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da poi ched io m‟apprendo sempre a lui servidore.

12. esserene 46. qua[n]‟] quado 61. prendo] perdo 96. di me avrà] avra dime

Ahi dolce amore, che ad ogni ora tieni il mio cuore innamorato, in una tal maniera che sono fermamente con vinto che, se mi fosse dato l'impero, senza di te non lo vorrei, perché non mi crederei mai soddisfatto (non po trei goderne appieno).

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1. si noti come l‟incipit doloroso interiezione Ohi, venga immediatamente mitigato dall‟aggettivo dolze abbinato ad Amore e soprattutto – già a livello di suono – dalla duplice serie di rime baciate. Per coincidenze lessicali e andamento cfr. Giacomino Pugliese, Tutor la dolze speranza, vv. 8-9 «Non pensai, dolze amore, / ca nullore dove‟ da me partire». ■ dolze: gallicismo (la pronuncia è comunque affricata).

5. La costruzione di tale per in tal è altrove attestata, per esempio in Tiberto Galliziani, Blasmomi de

l‟amore, v. 39 (e si veda la nota relativa per gli altri esempi). ■ manero: imposta dalla rima, la forma – per maniera ‒ sembrerebbe, a uno spoglio del corpus OVI, attestata unicamente in Monte (qui e nel sonetto S‟eo dormo o veglio, a me sé ʼn pensiero, vv. 3- 4 «E‟ son presa[...]eʼ n tal manero, / che[...]»; altrove invece è

termine tecnico della falconeria che indica l‟uccello addomesticato, come nell‟anonima U·novello pensiero ò

al core e voglia, su cui si veda la nota relativa in PSS III, p. 633). Cfr. Cella 2006 /a, p. 476)

7-9. Variante del priamel, con funzione iperbolica (come indica Giuseppina Brunetti per i vv. 41-45 di

Morte, perché m‟ài fatta sì gran guerra di Giacomino, cfr. la nota relativa in PSS II, p. 570). Cfr.

nuovamente Giacomino, Ispendiënte,vv. 39-40 «Se ʼn mia ballia avesse Spagna e Franza / nonn-averei sì rica tenuta», ma soprattutto il più vicino Guido delle Colonne, Gioiosamente canto, vv. 45-46 «[...]·sse tuta Mesina fusse mia, / senza voi, donna, niente mi saria».

7. ʼmpero. Qui Luciano Rossi (in Ossola-Segre 1997, p. 159) vede un‟allusione «alle lotte fra i pretendenti alla successione agli svevi», ma, come già ricordato nell‟introduzione alla canzone, quando c‟è da parlare di politica Monte lo fa in maniera decisamente più diretta.

8. fosse dato: la facilità, sottolineata dal verbo, con la quale Monte ottiene l‟impero contrasta con la volontà assoluta di non accettarlo se non ci fosse Amore, perché sarebbe impossibile goderne.

10. Amor viso lucente: speculare all‟ Amor viso giucondo di 2 (v. 74). Lucente in rima con gaudente già nel Notaro, Lo badalisco a lo specchio lucente, vv. 1-5, ma il contesto è completamente diverso.

Ti prego e chiedo pietà, affinché non mi faccia stare tanto in pene. Potessi io rimanermene dal mattino, nel giardino in quell'angolo appartato (dov'è quel dolce fiore, fresco e allettante, (letteralmente 'amato')che costantamente con amore mi fa stare gioioso.

13-14. I due verbi ricorrono in parallelo già tra i provenzali, per cui cfr. per esempio Raimbaut de Vaqueiras, Anc mais hom, v. 52, «vos clam merce e ·us prec[...]» e, per l‟area italiana Guittone, Ben mi

morraggio, s‟eo non ho perdono, v. 9 «onde vi prego e chiamovi mercede». L‟azione è completata con

maggiore drammaticità al v.60 (del mio tormento a lui merzé ne chiamo).

17-20. Simili, per suono, a Paolo Lanfranchi, Un nobil e gentile imaginare, v. 9 «In quel giardin sì avea, da l‟un canto». ■ giardino: speculare all‟orto del v. 29, è infatti l‟hortus conclusus del Cantico dei Cantici (e si noti, a tal proposito, come il poeta separi concettualmente l‟interno, luogo di godimento e l‟esterno, dove regna il pensamento), poi divenuto topos fortunatissimo della letteratura cortese; secondo la lettura metaforica di Avalle 1977, p 118 e Minetti 1979 p. 45, indicherebbe il corpo della donna (come del resto già nei vv. 83-84 del contrasto di Cielo d‟Alcamo, che fanno riferimento a un frutto lo quale stäo nel iardino della donna). Si segnalano infine casi, nei quali il giardino appare come metafora geografica in contesto politico, ovvero Chiaro Davanzati, Lo nome a voi si face, Ser Pacino, per cui cfr. i vv. 5-7 «in gran boce venuto è ʼl ghebellino, / onde la terra abissar ne dovria, / che morto è divorato hanno il giardino» (in riferimento alla Toscana) e il più esplicito Don Arrigo, Alegramente e con grande baldanza, vv. 41-42 «Alto giardin di loco ciciliano, / tal giardinero t‟à preso in condotto»

21. fiore: speculare al pome di v. 26 e al frutto di v. 79, di solito, ad indicare la donna (come si evince esplicitamente da Lotto di Ser Dato, Fior di beltà e d‟ogni cosa bona, v. 49 «[...]madonna, cui fior conto[...]»), ma nella lettura di Avalle – poi seguita da Minetti – starebbe più precisamente per il sesso della donna (sempre sulla base di Cantico). Esiste, infine, una piccola costellazione di testi, nei quali il sostantivo

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che sempre rinovella», Chiaro Davanzati, Ahi dolze e gaia terra fiorentina, v. 3 «fior de l‟altre, Fiorenza» e, in maniera più implicita, l‟anonima, Poi ch‟è sì doloroso, 8 «[...]poi dentro la Fior non fo ritorno». La metafora è attestata anche in contesto cronachistico, per esempio nelle Gesta florentinorum ab anno 1125

ad annum 1231, p. 27 (cfr. Witt 2017, p. 513) «Flosi inimicorum, vindex Florentia Florum / Pistorium

contra commovet ipsa manu».

24. pure in Terino da Castelfiorentino, Un disio amoroso, v. 4 «e mi fa star gioioso» e in Cino, S‟io

ismagato sono ed infralito, v. 29 «che mi fa star gioioso».

Sono fuori da una condizione di pena e mi tiene in una condizione di gioia, quando viene mentre sono in que l luogo. Vi dirò come, ma non esplicitamente: lì vi è (o vi 'ha' cioè lui) un frutto che mi fa star gioioso (non le tteralmente però) e mi dona conforto, per quanto è fresco e allettante il frutto di quell'orto/giardino che è più lucente del sole.

25-28. Cfr. Poi ch‟è sì doloroso, vv. 14-16 «chi v‟è [ovvero nel giardino/paradiso] non sente noia, / ma sempre vive ‟n gioia». Rovescia i vv. 7-8 di Ahi Deo merzé. Cfr. inoltre, in forte opposizione Chiaro,

Chi ʼmprima disse “amore”, vv. 53-54 «e‟ senza gioia lo tene, nodriscelo di pene» (e d‟altronde anche il

finale sembrerebbe rovesciare esattamente l‟ultimo verso di questa canzone, ovvero «ogn‟om di lui servir serri le porte».

26. ʼn gioia mi tene: l‟espressione è già in Ruggeri D‟Amici, simile anche per suono, Sovente Amore

n‟à ricuto manti, vv. 30-31 «ciò è l‟Amor, che ʼn sua ballia mi tene / [...]e tienmi in gioia e in bene».

27. Per l‟integrazione dell‟avverbio, assente nel ms., cfr. supra il cappello introduttivo. 30. non per nome: aposiopesi, a giustificare il denso linguaggio metaforico della canzone. 31. pome: Corrisponde, secondo l‟interpretazione di Avalle, ai poma del Cantico dei Cantici

32. tene in gioco: riferito al jeu d‟amor. Si contrappone a Nel core aggio un foco (→ canz. II), v. 4, «tràmi fuor d‟ogni gioco».

34-36. il passo sembra vicino ai vv. 21, 25 e 27 dell‟anonima Rosa aulente «Donami conforto / [...] / Tu sè più piagente / [...] / che nonn-è il sol lucente».

Il suo splendore mi da valore. Tanta è la dolcezza che in quel frutto regna, che la cosa che mi è più lieta è avere un tal frutto sotto il mio volere/desiderio: di altro il mio cuore non si cura. Tanto è il piacere che dentro vi è rifuso, che sempre sono angosciato quando mi allontano dal giardino.

41-43. Cfr. Mare Amoroso, v. 222 «e sì vorrïa quel pome avere». ■ quel: il ms. ha quello, espunto nell‟ultima parte. Quanto qui esposto verrà ribadito più avanti nella frase ottativa ai vv. 69-70.

36 altro il mi‟ cor non degna: vedi almeno Alberto da Massa, Donna meo core in parte, v., «altro mai non disio» e Cione in tenzone con Monte, Nessuno pote amar coralemente (→ T 7.2): v. 13 «altro non penza mi‟ core».

38. quan‟: il ms. ha quado, con omissione del titulus, ma in questo modo il verso sarebbe un ottonario irriducibile (Minetti stampa qua[n]ḍọ); si accoglie la proposta di apocope dei PD, per cui vedi Carnino Ghiberti, Luntan vi son, v. 13 «Sobranzami la morte quan‟ rimiro» (laddove V ha appunto quando).

40. disparto: participio passato di dispargere, cfr. TLIO, s.v. disparto 1, che della forma registra solo un‟altra attestazione, anch‟essa fiorentina (nel volgarizzamento dell‟Eneide di Andrea Lancia).

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Più lo guardo e più me ne innamoro subito; tuttavia brucio, il giorno che non lo vedo, al punto che posso dire, senza sbagliarmi, che morire sarebbe per me poco peggio: poiché Amore mi ha imprigionato con una catena così robusta che io muoio se non sono difeso da una tale catena.

49-51. Vicino a Inghilfredi, Audite forte cosa, vv. 14-15 «Tanto di lei m‟imbardo, / che mi consumo e ardo» (andrà pure notato che il testo di Inghilfredi condivide con la nostra canzone l‟immagine diffusa del selvaggio, qui ai vv. 54-56, e il paragone donna/giglio al v. 81), a Bonagiunta, Oi amadori, intendete

l‟affanno, vv. 42 e 44 «S‟eo la sguardo, ‒ incendo ed ardo, / [...] / sì ne ʼmbardo ‒ ca tut[t]o ardo» (ma

Menichetti avvisa, a proposito, che «una volta usato (s)guardo, le possibilità combinatorie non erano molto estese nel lessico cortese del tempo», cfr. Menichetti 2012, p. 139) e a Chiaro, In tal pensiero ho miso lo mio

core, vv. 2-3 e 4 «lo mio core, / che ʼn amoroso foco arde ed incende / [...] / che quant‟io più la guardo, più

mi prende»; da segnalare infine, per corrispondenza geografica, i vicinissimi vv. 21-23 della canzone

Placente vixo adorno e angelicato, contenuta nel Memoriale 119 dell‟Archivio di Stato di Bologna (1309) e

già segnalata da Minetti «[...] / quanto plu te vego e svardo, / al core plu incendo et ardo / con‟ plu te miro inbardo»: pare impossibile che l‟estensore trecentesco di questi versi abbia agito in maniera indipendente rispetto a Ohi dolze amore.

49. sguardo: la connessione tra l‟amore e la vista, motivo topico della poesia d‟amore, aveva un proprio fondamento teorico e scientifico: si ripensi per esempio, all‟incipit del De Amore, dove si afferma che l‟amore è appunto una è passione procedens ex visione.

50. ʼmbardo: termine dall‟etimo incerto; il TLIO rimanda alla barda (una sella priva di arcioni, si veda la voce relativa in GAVI, 17/3, p.161), dunque l‟innamoramento sarebbe un metaforico addomesticamento. ‒ ʼncendo ed ardo: dittologia sinonimica, o in alternativa la coppia di verbi potrebbe riferirsi a due momenti diversi della medesima azione, il prendere fuoco (ʼncendo) e il consumarsi (ardo); cfr. Bernart de Ventadorn, in En cossirer et en esmai, v. 48 «[...]al partir art et encen», con ampia fortuna in area italiana per cui si vedano, per es., Rinaldo D‟Aquino, Giamäi non mi conforto, v. 32 «ch‟i ardo e ʼncendo tuttaa!», Carnino Ghiberti, L‟amore pecao forte, v. 14 «ca tuto incendo ed ardo», Paolo Zoppo, Voi, che tanto inverʼ me

umiliate, v. 11 «ansi incendo ed ardo più che foco»; a differenza degli altri esempi, il passo di Monte è più

vicino a Bernart de Ventadorn e Rinaldo D‟Aquino, perché associa al fuoco l‟immagine della lontananza dell‟amata.

58-60. Si noti qui come il tema tradizionale della catena d‟amore venga rinnovato a livello formale, con l‟utilizzo del termine in parola rima, quasi a sottolineare l‟immagine della fissità del prigioniero: la stessa rima baciata, che dà alla fronte un ritmo piuttosto veloce, trova in questo passo un momento di interruzione.

59-60. io moro se difeso: il passo è esegeticamente problematico, poiché più sotto si dirà che l‟essere prigioniero d‟amore è, in questo caso, fonte di gioia e, d‟altra parte, in tutta la strofe la morte del poeta è legata, al contrario, alla lontananza dal proprio oggetto del desiderio. A titolo di ipotesi, si potrebbe postulare un fraintendimento paleografico del copista, che ha scambiato un ne per un non (o meglio per un nō, compendiato): la lezione così ricostruita ‒[...]io moro / se difeso / ne son di tal catena ‒ sarebbe più soddisfacente, quanto a significato complessivo.

(Ma) poiché ottengo gioia lì dov'è la mia resa, non mi difendo da amore che mi tiene in pregione; mi comporterò come il selvaggio: aspetterò il momento e il periodo (propizi). Averlo al mio volere il fiore che tanto amo! E io dal mio tormento a lui chiedo pietà.

61-63. l‟immagine è anche, su rimanti morfologicamente affini, nel Roman de la rose, vv. 1897-1900 «Par Deu, volentiers me rendrai, / ja vers vos ne me desfendrai. / Ja Deu ne place que je pense / que j‟aie vers vos desfense» ( e cfr. anche la spiegazione di Guillaume de Lorris ‒ più sotto, al v. 1908 ‒ per questa mancata resistenza «J‟atent par vos joie et santé»); per la lirica italiana si veda invece Giacomino, Lontano

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amor mi manda sospiri, vv. 19-21 «[...]ch‟io m‟arendo / a sua merzé, / colpa non mi difendo / e ʼnver‟

l‟amore non fo difensione». Segnalo inoltre un passaggio di Chiaro Davanzati in tenzone con Monte (può forse trattarsi di una sorta di omaggio all‟amico), Di pic[c]iolo alber grande frutto atendo (→ T 1.1), vv. 5 e 7-8 «dal meo guerrero, colpo non difendo, / [...] / tant‟è lo mio martoro ch‟io m‟arendo, / avegna che la guerra m‟è gioiosa» (in questo caso però Monte risponde rifacendosi alla sua concezione negativa dell‟amore).

61. prendo: il ms. ha perdo, per la correzione cfr. supra l‟introduzione.

65-68. I versi si riferiscono ‒ qui nel passo di Monte in maniera piuttosto criptica ‒ al mito, le cui origini sono oscure, del conort du salvatge, che si dispera con condizioni metereologiche negative e, al contrario, è contento in quelle favorevoli (cfr. Raimon Jordan, Vas vos soplei, vv. 31-32 «grazirai l‟o, be e mal, eissamen, / aissi farai lo conort del salvatge» e, soprattutto, l‟incipit di Raimbaut de Beljoc «a penre m‟er lo conort del salvatge / que chanta ·l temps en que plorar deuria, / e plora sel que no ·ill fai nul damnatge»); il primo a trapiantare la figura in area italiana è Giacomo da Lentini, che condivide con Monte la desinenza verbale (quasi obbligata dalla rima), cfr. Guiderdone aspetto avere, vv. 23-27«sì com‟omo salvaggio / faraggio, com‟è detto ch‟ello face: / per lo reo tempo ride, / sperando che poi pèra / lo laido aire che vede» (e cfr. la nota relativa di Roberto Antonelli in PSS I, p. 80). Cfr., tra gli altri, Mare

amoroso, vv. 295-298 «donde eo farag[g]io a guisa d‟om selvaggio / che canta e ride istando in grave

pene, / pensando che si cangia la ventura / di male in bene e di pianto in sollazzo», l‟attacco di Cione «Com‟om salvagio spesso rido e canto / co lo mal tempo, ch‟aspetto lo megliore», e Chiaro, Or vo‟

cantar, e poi cantar mi tene, vv. 34-37 «fe‟ com‟omo salvag<g>io veramente: / quand‟ha rio tempo, forza

lo cantare / co lo sperare / ca ʼl buon vegna[...]». Osservando gli esempi forniti, è interessante notare come in qualche modo i versi di Giacomo da Lentini abbiano influenzato i poeti successivi, che infatti, rispetto ai modelli provenzali, non accennano al comportamento del selvaggio in caso di tempo sfavorevole.

67-68. aspetteraggio / tempo ed istagione: dittologia abbastanza frequente; per l‟utilizzo del medesimo verbo cfr. Piero della Vigna, Amore, in cui disiso ed ò speranza, v. 4 «pur aspetando bon tempo e stagione».

69-70. i versi consuonano con Carnino Ghiberti, L‟amore pecao forte, vv. 45-47 «Abentare talento / in quelli cui tanto amo, / cioè lo dolze frutto». ■ al mio talento: gallicismo, già per esempio in Piero della Vigna, Amando con fin core, v. 38.

Che abbia pietà e si ricordi di me (senza dubbio), prima che io muoia; (che?) non sia diviso - a piuttosto ne sia conquistato - dal paradiso che è luce del mio cuore. (è evidente che) la gioia mi si nasconde da quel giardin sovrano (o la gioia del giardino sovrano): temo che mi stia punendo, poiché (da tanto tempo) ne sono

73-75. Cfr., assieme al verso precedente, Re Giovanni, Donna, audite como, vv. 75-78 «mercede le chiamate, / che di me aggia pietate; / di que‟, ch‟ell‟à, rimembranza / le deggiate portare».

64-66. La serie rimica diviso:conquiso:paradiso, presente in un paio di esempi laudistici (cfr. per esempio Alta regina, Sancta Maria, vv. 120-123 «Alta regina de paradiso, / l'amor del mondo da me sia diviso, / e ʼl mio Nemico per te sia conquiso»), è qui inserita in contesto laico, con sottile rovesciamento. L‟augurio sarà comunque subito contraddetto dai versi immediatamente successivi.

78. [sia]: per la congettura cfr. il cappello introduttivo. ■ paradiso: se ne segnala l‟uso politico, a indicare la Toscana, nella tenzone tra Ruggeri Apugliese e Provenzan Salvani,

80. del mio cor lumera: ripetuto in Se non si move da voi pïetanza, v. 14 «e voi pur siete del mio cor lumera».

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81-83. Identici a Guglielmo Beroardi, Gravosa dimoranza, vv. 7-8 «Gioia parmi s‟asconda: / temo non mi confonda lo pensare» (da segnalare che Gravosa dimoranza fa parte di quella costellazione di canzoni d‟amore interpretabili politicamente di cui si è parlato nell‟introduzione, cfr. Zanni 2013, pp. 353-355). ■

temo non: solita costruzione alla latina. ‒ sovrano: aggettivo topicamente accompagnato alla donna già da

Giacomo da Lentini, per cui cfr. Madonna à ʼn sé vertute con valore, v. 7 «de tutte l‟autre ell‟è sovran‟e frore», qui però associato audacemente alla metafora del giardino. Per la lettura politica, un possibile rimando è a Re Enzo, Amor mi fa sovente, vv. 55-56 «Salutami Toscana, / quella ched è sovrana».

A causa dell‟amore sono nel mare in balia della tempesta; così mi reputo spacciato, se non mi soccorre chi rappresenta per me la vita: farò una fine dura e crudele. Ma non mi dispero interamente, perché ho buoni motivi per credere che un così dolce frutto si occuperà di me.

86. al tempestare: il sintagma è anche in Guinizelli, Donna l‟amor mi sforza, v. 22 e 24 «[...]amor m‟ha colto / [...] / e miso a tempestare». Si noti, con il verso successivo, l‟utilizzo nominale dei due infiniti.

92. crudele e forte: la dittologia è già sperimentata da Tommaso di Sasso, D‟amoroso paese, v. 20 « [Amore] ch‟è vicino di morte, / crudele e forte mal che nonn-à nomo» (secondo la lezione stabilita dall‟ultimo editore, Stefano Rapisarda ‒ cfr. PSS II, nota al v. 20 a p. 44 ‒, che unisce i due aggettivi a mal, ma il verso di Monte potrebbe anche suggerire una diversa lettura, con crudele e forte come attributi di morte).

93. mi spero: è forma problematica, giacché il contesto richiederebbe per il verbo il significato di

disperarsi, ma comunque attestata in altri casi nei manoscritti. Bruno Panvini (cfr. Panvini 1962, p. 165) ‒

per Ruggerone da Palermo, Ben mi degio alegrare, v. 10 (ma diversa è la proposta dell‟ultimo editore, per cui cfr. PSS II, nota al. v. 10, p. 508), che ristabilisce congetturalmente la forma di partenza [ʼn]speri (da

insperarsi), sulla base di una presunta caduta di compendio, come poi chiarito in maniera più analitica da

Aldo Menichetti, che segue la proposta di Panvini per Chiaro Davanzati Lo mio doglioso core, v. 74 ‒ e cfr. la nota relativa in Menichetti 1965, p. 167 ‒ e, più recentemente, da Aniello Fratta per Iacopo Mostacci,

Umile core fino e amoroso, v. 37, con nota in PSS II, p. 417 (in proposito si vedano i dubbi sollevati nel GAVI 16/6, pp. 348-350, con proposte alternative). È da segnalare anche la proposta, avanzata nel GDLI, di

leggere misperi (da misperare, derivante dall‟unione del verbo con il prefisso mes-, con funzione negativa), ma avallata esclusivamente da questo verso di Monte e da un paio di occorrenze in Siribuono. In alternativa (ed è la proposta seguita qui nella traduzione), si potrebbe supporre che qui venga utilizzato il termine

sperare con il significato improprio, ma attestato nel latino medievale (cfr. Du Cange, voce sperare2), di „temere, avere paura‟ (è esempio riportato, sulla base di Isidoro da Siviglia, Etimologie, I, I, XXXIV, da Uguccione da Pisa nelle Derivationes: «ACIROLOGIA, impropria dictio, ut sperare pro timere vel e contrario»).

94. Espressione lentiniana, cfr. Ben m‟è venuto prima cordoglienza, v. 19 «però mi pasco di bona credenza». È la prima delle due speculari dichiarazioni di fede che occupano la parte finale delle ultime stanze.

96. di me avrà provedenza: variante significativa, per quello che è stato detto nell‟introduzione e nella nota precedente, del topos della richiesta d‟aiuto a madonna, solitamente espresso tramite il congiuntivo esortativo (cfr. tra i tanti Carnino Ghiberti, Disiöso cantare, v. 46 «aggia in me provedenza», Tommaso da Faenza, Como le stelle sopra, la Diana, vv. 12-13 «la prego, ch‟agia provedença / di me[...]» ‒ cito dalle

CLPIO con minimi ritocchi ‒ e l‟incipit di Rinuccino «Merzede!, ag[g]iate, donna, provedenza / di me ...»;

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Dopo essermi appigliato a un tale giglio, sarei meravigliato se non mi prestasse soccorso, visto che è il più giocondo al mondo e rappresenta il massimo grado del bene che l‟uomo possa trovare. Circa la sua azione, sono sicuro che saprà infondermi valore, visto che sempre mi aggrappo a lui come servitore.

98. giglio: termine di paragone già classico (vedi per esempio Properzio, libro II, 3, v. 10 «lilia non domina sunt magis alba mea»), poi importante referente cristologico, sulla base dell‟interpretazione di

Cantico dei Cantici, 2, 1-2 «Ego flos campi et lilium convallium / sicut lilium inter spinas[...]», e come

tale di grande diffusione nella poesia religiosa (cfr. almeno Jacopone, Plagne, dolente alma predata, v. 9 «Cristo placente, giglio fiorito»); nella lirica amorosa del duecento di non ampissima diffusione, come rilevato da Roberto Antonelli in PSS I, p. 416, cfr. per esempio Inghilfredi, Audite forte cosa m‟avene, vv. 25-26 «Gioia aggio preso di giglio novello / sì alta che sormonta ogni ricchezza» (e sarà da rilevare che nella canzone di Inghilfredi, già connessa per i vv. 41-43 ‒ cfr. la nota relativa ‒ compare anche la figura

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