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canz VI Più sofferir non posso ch’io non dica

V 284, cc. 89v-90r, rubrica: Mō

Edizioni: D‟Ancona-Comparetti, III, p. 255-260; Minetti, pp. 68-71. Bibliografia: Steinberg?; Berisso 2016; Montefusco 2017.

Più sofferir non posso apre, all‟interno di V, la serie delle canzoni „socio-economiche‟ di Monte, secondo

la definizione di Marco Berisso, che del corpuscolo ha fornito una recente lettura complessiva; la definizione, ancorché possa suonare anacronistica, come avvisa lo studioso, è perfettamente calzante perché in queste canzoni Monte analizza la funzione e il peso sociale del denaro all‟interno della società comunale duecentesca, rappresentato come sommo bene a cui l‟uomo possa e debba aspirare: pensiero tanto più ardito se si tiene a mente la centralità del problema teleologico nell‟etica medievale. La visione di Monte è estremamente pessimistica (ma in Tanto m‟abbonda lo stesso Monte la definirà piuttosto realistica): in una società in cui a essere considerato più degno è colui che si distingue in cattiveria nel perseguire il proprio arricchimento, le qualità morali che erano considerate fondanti nel contesto sociale cortese, nella società comunale sono condizionate, per non dire legittimate, dal possesso di denaro, senza il quale esse non hanno alcun valore (e come si vedrà meglio in Tanto m‟abbonda lo scontro dialettico con la società cortese si concretizza attraverso la ripresa parodica di elementi della letteratura prodotta in quel contesto).

Il gruppo delle canzoni sarà dunque da leggere sullo sfondo dello sviluppo economico, cominciato nel XII secolo e ingigantitosi nel XIII secolo, sviluppo che, per esempio, a Firenze aveva portato al governo, assieme alle famiglie di antico lignaggio, gruppi di mercanti e banchieri, a formare il cosiddetto popolo grasso. Ma per meglio comprendere il modo di procedere di Monte è necessario tuttavia prendere in considerazione anche gli aspetti negativi di questa crescita economica, cioè l‟aumento dei poveri, soprattutto in ambito urbano, e la disparità sempre maggiore tra la condizione del povero e quella del ricco: in effetti la povertà ‒ e la rappresentazione con tratti di crudo realismo di se stesso da nullatenente (fatto quest‟ultimo non suffragato per ora da prove documentarie) sono temi centrali delle canzoni di Monte: una povertà vista come dramma, in opposizione ‒ molto probabilmente polemica ‒ a una certa immagine già evangelica della miseria come ricchezza, ripresa nel XIII secolo dagli ordini mendicanti, che proprio nella metà del „200 veniva programmaticamente approfondita, per fare un nome, da Bonaventura di Bagnoregio nell‟Apologia

pauperum e nella Quaestio de paupertate. In tutto questo, i testi di Monte sono accostabili abbastanza

agilmente a certi esempi della produzione realistica duecentesca di Cecco Angiolieri, Meo de‟ Tolomeo, del più recente Pieraccio Tedaldi o, allargando lo sguardo all‟orizzonte europeo, ai ritratti di miserie cittadine di Rutebeuf o Moniot.

Monte però va oltre il realismo personale, che si potrebbe infatti considerare preparatorio (o esemplificatore, come affermato ai vv. 137) della parte teorica delle sue canzoni, di cui colpisce, a una lettura sistematica del gruppo, soprattutto lo stile, il tono, che per ora ci accontenteremo di definire didattico: questa mi sembra la componente che rende le canzoni di Monte sul denaro degli unica nel panorama letterario duecentesco. Prima di proseguire ‒ e per meglio focalizzare quello l‟elemento notevole di queste canzoni ‒ è necessario soffermarsi per un momento sugli altri due esempi di lirica, per così dire, laica, accostabili per argomento alle poesie di Monte, presenti all‟interno del ms. Vat. Lat 3793: Poi ch‟è si vergognoso di Carnino Ghiberti e Se long‟uso mi mena di Finfo del Buono di Guido Neri (quest‟ultima probabilmente

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indirizzata proprio a Monte Andrea). La canzone di Carnino Ghiberti è una lamentatio dal tono fortemente elegiaco sulla propria sorte nefasta, con qualche picco sentenzioso: perciò si direbbe che al Ghiberti interessi principalmente parlare di sé (e in effetti sono solo due i momenti in cui il poeta abbandona il ripiegamento soggettivo per rivolgersi a un „tu‟, all‟avere nel primo caso e a un „tu‟ generico nel secondo). Se long‟uso mi

mena di Finfo, è invece un testo di corrispondenza che tratta l‟argomento secondo la morale religiosa,

dunque propugnando l‟allontanamento da ciò che è mondano ma attraverso il ricorso a un lessico specialistico bancario (si veda l‟esercizio di interpretazione della canzone proposto nelle CLPIO, pp. 846- 847) e che palesa il proprio destinatario, Monte appunto, come appena ricordato, già a partire dalla prima strofe (vv. 4-5 «per amore c‟ò ‟nver‟ te, / Monte, a cui mò· sso· l‟ò »), e tuttavia il contatto tra testo e destinatario avviene ‒ fatto salvo il congedo ‒ solo in questo punto: per il resto la canzone è talmente oscura che si ha l‟impressione che o Finfo si rivolga a Monte convenzionalmente per parlare di sé, oppure al massimo che non veda, oltre a Monte e pochi altri ‒ coloro insomma che avrebbero potuto possedere conoscenze sufficienti per sciogliere le difficoltà del testo ‒ altri destinatari per la sua canzone.

Al contrario, nelle sue canzoni ‒ come già si è visto nelle precedenti „amorose‟ di taglio moraleggiante

Ahi doloroso lasso e Ahi misero tapino ‒ Monte riserva un‟attenzione quasi maniacale alla componente

interlocutoria e comunicativa (e ciò si riflette splendidamente nella centralità del verbo dire che nelle sole canzoni economiche è presente in oltre quaranta esempi). Rientrano in questo progetto gli assai numerosi marcatori del discorso che costellano i testi di Monte, e nel caso specifico della canzone qui in esame, con funzione demarcativa (com‟io dissi di sopra, ora dico, com‟ò detto), di richiamo dell‟attenzione (Or vedete

[...]?; pensi ciascun che si paragona; miri chi più per sé sape) o di rafforzamento della forza illocutiva della

frase (notevoli i seguenti esempi, dove in due versi sono concentrati quattro modificatori: Ben può ciascuno vedere in aperto, v. 69; e, sanza fallo dir posso per certo): e a questo si aggiunga, per allargare lo sguardo allo stile complessivo, il modo di procedere del discorso, modulato sull‟accumulo di sentenze, come a vv. 70-71 e 135-136. Insomma l‟impressione che si ricava dalla lettura dei testi di argomento economico è che Monte si preoccupi principalmente di farsi capire dal suo lettore, nei confronti del quale si pone: per questo è forse necessaria una revisione della vulgata critica che presenta il nostro esclusivamente come uno dei più oltranzisti fruitori del poetare chiuso (al massimo si potrà definire la parola di Monte escaura, nel senso marcabruniano: una parola talmente densa di significato da richiedere un approfondimento suppletivo, che Monte in effetti richiede sempre nei congedi di queste canzoni sotto forma di una topica richiesta di correzione). Questo voler far sentire la propria voce, come a inserirsi in un dibattito, si riflette d‟altronde anche sul contenuto dei testi, per la cui composizione Monte ha potuto avere presente le parole di chi, a partire dalla Bibbia e dalle varie letture che di essa fornirono i padri della chiesa, abbia affrontato in prospettiva critica l‟argomento economico; come si vedrà nelle note di commento, ne esce l‟immagine di un autore che è abituato a manipolare la letteratura pregressa sull‟argomento: forse potrebbe essere un buon indizio questo del motivo per cui, contrariamente alla sua abitudine, Guittone D‟Arezzo costruirà la sua lettera a Monte (III, dell‟edizione Margueron) ‒ che dovrebbe rispondere proprio a Più sofferir ‒ dispiegando una così imponente messe di auctoritates.

La ricostruzione che è stata fatta pone tuttavia un problema, perché a rimanere entro gli orizzonti del canzoniere Vaticano, la voce di Monte rimane troppo isolata, per cui occorrerà che si cominci a riflettere sul contesto nel quale e per il quale queste canzoni furono composte. Nelle pagine che seguono ricorrerrà spesso, per esempio, il nome del notaio bolognese Rolandino de‟ Passeggeri ‒ uno dei capi, con Alberto Caccianemici, della cosiddetta fazione guelfa dei Geremei ‒ e il suo proemio allo statuto della società dei cambiatori bolognesi (1245, ma in una copia), che riflette la stessa identica ideologia delle canzoni economiche di Monte Andrea, soprattutto nella rappresentazione di una società che, degradandosi con il tempo, è totalmente dominata dalla logica utlilitaria (a giustificare appunto, nell‟ottica rolandiniana, la figura di chi maneggia per professione il denaro): il che vuole essere non una provocazione ma un invito a considerare la possibilità di leggere le canzoni nell‟ambiente bolognese, più vicino dal punto di vista teorico ‒ e certamente nell‟impegno ideologico ‒ al pensiero montiano.

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C‟è da chiedersi, dato questo impeto comunicativo, se effettivamente le parole di Monte sul denaro abbiano avuto una certa diffusione: chiederselo è inevitabile d‟altronde per un autore così ingombrante per quantità e qualità del suo corpus poetico. Difficilmente una poesia così concettuale avrebbe potuto superare la doppia barriera costituita da Dante e poi soprattutto da Petrarca. La cosa curiosa è che ci sono almeno due testi ‒ Sì come ‟l mare face per tempesta di autore anonimo (su cui vd. nn. ai vv. 34, 54, e 107-108) e Per

gran soverchio di dolor mi movo di Francesco ‟Smera dei Beccanugi ‒ che dimostrano una ricezione

duecentesca e maniacale di Monte, dal momento che sono stati costruiti come collages di altrettanti versi prelevati principalmente dalle sue „economiche‟, ma reinseriti in un discorso squisitamente amoroso: strano destino dunque per un un autore che ha tentato di affrancarsi dalla tematica amorosa per trattare questioni più stringenti, ma che agli occhi dei suoi lettori è ancora esclusivamente poeta d‟amore (su Beccanugi si rimanda adesso a Piciocco 2017).

Il discorso già fatto per Tanto m‟abbonda è estensibile anche a questo caso: seguo dunque la proposta di Marco Berisso ‒ ma già implicitamente di Aldo Menichetti che non pubblica nella sua edizione di Chiaro Davanzati questa canzone ‒ di non classificare Più sofferir come il primo tempo della tenzone con Chiaro Davanzati, perché nel testo non è richiesto un coinvolgimento di Chiaro, che con A San Giovanni interverrà autonomamente (da qui, come sottolineato da Menichetti, la sorpresa leggibile nel incipit della risposta di Monte, Or è entrato in campo tal campione): per questo dunque Più sofferir compare autonomamente. Rimandando alle note di commento gli interventi che riguardano la distinctio delle parole, si segnalano qui in casi in cui è stato necessario intervenire sulla lezione del codice:

- al v. 8 intervengo su spiacere del ms., sostantivo assente in Monte, ma a differenza di Minetti che propone la lezione [i]spiacer (forma anche questa assente dal corpus ), inserisco una dentale occlusiva sonora, e dunque [di]spiacer, in legame fonico con il precedente dolor: sebbene anche dispiacere sia hapax in Monte, se non altro è in coppia con la variante dispiacenza(cfr. Sentomi al cor dolorosi schianti, → T 5.19, v. 6. - al v. 62 il ms. riporta la lezione fosse in me senno tute bonta conciedute, che è irrimediabilmente ipermetro, anche applicando la consueta apocope vocale a senno. A destare sospetto c‟è comunque verso precedente e in quello successivo, 61 e 63, è ugualmente presente il sintagma in me, per cui è possibile che il copista lo abbia inserito anche dove non era presente: propongo dunque di espungerlo dal verso.

- Al v. 103 è necessario modificare la lez. Disaventura del ms. in Sventura, giacché si tratta dell‟unico intervento possibile sul v. per ricondurlo alla misura endecasillabica.

- Il caso più spinoso al v. 121. Come riportato ‒ no(n) chesto tormento dato me mter vivo ‒ il verso appare drammaticamente irriducibile in misure canoniche (a meno che non lo si legga, secondo la denominazione di Minetti, come un endecasillabo bisacefalo). Il primo e più evidente snodo problematico corrisponde chiaramente alla lezione me mter, nella quale Minetti vede un travisamento di origine paleografica di un precedente (dato) me inter, lezione forse inutilmente complicata (né attestata nel contesto lirico duecentesco tosco-emiliano): comunque, che si voglia accogliere a testo il me inter di Minetti o un più comune mentre, il verso rimane soprannumerario. Si potrebbe pensare, per escludere tutte le ipotesi possibili, a un errore di anticipo della negazione che apre il verso successivo (non morir posso), con due conseguenti proposte editoriali: ‟N chesto tormento dato mentre vivo (con accenti di quarta e sesta), non morir posso come argento

vivo, oppure Chesto torment‟ò, dato mentre vivo: non morir posso [...], o, prendendo inoltre atto della

problematicità della forma dell‟aggettivo chesto, Ché sto [‟n] tormento dato mentre vivo, non morir posso

[...]. Ammettiamo tuttavia che con difficoltà potremmo fare a meno di quel lapidario No che, a inizio di

verso, tronca immediatamente la domanda su una possibile speranza futura (Speri alcun rimedio? No). Provando ad aiutarci con le lettere maiuscole qualcosa però effettivamente si nota, ovvero che la trafile di lettere TOrMENTO daTO ME MTEr risultano essere piuttosto simili: si potrebbe immaginare ‒ in via ipotetica che il copista abbia riprodotto mentalmente, non riconoscendo la costruzione già vista in Tanto

m‟abbonda v. (me date / dato me) una successione di segni simile a quella precedente. Dunque No, ‟n chesto tormento dato me vivo (cioè „datomi da vivo‟).

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Nota metrica: canzone di stanze endecasillabiche composte di due piedi e sirma, con schema ABBCADDC EFFEGGHHE: chiudono il componimento tre congedi con la stessa struttura della sirma. Rime ricche ai vv. 13 riparo : 15 apparo, 94 fancelletto : 97 diletto, 106 sofferisse : 110 morisse; rime inclusive ai vv. 15 omo

: 16 domo, 40 membro : 41 insembro, 57 tesoro : 58 oro, 91 opra : 92 sopra, 95 remo : 96 stremo, 123 sedio :

128 assedio, 126 io : 127 mio; rime per l‟occhio ai vv. 1 dica : 5 mic‟à, 47 abisso : 48 i‟ so, 129 specchio : 132 vecchio : 132 ecch‟io; rime derivative ai vv. 38 scampo : 42 campo, 117 soddisfatto : 118 rifatto), 138 cordoglio : 141 doglio; rima identica ai vv. 121 vivo : 122 vivo e rima siciliana ai vv. 86 ismanovisce: 87

rincresce. Debole connessione capfinida tra le strofe, tra la V e VI (chi no ‟l fa/chi ‟l suo), la VI e la VII

(dico ch‟è spenta/più ch‟i non dico), VII e VIII (puo[n]/porria), VIII e IX (posto m‟è/sè di me), IX e X (io/mio). Meno presenti i giochi semantici di rime di cui Monte ci ha abituato nelle poesie d‟amore (e verrebbe voglia attribuire la causa di ciò al diverso peso delle affermazioni qui contenute, che appunto non hanno bisogno di ornamenti): notevole tuttavia la rima che ai vv. 75 e 87 connette il comportamento riservato a chi sa guadagnare, con o senza violenza (tenuto idonio), e chi non mantiene intatte le proprie ricchezze (più ‟nodiato...che domonio). Eccedenze in cesura ai vv. 42, 79, 80, 92 [ma vd. n. relativa], 96, 125.

Più sofferir non posso ch‟io non dica

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