allitterazione di occlusive alveolari sonore, sotto confitto) Cfr. inoltre Bonagiunta, Movo di basso e vogl[i]‟alto montare, vv. 3-4 « [...] sì vogl[i]o alto andare / come la rota in su mi va portando», evocato qui anche altrove, vd. n. relativa al v. 123.

57-58. Come anticipato nel cappello, nella descrizione della propria povertà Monte è accostabile a certi autoritratti della poesia comico-realistica, vd. per esempio, per il parallelo tra la povertà e la macilenza, l‟incipit del rifacimento angiolieresco di Meo de‟ Tolomei «Io son sì magro che quasi traluco / de la persona, ma più de l‟avere». Andrà inoltre ricordato che la nudità era, al contrario, attribuita all‟avaro che, per accumulare i beni materiali, rinunciava alla ricchezza spiriturale, cfr. Vincenzo di Beauvais, Speculum

morale, c. 1261 «avarus nudus efficitur, quia spoliatur omnibus spiritualibus bonis, scilicet veste gratiae,

gemmis virtutum, et thesauro gloriae». argento e oro: il sintagma è biblico e d‟altra parte sembra che Monte abbia ben presenti certi passaggi della Bibbia, cfr. per esempio Matteo, 10, 9 «nolite possidere aurum neque argentum neque pecuniam in zonis vestris» (citato anche in Bonaventura, Apologia pauperum, VII, 5); da cfr. anche con il v. 83 «Ma sì consiglio ch‟ogn‟om procacci avere»).

59. amici. Vd. qui, al contrario, i versi 78-79. Il tema delle false amicizie che, nei momenti di difficoltà, si dileguano è topico, cfr. Iob, 19, 13 «fratres meos longe fecit a me et noti mei quasi alieni recesserunt a me». Ma vd. anche per le implicazioni semantiche con il denaro/tesoro Ecclesiasticus, VI, 14-15, qui praticamente smentito: «Amicus fidelis protectio fortis; / qui invenit illum invenit thesaurum, / et non est digna ponderatio auri / et argenti contra bonitatem / fidei illius» e riletture successive, vd. per esempio Andrea Cappellano, De

Amore, libro III: «[...] si unus inter cunctos homines alicui reperitur amicus, super omni thesauro pretiosior

invenitur»). La base teorica è anche nel Trésor, libro II, 105, I: «Cil qui t‟aime por son profit [...] t‟aime tant come il puet avoir dou tien: donc aime il tes choses, non pas toi. Et, se tes choses faillent, que tu devieingnes en povreté ou en adversité, il ne te conoist jamas». maggior scoppio. simile espressione, associata all‟abbandono degli amici, nell‟Elegia di Arrigo da Settimello, vv. 127-128 «Me domini, sotii noti, quod maius, amici / [...] in medio deservere mari» (e vd. anche l‟anonima traduzione trecentesca del Riccardiano 1338 «I signori, li compagni conosciuti, li amici (ch‟è maggior cosa) / [...] m‟abandonarono in mezzo lo mare»). Scoppio sta per „separazione violenta‟ (così Minetti a p. 289), sostantivo non altrimenti attestato se non nel corpus di Monte (cfr. anche Non isperate, ghebellin‟, soccorso, vv. 24-25 «Ché bene avrete, ghebellin‟, ta· scoppio /, già mai d‟alcun non si ranodrà pezzo»), modellato sul verbo scoppiare, „dividere

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cose o persone accoppiate tra loro‟ così GAVI 16/2, p. 262, con prima attestazione cinquecentesca, vd. però anche Blaise patristico, s.v. scopulus, con il significato di „scoglio, ostacolo, impedimento (e rimando ad Agostino, De ordine, 1, 1 «scopulos vitae»).

60-69. L‟intera sirma è occupata dalla riflessione su un tema fondamentale elle canzoni economiche di Monte. Viene infatti rovesciato uno dei capisaldi della morale duecentesca, che predicava la separazione tra le virtù e gli averi posseduti. Se spesso il possesso delle virtù era presentanto come inconciliabile con quello dei beni materiali (così per esempio Guittone, nella consolatoria a Monte, cfr. Lettere in Monte sono proprio i beni materiali che legittimano il possesso delle virtù (e si confronti il tutto con l‟inizio della stanza successiva, dove a essere considerato idoneo e a possedere grandezza e seguaci è colui che per arricchirsi ha compiuto i peggiori misfatti, perché l‟uomo vale per quello che possiede, anche se fosse totalmente privo di qualità interiori). Sulla reputazione (nome) cfr. Proverbia, 22, 1, che viene rovesciato « melius est nomen bonum quam divitiae multae».

62. in Minetti «fosse in me sen, tute bontà concedute», che però è ipermetro e irriducibile entro misure canoniche. Si propone di sopprimere in me, la cui presenza nel verso precedente e in quello successivo ha potuto trarre in inganno il copista di V.

Ben può ciascuno può vedere apertamente che il mondo intero va così: cioè che l‟uomo vale tanto in base agli averi che possiede, anche se fosse interamente privo di qualità morale. E senza tema di smentita posso certamente dire: il tesoro [gli] fa derubare le chiese ed ospedali; parlo di usura, di rapina, falsità vere e proprie. Costui è ritenunto persona convenevole, se la sua ricchezza non gli suscita senso di colpa: possiede parenti, amici e grandezza in quantità che desidera. A ciascuno è gradita la sua moneta. E potrei fornire molti esempi di questa tendenza ma ora non voglio, così mi calmo un pò. Tuttavia consiglio caldamente che ciascuno si procacci averi e, per quanto può, li mantenga integri: chi non lo fa è odiato più di un demonio.

69-72. Si noti come la formula atta a veicolare l‟attenzione del lettore sia immediatamente seguita da un distico che ha andamento proverbiale. Il problema era già sentito in epoca latina, per cui cfr. Cicerone,

Paradoxa stoicorum, 6, 48 «nulla possessio, nulla vis auri et argenti pluris quam virtus aestimanda est» e

Seneca, Epistulae morales, 115, 14, molto vicino al v. 71 anche formalmente «Ubique tanti quisque, quantum habuit, fuit»; poi Lotario da Segni, De contemptu mundi, I, XV, 3 «Proh pudor! secundum fortunam extimatur persona, cum poyius secundum personam sit estimanda fortuna. Tam bonus reputatur ut dives, tam malus ut pauper»». Si veda infine anche Brunetto, Tresor, II, 118, 3 « [...] tu vois que chascuns a itant de foi come il a deniers en sa huce».

70. mondo tutto: cfr. Mattheum, 16, 26 «quid enim prodest homini si mundum universum lucretur animae vero suae detrimentum patiatur» (vd. anche Marcum, 8, 36, che ha totum mondum, e Lucam, 9, 25».

71. Cfr. il vicinissimo Carnino Ghiberti Poi ch‟è sì doloroso, vv. 27 e 29-30 «Aver [...] / [...] / [...] poco vale / chi non ti guarda e da te dipartisce» (non citato in Catenazzi 1977b, che pure riconosce nelle canzoni sull‟argomento di Monte la fonte di Carnino. Il v. ricorda curiosamente (e in prospettiva rovesciata) un adagio di San Francesco, vd. Admonitiones, 19, 1 « Quantum homo est coram Deo, tantum est et nihil plus » (il passo è riportato anche da Bonaventura, Sermones de diversis, 57, 9, che aggiunge

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