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Tra le diverse notizie riportate da Plinio il Vecchio (Naturalis Historia, VIII, L), quella che più si avvicina alla descrizione di Monte vuole che il cervo sia un animale talmente semplice e sbadato da

me e lo mio coraggio Così ne foss‟io fora,

32. Tra le diverse notizie riportate da Plinio il Vecchio (Naturalis Historia, VIII, L), quella che più si avvicina alla descrizione di Monte vuole che il cervo sia un animale talmente semplice e sbadato da

accorgersi di essere braccato dai cacciatori solo quando è troppo tardi. Occorre tenere presente, che nel corso del tempo, il cervo diviene selvaggina per eccellenza e, nel contempo, subisce un aggiornamento in chiave cristiana. A partire dal gioco pseudo-etimologico cervus > servus, che qui abbiamo in rima (seppure con funzione grammaticale diversa), esso diviene animale sacrificale e come tale simboleggerà Cristo (Pastoureau 2010, pp. 59-67): da qui forse deriva l‟azione di offrirsi ai cacciatori. Si veda, per es., questo interessante passo di sant‟Ambrogio che, riprendendo la notizia di Plinio, aggiunge l‟immagine del cervo che va incontro ai propri carnefici, De interpellatione Iob et David, II, cap.1, 2: «Dei filius[...]in hunc mundum tanquam cervus advenit: et cum his se mera simplicitate jungebat, a quibus ei parabantur insidiae. Fertur enim hujusmodi cervorum esse simplicitas, ut cum exagitari viderint, his, sese equitibus adnectant, qui ministerio fraudis appositi, fugae specie ac simulatione societatis inductos ad retia usque deducant. Ita ergo Dominus tanquam ignarus periculi atque improvidus, Judaeis dolum sibi struentibus admiscebatur, et societatem Judae proditoris isbi ascivit, cujus simulatione funesta, usque ad crucis laqueos et retia passionis accessit» (vedi anche, per la rilettura cristiana dell‟animale, anche la voce cervo in Ciccarese 2002, pp. 313- 34). L‟archetipo romanzo è ancora Rigaut de Berbezilh, Atressi con l‟orifanz, vv. 52-53: «aissi co·l sers, que, cant a faig son cors, / torna morir al crit dels cassadors». Il confronto più interessante in area italiana è con la più volte citata canzone di Neri de‟ Visdomini, Crudele affanno e perta, vv. 69-74: «ben credo ch‟ò l‟usato /

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del cerbio certamente, / che, là ove la gente / grida, corre a loco e va sperando / a gioco esser chiamato; / di ciò s‟inganna e more» (per una panoramica della presenza dell‟immagine in poesia cfr. Menichetti 1965 pp.

XLIX-L). Una possibile eco, ma senza l‟immagine da bestiario, anche in Guittone, Dolente, tristo e pien di

smarrimento, vv. 9 e 11: «Ohi, lasso me, ch‟io fuggo in ogni loco /[...]/ e là, ond‟io vado, trovo la mia

morte». Infine particolarmente suggestivo un possibile confronto con i vv. 38-40 della dantesca Amor, da che

convien pur ch‟io mi doglia: «[...]fo come colui / che nel podere altrui / va co‟ suo‟ piedi al loco ov‟egli è

morto».

Ma Amore, la mia morte è più dura, al punto che costantemente muoio ma rimango in vita, e non riesco a vedere la mia fine. Così Amore mi ha condotto in questo pessimo punto di passaggio e mi ha gettato in un mare tempestoso, che mi attira a sé come la calamita attira il ferro: ragion per cui la gioia d‟amore è ora smarrita, ma il tormento no, ovunque io sia! Pietà Amore, in tanta sofferenza, ch‟io non muoia d‟amore! Mi hai condotto in un fuoco così insidioso che né fiore, né frutto, né foglia mi si mostrano; ma sono separato da Sfera Luminosa e vengo meno di continuo. Amore mi priva completamente del bene amoroso, dentro, mentre da fuori non si vede che mi ferisce così.

38. Accenti „regolarizzabili‟ con ognor e dialefe prima di e (così in Minetti).

39. Ripetuto in Dolente me son morto ed aggio vita, v. 5: «Non veggio mai ch‟io possa aver fenita». 40. reo passo: cfr. l‟anonima (V 66, c. 19r) Sì m‟à conquiso Amore, vv. 3-4: «ch‟io non poria contare / com‟eo sono a mal passo»; e Panuccio del Bagno, Di dir già più non celo, vv. 35-36: «a così mortal passo / son là dovonque i‟ passo» (da confrontare anche con il v. 44). Il sintagma è ripetuto in Ahi doloroso lasso,

più non posso, v. 43: «conosco bene a reo passo ove sono».

41. ancora Giacomo da Lentini, Madonna, dir vo voglio, v. 49-50: «Lo vostr‟amor che m‟àve / in mare tempestoso»; Tommaso di Sasso, D‟amoroso paese, vv. 29-30: «Amore, che nel mare tempestoso / navica vigoroso[...]»; Guittone, Voglia de dir, vv. 6-7: «[...]mi dé porto / en tempestoso mar[...]». Sarà anche da ricordare il Cappellano, De Amore, I, IV: «Ideoque ad praesens eius recuso iudicium, quia: „Saepe suos nautas valida relinquit in unda‟» («in tempestate» nel volgarizzamento edito in Ruffini 1980). Per la storia dell‟immagine si veda Paratore 1965 (che la fa risalire ad un bisticcio presente nel Miles gloriosus di Plauto): i testi del medioevo italiano alle pp. 836-47; e cfr. Beggiato 1999.

42. Chiaro Davanzati, Madonna, perch‟avegna novitate, vv. 13-14: «che mai non parto, sì mi par sovrana, / ma corro a ciò com‟ ferro a calamita»; cfr. anche il Mare amoroso (vv. 198-19), che condivide con Monte lo stesso verbo: «perciò in[ver‟] voi si träe ciascun core / sì come il ferro inver‟ calamita». Il paragone naturalistico di gusto siciliano, e ancora prima provenzale, rimanda al problema dell‟invisibilità di Amore (cfr. nota al v. 29, ma anche l‟ultimo verso di questa stanza e l‟immagine finale della successiva) e perciò figura esemplarmente nel sonetto di Pier della Vigna in tenzone, a proposito della natura dell‟amore, con Jacopo Mostacci e Giacomo da Lentini, Però ch‟Amore no se po‟ vedere, vv. 9-13: «Per la vertute della calamita / como lo ferro atra‟ no si vede, / ma sì lo tira signorevolmente; / e questa cosa a credere mi ‟nvita / ch‟Amore sia[...]».

43. gioi d‟amor: sintagma presente, invertito, in Giacomo da Lentini, Guiderdone aspetto avere, vv. 5-6: «sempre spero avere intera / d‟amor gioia».

44. Cfr. Giacomo da Lentini, Lo giglio quand‟è colto tost‟è passo, vv. 7: «Così mi fere Amor là ‟vunque passo» (e si confronti anche il primo emistichio di questo verso con quello del v. 55 di questa canzone).

45-46. Simile movenza nell‟attacco di Rinuccino «Merzede!, ag[g]iate, donna, provedenza / di me che non perisca disperando»; cfr. anche Chiaro, Madonna, lungiamente aggio portato, vv. 23 e 25: «Rimmembranza, [ma]donna, si convene / […] / a ciò ch‟io non perisca in voi amando». − penando: gerundio con funzione di infinito (cfr. nota al v. 9), qui sostantivato, cfr. invece Aimé tapino, che t‟odo

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46. Cfr. per il suo valore di archetipo Giacomo da Lentini, Guiderdone aspetto avere, vv. 43-44: «Donna mia, ch‟eo non perisca, / s‟eo vi prego […]»; cfr. anche la canzone anonima del Vaticano (26, c. 6v) Oi lassa ‟namorata, v. 39: «Fa tosto ch‟io non pera». − amando: gerundio con valore strumentale.

47. Giacomo da Lentini, Dal core mi vene, vv. 142-14: «mi fa levare / e intrare / in sì gran foco». −

periglioso: gallicismo (cfr. périlleux e prov. perillos, Cella 2003, pp. 175-16).

48-49. Triade topica già in area occitana (su cui Catenazzi 1977a, p. 156); tra i tanti Bonagiunta, Uno

giorno aventuroso, vv. 14-16: «Monta sì ogne stagione: / però fronde e fiore e frutta / l‟afinata gioi‟

d‟amore». Qui però c‟è contrapposizione fra il tormento interiore e l‟armonia del mondo (per questa interpretazione cfr. Brunetto, Tesoretto, vv. 2499-2500: «Ora guarda il mondo tutto: / è foglia, fiore e frutto».), le cui bellezze il poeta, privo del conforto dell‟amore, non riesce più a riconoscere; qualcosa di simile nella canzone anonima (P 75) Con gran disio pensando lungamente, vv. 21-22: «l‟amor, crescendo, mess‟à foglie e fiore, / e ven lo tempo e ‟l frutto no ricoglio». Si veda infine, per l‟accoppiata di verbo e complemento (per me non par), Folcacchiero , Tutto lo mondo vive sanza guerra, vv. 7-10: «Non paiono li fiori / per me, con‟ già soleano, / e gli auscei per amori / dolzi versi faceano agli albori» (con nota relativa, per la traduzione qui seguita, di Sergio Lubello in PSS III p. 192). − non par: normale in italiano antico la concordanza del verbo con il soggetto più vicino (Renzi-Salvi 2010, p. 548) .

50. Lucente Spera: spera è accoppiato allo stesso aggettivo in Guido delle Colonne, Gioiosamente

canto, vv. 14-15: «la vostra fresca cera, / lucente più che spera». Data la soppressione dell‟articolo (del

resto assente in L), imposta dal metro, interpreto il sintagma come senhal (per quanto non ulteriormente attestato; stessa soluzione in Minetti).

51. sof[f]rango: dal provenzale sofrànher „mancare, venire meno, soccombere‟. Ricorre anche in Assai

mi pesa, ch‟io così m‟infango, vv. 7-8 «A ben pensare, di dolor sofrango, / a voi porgendo il ver, sì com‟a

amico». Altra occorrenza in Guittone A fare meo porto, c‟à‟ ‟n te, part‟e‟ cheo, v. 10 «coragio mando, di presgio ne· sofrango» (cito dalle CLPIO).

52-53. stessa immagine nella canzone anonima (L 105v), Lasso taupino!, en che punto crudele, vv. 76-77: «che d‟ogni ben mi spoglia, / e di speranza m‟à tutto digiunto». Interessanti, anche per la connessione con il verso successivo, sono due passi dello stesso Monte, canzone 3, v. 42: « [Amore] d‟ogni ben ne vòta il nostro corpo» e Più soferir non posso ch‟io non dica, vv. 25-26, «Ov‟è letiz[i]a ed alcun ben che sia? / Rispondo come son di tutti ignudo!». − amoroso bene è impiegato anche da Chiaro nella canzone Or vo‟ cantar, vv. 4-5: «mille mercé a l‟amoroso bene / che dispietò ver‟ me con orgoglianza».

54. Così ricostruito, ha accento di 5a. Minetti stampa «né di fòr, dentro, ·nọṃ par e‟ sì mi fera» (con accentazione regolare), come periodo autonomo, ma l‟intervento non risulta giustificato (né segnalato). La giustificazione della correzione è in Minetti 1965 p. 721, (con proposta editoriale leggermente diversa: «né di for, dentro, non par si·mmi fera»): l‟errore si sarebbe prodotto a causa dell‟«artificiosa collocazione delle parole». Tale artificiosità tuttavia non mi sembra che si adatti a questa canzone, che non è caratterizzata dall‟impegno stilistico presente, per esempio, nelle poesie morali e nelle tenzoni politiche: è più economico supporre che V abbia conservato la lezione originale mentre L, al contrario, abbia avuto qualche problema nelle fasi di memorizzazione dell‟antigafo e di esecuzione del testo memorizzato. La lezione proposta ha inotre il vantaggio di unire i due periodi (mi spoglia / dentro ecc.), ristabilendo un‟immagine usata da Monte in altri testi (per cui cfr. la nota relativa al v. 53). Stesso tipo di

enjambement (verbo + dentro) in Ahi Dio, che fosse, ciò che l‟omo àve, vv. 1-2: «Ahi Dio, che fosse, ciò

che l‟omo àve / dentro dal cor[...]». Nelle note precedenti si è detto dell‟invisibilità di Amore che no

parse ni pare, per dirla con Iacopo Mostacci; ovviamente anche i suoi effetti disastrosi sull‟animo umano

sono percepibili solo dall‟amante, che li prova in prima persona. Cfr., prima di tutto, gli importanti luoghi del Notaro, Sì come il sol che manda la sua spera, vv. 9-11: «Lo dardo de l‟Amore là ove giunge, / da poi che dà feruta sì s‟aprende / di foco ch‟arde dentro e fuor non pare»; Dolce coninzamento, vv. 16-17: «a lo cor m‟ài lanciata, / sì ca difor non pare»; Molti amadori la lor malatia, v. 2: «portano in core, che ‟n vista

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non pare»; inoltre Chiaro Davanzati, Non già per gioia ch‟i‟ ag[g]ia, vv. 10-12: « … mio greve dolore, / quel ca dentro ho, di fore / a nullo altro non pare»; cfr. anche Pallamidesse Bellindote, in tenzone con Monte, Monte, La pena ch‟aggio cresce e non menova: «dentro dal corpo, un fuoco ardendo va: / di for non pare, ë dentro divampo»; e Dante da Maiano, nell‟incipit: «Lo meo gravoso affanno e lo dolore / non par di fore sì com‟è incarnato».

Amore, mi hai così ferito e vinto che mi vedo consumare a poco a poco, e non mi serve a nulla chiedere pietà: mi rendi addolorato più di ogni altro amante. Volesse Dio che piuttosto io fossi ucciso, perché non riterrei che fosse una cosa peggiore, tante sono le pene che io possiedo; e non ho facoltà di separarmi da te. Dunque, Amore, sei spietato nei miei confronti, poiché mi hai messo in una situazione tale che sempre mi tieni nel fuoco! La mia vita è un luogo senza nessun piacere ed io vesto il manto dell‟impietoso mal d‟amore; se io mostrassi tutto ciò in forma visibile, sarebbe uno spettacolo decisamente orribile: tutti mi darebbero per morto e la mia presenza sarebbe considerata un prodigio.

55. cfr., per es., Pier della Vigna, Uno piagente sguardo, v. 15: «e quegli ochi m‟ànno conquiso e morto». 56. sostanzialmente ripetuto in Ai misero tapino, ora scoperchio, v. 13: «venesi consumando a poco a poco» (e anche qui l‟azione è riferita all‟amante); e cfr. Lasso me, tristo: ciascun‟or mi doglio, v. 11: «E‟ consumando vòmi a poco a poco».

57. per la formula iniziale vedi per es. Rigaut de Berbezilh, Atressi con l‟orifanz, v. 11: «lai on preiars ni merces no·m val re», e Giraut de Bornelh, Ses voler de pascor, v. 12: «Pos no me val merces», parzialmente tradotto dal Notaro, Poi no mi val merzé né ben servire. Cfr. poi Neri de‟ Visdomini, Per ciò che ʼl cor si

move, vv. 29-30 «Poi che merzé cherere / neiente non mi vale», Noffo di Bonaguide, Ben posso dir che l‟amor veramente, v. 7 «ché merzé non mi val chiamar nïente», e Cecco Angiolieri, Oimè d‟Amor, che m‟è duce sì reo, v. 6: «Oimè, che non mi val mercé chiamare!». La richiesta di mercede proviene dalla retorica

cortese, come più esplicitamente nell‟attacco di una canzonetta anonima del Vaticano (c. 84v): «Madonna, io son venuto / a chiedere merzede / com‟om face a segnore» e nell‟incipit dello stesso Monte (→ son. 25): «A lo fedel lo bon segnor perdona, / poi ch‟e‟ si pente, e lui chere merzede».

58. Rovesciamento della diffusa immagine positiva per cui, nell‟unicità del proprio amore, l‟amante si ritiene il più appagato di tutti. Cfr., per es., Ruggeri d‟Amici, Sovente Amore n‟à ricuto manti, v. 25: «Rico mi tegno sovr‟ogn‟altro amante»; e anche lo stesso Monte, Un lungo tempo so‟ stato in disio, v. 12: «sovr‟ogne amante di gioia ricco mi tegno»); inoltre Guglielmo Beroardi, Membrando ciò ch‟Amore, vv. 21- 23: «mi fanno tormentoso / istar, sovra gli amanti, / in sospiri ed in pianti».

59-60. topica è l‟invocazione di morte poiché nessun male supera quello che l‟amante è costretto a subire. Cfr., anche per il ricorso al congiuntivo indipendente ottativo, il già citato Neri de‟ Visdomini, Crudele

affanno e perta, vv. 26-28: «A!, tal sembianza è vita? / Piacesse a Dio fallita / mi fosse anzi stagion del mio

morire»; Ciolo de la Barba, Compiutamente mess‟ò intenzïone, vv. 21-23: «Morir meglio mi fora naturali, / pensando li martiri / ch‟i‟ ò patuto e pato[...]»; nonché l‟attacco di Guittone: «Altro che morte ormai non veggio sia / de lo dolore meo trapassamento».

59. auciso: assieme al ca e al terrïa del verso successivo, forma una notevole concetrazione di sicilianismi.

60. cfr. Iacopo Mostacci, Di sì fina ragione, v. 28: «la mia vita val peggio che morire».

62. Rinaldo d‟Aquino, Poi li piace ch‟avanzi suo valore, vv. 28-30: «e son di lei sì ‟namorato e priso / che già de lo partire / non ò podere[...]». Questo perché la potenza dell‟amore annulla totalmente l‟arbitrio umano; cfr. Bondie Dietaiuti, Madonna m‟è avenuto simigliante, v. 30: «forse mi partirò, se disamoro».

63. in parallelo lo stesso Monte, Aimè tapino, che t‟odo contare!, v. 2: «Amor ché sè ver‟ me così spietato». Interessante anche il confronto con la Corona di casistica amorosa, 22, v. 12: «e ‟l mi‟ buon sire istà ʼnver‟ me spietato» (fra l‟altro in rima con locato come in questa canzone); cfr. anche Lemmo Orlandi,

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Gravoso affanno e pena, vv. 9-10: «e tu pur orgoglioso / ver‟ me spietato e fero»; l‟anonima (V 304, c.

98r), Ai meve lasso!, lo penzier m‟à vinto, v. 53: «no perché stata sia ver‟ me spietata»; e Guittone, Ahi,

Deo, che dolorosa, vv. 49-51: «Amore, perché tanto / se‟ inver mene crudele / poi son te sì fedele».

67. diporto „piacere‟, afr. e prov. deport (cfr. Cella 2003, pp. 389-3).

68. gravoso mal d‟amore: l‟argomento verrà approfondito nella canzone 3 dove Monte fornirà addirittura un elenco di sintomi provocati da quella che, nel Medioevo, era considerata una vera e propria malattia (per cui cfr. la nota relativa ai vv. 20-23 di Ai doloroso lasso, più non posso). Il sintagma è già, con l‟aggettivo posposto, in Paganino da Serzana, Contra lo meo volere, vv. 61-62: «[...]ed è sofrente / del mal d‟amor gravoso». − manto: forse con riferimento al momento dell‟accoglienza nella cerimonia di investitura del vassallo, nel quale quest‟ultimo veniva coperto dal signore in segno di protezione (si pensi a quanto si augura Guglielmo IX in Ab la dolchor del temps novel, v. 24 «qu‟aia mas manz soz son mantel!», e per l‟area italiana si veda Guido Orlandi, Come servo francato, vv. 8-10, dove l‟immaginario feudale traspare in maniera più esplicita «[...]di tanto [cioè d‟amore] / porto cortese manto. / Libero sono, confessomi servo»). Fuor di metafora è come se Monte dicesse che, se il metro di giudizio sono le sofferenze, egli è suddito privilegiato di Amore; cfr. in maniera più esplicita Ahi doloroso lasso, più non

posso, vv. 69-70 e la nota relativa per ulteriori esempi: « [Amore all‟amante] più forte sotto sé lo lega e

prende / e ‟l doglioso manto addosso gli affibbia». Si confronti la metafora con l‟immagine della spoliazione ai vv. 52-54.

69. simile protasi, ma in un contesto positivo, in Guittone, De tutte cose è cagione e momento, v. 12: «e s‟eo mostrar l‟osasse intra la gente».

71. analoga occorrenza della locuzione cusare morto („considerare in fin di vita, dare per spacciato‟:

TLIO s.v. cusare 1.1, Pär Larson) nell‟anonima Io son stato lungiamente (V 272, c. 5r), vv. 17-20: «se

non, gran riprensione / ne farian le persone / se mi cusasse morto / per te, giglio d‟orto».

72. Monte ripete altrove il concetto, cfr. Trista la vita mia! Più di nullo omo, vv. 2-3: «[...]Ond‟eo per meraviglia / saria guardato...».

Dal momento che ti piace, Amore, darmi sempre tormento, ora, prima che io muoia, mostra visibilmente questi mali – che soffro in gran numero – a coloro che sono decisi ad amare: allora terranno per certe le mie parole! Non credo che vi sarebbero degli amanti che siano tanto coraggiosi a vederli [vedendo i mali] nella loro entità effettiva: ognuno vorrà dimenticare l‟amore! Ma ora muoviti, mia canzone nuova, e va‟, presèntati fra i buoni amanti e informali delle pene che ogni ora, a causa dell‟amore, fa crescere in me. Di‟ però che io non riesco a dimenticare l‟amore, perché ormai domina me e il mio cuore: magari ne fossi fuori, tanto è pericolosa la sua signoria!

73. Da poi t‟aggrada: cfr. per es. gli incipit di Federico II («Poi ch‟a voi piace, Amore / ch‟ïo deggia trovare») e di Cecco: «Da po‟ t‟è ‟n grado, Becchina, ch‟i‟ muoia».

74-76. contraddice quanto solitamente, sulla scorta del Cappellano, viene raccomandato, e cioè che è meglio tacere i propri segreti d‟amore. L‟ uso del proprio componimento come monito per gli amanti è anche per es. in Chiaro, Chi ‟mprima disse “amore”, vv. 57-60: «Canzonetta, agli amanti / di presente t‟invia: / ciascun che ‟n pene sia / lo partir fac[ci]a avanti»; cfr. anche le anonime (V 72, c. 21r) Amor,

non saccio a cui di voi mi chiami, vv. 51-55 e 59-60: «Oi falso amore, quanto sè abassato! / Perduto ài

l‟onore! / Lo mal ch‟ai fatto non terò celato, / diraggiolo ad ognore; / e mandolo al più fino / … / che canti ogne matino / esto mi‟ cantar novo infra la gente» e (V 52, c. 14r) Di dolor convien cantare, vv. 5-6, «In cantando il vo‟ contare, / a tuta gente dar dottanza».

75. per mostrare accompagnato dal partitivo cfr. Dante, I‟ mi son pargoletta bella e nova, vv. 2-3: «e son venuta per mostrare altrui / de le bellezze […]».

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ess. sicuri[...]prima della fine del Duecento» (Renzi-Salvi 2010, p. 474): l‟integrazione di che (con conseguente apocope di sono) permetterebbe il recupero dell‟accento di 6a. ‒ fermi d‟amare: il sintagma è è anche in Rvf 85.5: «Et son fermo d‟amare il tempo et l‟ora».

78-79. complessivamente si può mettere a confronto Chiaro, Amore, io non mi doglio, vv. 52-53 e 55-59: «Se ‟l mio core paresse / di fòri figurato / … / null‟omo credo sia, / da poi che lo vedesse, / che fosse sì spietato / che ver‟ lui umilïato / non fosse[...]». − non mi credo fosson: cfr., per la forma, la dubbia del Notaro Membrando l‟amoroso dipartire, v. 50: «e‟ no creo che sia in alcuno amante», l‟incipit di Guittone «M[a] eo non mi credo già c‟alchuno amante» e quello dello stesso Monte «Eo non mi credo sia alcuno amante». Per la costruzione del verbo credere unito al congiuntivo imperfetto con valore potenziale Ageno 1964, pp. 354-55; con ommissione, possibile in questo caso data la presenza del congiuntivo nella subordinata, della congiunzione dichiarativa che, (Renzi-Salvi 2010, pp. 777-81). Cfr. sotto n. al v. 86.

80. si oppone al v. 86. − ubriare è forma frequente nell‟italiano antico, con rotacismo postconsonantico della laterale (Renzi-Salvi 2010, p. 1542).

81. canzon novella: così definisce il proprio componimento già Guglielmo IX, nell‟attribuita Farai

chansoneta nueva (cfr. anche Ab la dolchor del temps novel, v. 4, «[...]lo vers del novel chan» e la nota

relativa in Pasero 1973, p. 255). In Italia ad es. Giacomo da Lentini, Meravigliosa-mente, v. 55: «Canzonetta novella», Guido delle Colonne, La mia vit‟è sì forte, v. 41: «Và, canzonetta fresca e novella»; più similmente in Guglielmo Beroardi, Membrando ciò ch‟Amore, v. 49, «Novella canzon priega».

82. appella: è probabile ulteriore termine tecnico giuridico (per cui vedi la voce relativa in TLIO, § 5.2); Monte lo riutilizza in D‟Amor son preso, sì che me ritrarne, vv. 11-13: «di voi amare, poi che siete quella / che di Fin Pregio portate la corona: / ancor di ciò, ov‟è Bieltà, s‟apella» (con la nota relativa di Minetti).

86. il più simile per forma è Chiaro, Amoroso meo core, vv. 46-48, «cherendole merzede / [che] non metta ‟n obria / la dolze ‟namoria» (per la costruzione vedi Corti 2005, 130-31). Per Monte cfr. Già non

porïa co la lingua dire, v. 14: «[...]già non metto ‟n obrio». ■ di‟ non metto: completiva all‟indicativo non

introdotta dal che: data la rarità del costrutto nel Duecento (cfr. in apparato il comportamento di L che volge il verbo al congiuntivo, cambiando però il senso al passo) si potrebbero separare i periodi con i due punti (di‟: non metto), cfr. Renzi-Salvi 2010, p. 779.

87-88. soprattutto bonagiuntiana la coppia di gallicismi in rima a contatto (Fin‟Amor mi conforta vv.

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