V 280, c. 87v-88r, rubrica: Mō.
Edizioni: D‟Ancona-Comparetti, III, pp. 235-238, Salinari, pp. 376-379, Muscetta, pp. 448-451, Avalle, pp. 205-208, CLPIO, p. 161, Ossola-Segre (Rossi), pp. 159-162.
Bibliografia: Avalle 1977, pp. 115 e segg.
È merito di Avalle, che di questa canzone ha fornito una splendida lettura, se alcuni snodi del testo risultano ora più chiari. La prima importante acquisizione dello studioso è l‟individuazione del Cantico dei
Cantici come intertesto di Ohi dolze amore: dal libro biblico infatti provengono gli elementi naturali descritti
(l‟ortus, i poma, il fructus), come d‟altronde l‟interpretazione erotica di questi ultimi. Quella che però ‒ sottolinea lo studioso ‒ risulta notevole è l‟organizzazione del discorso da parte di Monte: ciò che colpisce il lettore non è infatti il contenuto del testo (com‟era d‟altronde già avvenuto in Ahi Deo merzé) ‒ caratterizzato piuttosto, per riprendere le parole di Avalle, «dagli strumenti del più frusto linguaggio tradizionale» (Avalle 1977, p. 120) ‒, ma dal modo in cui questo contenuto viene sviluppato e inserito in una serrata partitura formale. Ohi dolze amore è sostanzialmente una dichiarazione d‟amore e di fede nei confronti di un
fiore/frutto (definiti anche giglio/pome), ma particolare è l‟attenzione riservata allo spazio (giardino per il fiore, orto per il frutto) nel quale sono calati il poeta-amante e il suo oggetto del desiderio, da intendere
dunque come luogo di azione e non solo come semplice metafora (vicino in tal senso alla Rose di Guillaume de Lorris, caratterizzata dallo stesso gioco di avvicinamenti e dipartite). Nella prima parte della canzone si assiste al passaggio da un momento di minima gioia fattuale (nel quale il poeta e il fiore convivono nello stesso luogo, seppure per un tempo che si vorrebbe più ampio) al doloroso distacco successivo; e tale allontanamento è sottolineato da una precisa opposizione spaziale ‒ che corrisponde peraltro esplicitamente a un‟opposizione simbolica (vv. 25-26 «[...] fuor di pene / e ʼn gioia [...]») ‒, delineata da Monte attraverso il peculiare utilizzo di verbi di movimento, complementi di luogo (vv. 22-23 «[...] ʼn gioia mi tene / quando [là] vene chio sono in quel loco», vv. 37-40 «Sempre sto in pensamento / quan‟ dal giardin mi parto, / tant‟è lo godimento / che dentro v‟è disparto») e aggettivi dimostrativi con funzione deittica (quel dolze fiore, v. 17; quel loco, v. 23; quell‟orto, v. 29; quel pome, v. 33; quel giardin). La seconda parte è invece dedicata al momento del doloroso distacco, marcato attraverso il passaggio dalla seconda alla terza persona, con effetti quasi paradossali, poiché il dolore per la lontananza è talmente grande, che la volontà del poeta è quella di non difendersi al contrario dagli attacchi di Amore, visti piuttosto come fonte di gioia. La situazione è superata con un atto di fede incondizionata nel futuro intervento del fiore; ancora una volta questo cambiamento di prospettiva è introdotto da precise strategie linguistiche: si noterà infatti che mentre nella prima parte il poeta palesi il desiderio di un maggiore coinvolgimento del fiore e, più in generale, il desiderio di possessione attraverso l‟utilizzo di frasi ottative e augurative («vo‟ti pregare / [...] / ca ʼn pene stare non mi facce tanto», vv.56-57 «Averlo al mio talento / lo fiore cui tant‟amo», 61 e 63 «ch‟aggia pietanza / [...] / di me, ʼnanti ch‟io pera», 64-65 «non sia diviso / (ne [sia] conquiso»), nelle ultime due stanze, all‟immagine di morte, che sembra ormai preannunciare la definitiva sconfitta ‒ espressa infatti con il futuro (vv. «[...] fenita / / farò crudele e forte»)‒, Monte contrappone altri due futuri, retti da verbi riconducibili alla sfera semantica
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del credere (cfr. i vv. 93-95 e 104-105), che marcano l‟assoluta certezza nell‟operato salvifico del fiore (in quest‟ultima parte definito prima frutto e poi giglio).
Se l‟interpretazione di Avalle è essenzialmente di natura sessuale (in tal modo, il binomio fiore-frutto rimanderebbe al sesso femminile e il giardino/orto al corpo femminile), a partire da uno spunto di Minetti, che pure approfondisce nel cappello introduttivo alla canzone il sistema di Avalle, sembrerebbe possibile ipotizzare ‒ seppure la cosa è data per certa da Luciano Rossi (cfr Ossola-Segre 1997, p. 159) ‒ una lettura politica del testo: Ohi dolze amore potrebbe dunque essere un travestimento amoroso di un omaggio politico, indirizzato a Carlo D‟Angiò (al cui blasone rimanda il giglio dell‟ultima strofe, come poi accadrà nelle tenzoni politiche). Il discorso tuttavia può essere ulteriormente approfondito, perché per l‟uso di certe immagini e per l‟insistenza sulla lontananza, Ohi dolze amore sembra accostabile a un gruppo di testi di lontananza, tutti o quasi contenuti nel IX fascicolo del ms. Vaticano, di esiliati fiorentini, nei quali il tema della lontananza dalla donna rimanda a quello, ben più cogente, dell‟esilio dalla città (cfr. Zanni 2013, pp. 341-342); il fatto che si alluda al giglio angioino al futuro potrebbe rispecchiare il clima di attesa precedente l‟entrata a Firenze ‒ nell‟aprile del 1267 ‒ di Carlo. Ovviamente, in mancanza di prove più consistenti che avallino questa ipotesi, si rimane sempre nel campo della congettura (anzi, i dati di archivio hanno dimostrato che il poeta rimase a Bologna anche dopo la restaurazione, per mano dell‟Angiò, del governo guelfo a Firenze): per questa ragione, nel commento seguirò entrambe le piste interpretative.
Ricordo infine la proposta di Lino Leonardi (Leonardi 1997), secondo la quale a questa canzone ‒ per coincidenza di incipit e prima parte delle strofe, nonché per lo stesso numero di versi (distribuiti però in maniera diversa) ‒ alluderebbe la lauda iacoponica Ohi dolze Amore, con rovesciamento in ottica mistica della sensualità del testo di Monte (includendo altresì implicitamente come bersaglio le sue opinioni sul denaro): in realtà, come ammette le stesso Leonardi, con il procedere della lettura le connessioni non risultano poi così stringenti.
Sul piano ecdotico, la prima questione da affrontare riguarda la disposizione dei versi che, nell‟edizione Minetti, si presentano in maniera leggermente diversa rispetto al manoscritto; per recuperare infatti una certa regolarità, lo studioso unisce il terzo e il quarto, il settimo e l‟ottavo verso di ogni stanza ‒ secondo lo schema aa(a)B, cc(c)D, efef ‒, ottenendo dunque due endecasillabi in rima al mezzo con i versi precedenti (tra questi, cinque risultano endecasillabi eccedenti in cesura ‒ vv. 53, 63, 66, 73, 83 dell‟edizione di Minetti ‒, mentre gli altri sono regolarizzabili tramite apocope o sinalefe). Mi pare tuttavia che non ci siano ragioni sufficienti per non accogliere la divisione del manoscritto, alla cui lezione propongo di tornare, con strofe di versi brevi, di ispirazione quindi sicilianeggiante: occorrerà dunque ammettere la possibilità di una certa oscillazione ‒ già vista d‟altronde in Nel core aggio un foco ‒ nella misura dei versi che occupano la quarta e l‟ottava posizione di ogni strofe (senari e settenari), secondo la seguente distribuzione:
I) 5556 5556 7777: la strofa non pone problemi. Il verso in quarta posizione (ai si namorato) è eventualmente riconducibile al settenario interpretando il verbo ài come bisillabo.
II) 5556 5556 7777: nel ms. il v. in ottava posizione è settenario (istesse dalunchanto) riducibile eliminando l‟epitesi in
istesse (> stesse).
III) 5556 5556 7777: il verso in ottava posizione è settenario (loqualẹ mi tene jngioco) riducibile con aferesi dell‟articolo in apertura di verso (‟l qual).
IV) 5556 5557 7777: il v. in quarta posizione è eventualmente estensibile a settenario accogliendo a testo la lezione del ms (quello pome). Il v. in ottava posizione è irriducibile.
V) 5556 5557 7777: con settenario in quarta posizione (logiorno chio nolvegio) riducibile sempre con aferesi dell‟articolo all‟inizio del verso (‟l giorno). Non ritocco il settenario in ottava posizione perché l‟unico intervento possibile (saràmi > sarà) mi sembra troppo oneroso.
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VI) 5557 5556 7777: evito l‟unico intervento possibile che riguarda il v. in ottava posizione, estensibile a settenario applicando dialefe ‒ con connessione per tra l‟immagine di cui si parla e la figura metrica ‒ tra tempo e la congiunzione che segue.
Le rimanenti tre stanze seguono lo schema 5557 5557 7777.
La disposizione dei versi proposta permette a ben vedere di apprezzare al meglio certe connessioni che intercorrono tra le varie stanze; si veda per esempio il legame ‒ a formare una sorta di connessione capfinida estesa ‒ tra le volte della quinta e e il primo piede della sesta stanza (uno dei luoghi chiave della canzone, nel quale il poeta, rinunciando alla difesa dall‟attacco dell‟amore, preannuncia la propria remissione nei confronti del giglio), cfr. 56-60, 57-61, 58-62, 59-63:
da poi ch‟Amor m‟à preso → Ché gioia prendo con sì forte catena, → là ʼndio m‟arrendo ch‟io moro se difeso → non mi difendo
non son di tal catena. → d‟Amor che m‟à ʼn pregione.
Come si vede dall‟esempio, ogni piede è costituito da tre quinari in rima con un senario/settenario. In due casi tuttavia il manoscritto riporta versi di quattro sillabe, sui quali è necessario intervenire. Al v. 27 integro alla lezione del manoscritto, sempre per mantenere la connotazione spaziale, l‟avverbio là, caduto forse per la vicinanza del simile gruppo do (di quando). Simile eziologia per la caduta al v. 77, per cui non riprendo l‟integrazione di Minetti (son), ma impiego il congiuntivo ottativo sia (caduto per la vicinanza dell‟identica forma nel verso precedente), con il vantaggio di una più stretta pertinenza con l‟atmosfera di desiderio generale. Tornando al passo citato poco sopra, un altro intervento è necessario al v. 60, dove il ms. ha la lezione gioia perdo (in rima con arrendo e difendo), lasciata a testo da Minetti come assonanza con parziale consonanza: due sono le ipotesi possibili sulla genesi dell‟errore: la prima, più ovvia, è che il copista sia intervenuto su un precedente predo (con caduta del compendio di nasale), o in alternativa si potrebbe pensare che l‟intervento si sia reso necessario per mancata comprensione del passo (si noterà infatti il passaggio piuttosto repentino a una visione positiva della catena d‟amore). Comunque sia, in questo punto del testo la ripresa sistematica degli elementi dei versi precedenti mi pare che impongano la correzione di perdo in
prendo (in dialettica dunque con il v. 56 «da poi ch‟Amor m‟à preso»). Si interviene altresì, con Minetti, al
v. 95, mutando l‟ordine degli elementi che aprono il v. nel manoscritto, avrà di me, per la necessità di ottenere una sinalefe che ristabilisca la misura del settenario.
Di là dai possibili interventi, il dato che colpisce di più è la disattenzione del copista durante la trascrizione del testo, con la probabile connivenza della successione di versi brevi su identica rima: in due casi (cfr. la seconda fascia d‟apparato relativa ai vv. 5 e 88) il copista anticipa elementi successivi, mentre in un‟occasione (si veda l‟apparato al v. 78) riprende un elemento appartenente a un verso precedente, accorgendosi, in tutti i casi, dell‟errore commesso. Questo tuttavia rende problematica la rima identica ai vv. 57 e 59 (catena:catena), perché non vi è certezza assoluta che, anche in questo caso, non si tratti di un errore di anticipo, poi sfuggito al copista: per evitare la crux tematizzerò, come si vedrà in nota, la rima, attribuendo inoltre alla seconda occorrenza il significato figurato di „impedimento‟(cfr. TLIO, s. v. catena, § 1.2.1).
Nota metrica: canzonetta di versi brevi di volte e piedi con schema AAAB CCCB DE DE. È forse la canzone con la struttura più ricca del gruppo, per i richiami interni. Si noti la ripetizione della rima in ore nella posizione D della seconda strofa e nuovamente nella A nella quarta. Rime ricche ai vv. 6 spero : 7‟mpero, 34
piacente : 37 lucente, 45 pensamento : 47 godimento, 61 prendo : 63 arrendo, 64 pregione : 68 stagione, 94 credenza : 96 provedenza, 105 rendo : 107 apprendo. Rima inclusiva ai vv. 1 Amore : 2 core : 3 ore, 33 conforto : 35 orto, 46 parto : 48 disparto, 49 sguardo : 50 ʼmbardo : 51 ardo, 70 amo : 72 chiamo, 85 mare :
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87 amare. Assai evidente la funzione connettiva, nelle rime desinenziali, che coinvolge anche la sfera semantica, per cui vd. per es. vv.10 e 12 (lucente:gaudente), 22 e 24 (amoroso:gioioso), 34-36 (piacente:lucente), 37-38-39 (valore : splendore : dolzore), 58-60 (con duplicazione di catena), 88-92 (morte : forte), strettamente connesso a 90-91 (vita : fenita). Come si vede bene dall‟ultimo esempio, il discorso vale anche in opposizione, cfr. 45-47 (pensamento : godimento), 62-63 (arrendo : difendo), 69 (talento :
tormento). Le rime A e C spesso sono simili (I st. ore/ero; III st. ene/emo; IV st. ore/ere)