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In quasi due mesi della tragica prigionia dell'onorevole Moro diedero una svolta alla vicenda politica italiana. La strategia del compromesso storico venne abbandonata; in nome della governabilità del Paese,

si pensò ad un nuovo accordo che escludesse, di nuovo, i comunisti ed includesse il PSI di Craxi. Il Presidente della Repubblica Giovanni Leone, nel giugno del '78 si dimise: a chiederlo fu il PCI, che polemizzò sulle presunte attività speculative del Presidente. Sommerso da una lunga campagna scandalistica, Leone annunciò sui teleschermi le proprie dimissioni pur professando la propria innocenza: «ho il dovere di dirvi che avete avuto come Presidente della Repubblica un uomo onesto», disse.

A larghissima maggioranza, dopo sedici votazioni, Sandro Pertini venne eletto al Quirinale. Integerrimo esponente del mondo socialista, protagonista della Resistenza armata, membro della Costituente, il nuovo Presidente incarnò l'esigenza di ritrovare la dignità delle istituzioni 72 L'estratto della lettera riportata sopra (v. n.57) lascia trapelare la possibilità che Aldo Moro fosse stato indotto a

svelare le dinamiche occulte del Bel Paese: dalla strategia della tensione fino a Gladio. Si possono solo immaginare le conseguenze che la pubblicazione di questo materiale da parte delle BR avrebbe potuto generare. L'Italia era un avamposto importante nel quadro della guerra fredda e, inoltre, era dotata di un partito comunista che aveva toccato il suo massimo storico sul piano elettorale. É dunque lecito ritenere che il sequestro Moro avesse scatenato l'interesse dei Servizi segreti internazionali. I carteggi che le BR avrebbero ottenuto dalla testimonianza di Moro potrebbero essere stati acquisti dai Servizi segreti orientali. Oppure, l'intelligence occidentale potrebbe essere riuscita ad evitarne la promulgazione. Oppure ancora, il sequestro Moro deve riferirsi alla politica filo-araba condotta dallo statista. Per approfondire si consigliano i seguenti testi: F. Mazzola, I giorni del diluvio, Aragno, Torino 2007; C. Guerzoni, Aldo Moro, Sellerio, Palermo 2008; F. Biscione, Il delitto Moro. Strategia di un

assassinio politico, Editori Riuniti, Roma 1998; E. Deaglio, Patria 1978-2010, Il Saggiatore, Milano 2009.

73 F. Di Bella, E' morto perché questa Repubblica viva, Corriere della Sera, 10 maggio 1978. Consultato su A. Varni (a cura di), La Storia nelle prime pagine del Corriere della Sera, cit., p. 398.

e la coerenza di comportamenti da parte dell'intera classe politica.

Dal 1978 al 1980, le vittime degli attentati della sinistra più radicale furono più di ottanta; uno fra tutti, il giornalista Walter Tobagi, inviato sul fronte delle BR, rimasto ucciso nel maggio del 1980.

A questi si aggiungono le otto persone assassinate dai neofascisti dei NAR, Nuclei armati

rivoluzionari; uno fra tutti, il pubblicitario ambiguo, fondatore dell'agenzia di stampa OP- Osservatore Politico, Carmine (Mino) Pecorelli74.

Il 27 giugno 1980, un'altra strage. Tra le isole di Ustica e di Ponza, un incidente aereo costò la vita a ottantuno persone. Solo trentotto furono i corpi recuperati in quella che oggi ricordiamo come la strage di Ustica. Le cause dell'incidente furono a lungo dibattute: dal cedimento strutturale, all'abbattimento, dalla collisione con un altro aereo militare fino all'esplosione dovuta alla collocazione di una bomba a bordo del veicolo. Le indagini della magistratura, come avvenne spesso prima di allora, dovettero fare i conti con i depistaggi che, secondo molti commentatori dell'epoca, dovevano essere ricercati in alcuni apparati dello Stato. Ottantacinque, invece, saranno le vittime di altro attentato dinamitardo: la strage della stazione di Bologna, del 2 agosto 1980. Addirittura, si pensò che l'episodio di Bologna potesse servire come diversivo per distogliere l'attenzione sul caso Ustica. Comunque, in un documento sequestratogli nel settembre dello stesso anno, il militante di Ordine Nuovo Carlo Battaglia dichiarava:

[Bisogna] arrivare al punto che non solo gli aerei, ma le navi e i treni e le strade siano insicuri: bisogna ripristinare il terrore.. Al di fuori di noi, con le nostre idee ci sono milioni di uomini, essi ci aspettano. Diamo un segno inequivocabile della nostra presenza.. Occorre un'esplosione da cui non escano che fantasmi75.

74 Carmine Pecorelli, 1928-1979, giornalista e direttore dell'Osservatore politico, rivista settimanale dalla quale manda ai potenti avvertimenti e avvisi mascherati da una ironica prosa ricattatoria, morì violentemente e improvvisamente, il 20 marzo 1979. L'ambiguità cui si è fatto riferimento nel testo si riferisce proprio alle ragioni che sottendono il suo assassinio: fintamente rivendicato dagli anarchici, l'omicidio Pecorelli ha in realtà altri mandanti. Secondo G. Flamini, scartata la pista anarchica, la morte del giornalista iscritto alla P2, tessera 1750, potrebbe sembrare una dichiarazione di guerra alla dilagante loggia; in realtà: «la guerra [..] è scoppiata proprio sotto gli archi della loggia. [..] Pecorelli ha appena finito di scrivere sul numero della rivista che per tragica coincidenza arriva nelle edicole con la data del 20 marzo, giorno del suo assassinio. [..] Il linguaggio usato [..] si fa duro e dirompente: «Attentati, stragi, tentativi di golpe, l'ombra della massoneria ha aleggiato dappertutto: da Piazza Fontana al delitto Occorsio, dal golpe Borghese all'Anonima sequestri, alla fuga di Sindona dall'Italia» (in G. Flamini, L'ombra della piramide, Teti editore, Milano 1989, p. 88). I riferimenti a Gelli, le cui fortune vengono accostate alla protezione accordatagli dall'onorevole Andreotti e il gioco di ricatti di Pecorelli (che si cercò di attenuare con la consegna di svariati milioni) lo condannarono a morte. «Ecco perciò materializzarsi accanto a Pecorelli un killer [cui] giudici e poliziotti non riusciranno a dargli un nome, ma intanto almeno tre neofascisti [..] diranno che a mettere il sasso in bocca a Pecorelli è stato mandato il loro ex-camerata Valerio Fioravanti». (Ivi, p. 89).

E bene, alle ore 10:25 nella sala di aspetto di seconda classe della stazione di Bologna, un ordigno scoppiò facendo crollare l'edificio comprendente anche il ristorante, il bar e la sala d'aspetto di prima classe; la pensilina di ferro si abbatté su due vagoni dell'Adria-express, seppellendo centinaia di viaggiatori. In un primo momento, governo (presieduto da Francesco Cossiga) e forze armate attribuirono l'esplosione a cause fortuite: a scoppiare, dissero, era stata una vecchia caldaia situata nel sotterrano della stazione. Ben presto, però, le indagini si indirizzarono altrove: l'attentato aveva matrice terrorista e a metterlo in pratica erano stati alcuni esponenti dei NAR. Valerio Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini furono definitivamente riconosciuti come responsabili della strage dalla Corte di assise di Bologna solamente nel maggio 1994; ci interessa inoltre specificare che, in quell'occasione, Licio Gelli fu ritenuto l'artefice del depistaggio delle indagini. A prescindere dalla verità giudiziaria, possiamo considerare non ancora completamente chiarito il disegno strategico che sottostava alla strage di Bologna. Quel che è certo è che il contesto nazionale ed internazionale dell'Italia nei primi mesi degli anni Ottanta, differiva sensibilmente da quello in cui maturarono gli eventi stragisti del periodo '69-'74: è difficile sostenere, dunque, l'ipotesi che gruppi eversivi della destra estrema coltivassero ancora ed esclusivamente velleità golpiste; così come è difficile comprendere a pieno il significato dell'attività di deviazione condotta, oltre che dal Gelli, dagli agenti segreti Pietro Masumeci, Giovanni Belmonte e Francesco Pazienza. Gli anni Ottanta, tuttavia, sembravano mostrare un miglioramento: l'attività investigativa di Carlo Alberto Dalla Chiesa76, alla guida del nucleo antiterrorismo, lasciava sperare in una

svolta audace delle istituzioni contro il terrorismo. A Dalla Chiesa il merito di aver inferto, tramite le dichiarazione dei pentiti, duri colpi all'organizzazione delle BR a seguito dell'omicidio Moro, tali da destinare le Brigate Rosse al loro sgretolamento.

Un ruolo determinante fu inoltre rivestito dalla figura del Presidente partigiano: Pertini ribadì continuamente la denuncia alla corruzione e nel 1981, la sua riflessione toccò l'argomento principe della nostra indagine:

Quando io parlo della P2 non intendo coinvolgere la massoneria propriamente detta, con la sua tradizione storica. Per me almeno, una cosa è la massoneria, che non è in discussione, un'altra cosa è la P2, questa P2 che ha turbato, inquinato la nostra vita. I giuristi stanno discutendo se la P2 cada o non cada sotto il codice penale, se è un'associazione a delinquere. Sono cose che a me non interessano per il momento. Io guardo ad un altro codice, che è il codice morale, il codice morale che ogni uomo, specialmente ogni uomo politico, dovrebbe portare scritto nella sua coscienza. E bene, la P2 cade sotto questo codice morale. Vi è un 76 Dopo i successi ottenuti nella lotta al terrorismo, Dalla Chiesa fu inviato come prefetto in Sicilia, dove il generale si

proverbio che si usa dire: che la moglie di Cesare non deve essere sospettata, ma prima di tutto è Cesare che non deve essere sospettato. Ed allora ogni sospetto devono allontanare dalla loro persona gli uomini politici, non possono rimanere, non può rimanere al suo posto chi è stato indiziato in questa trappola della P2. La P2 si prefiggeva di compiere atti contro la Costituzione, contro la democrazia e contro la Repubblica. E quindi, coloro che facevano parte della P2 dovranno rispondere prima di tutto dinanzi alla loro coscienza, dinanzi ai loro partiti e, soprattutto, dinanzi al Parlamento. Non ci può essere in questo caso alcuna comprensione ed alcuna solidarietà. E ripeto quello che ho detto altre volte: qui le solidarietà personali, le solidarietà di partito, diventano complicità77.

Il 1981 fu l'anno dell'incursione a Castiglion Fibocchi. La documentazione rinvenuta presentava nominativi tutt'altro che irrilevanti per le cronache del Bel Paese: alti gradi dell'esercito e dei servizi di sicurezza variamente connessi alla strategia della tensione, dagli agenti Gianadelio Maletti, Vito Miceli e Federico D'Amato fino ai capi del SISDE e del SISMI; dai generali come Giuseppe Santovito fino ai magistrati; dagli esponenti della DC a quelli del MSI; dal segretario di partito del PSDI, Pietro Longo, fino a Fabrizio Cicchitto e Silvano Labriola, militanti nel PSI; per finire con gli imprenditori come Angelo Rizzoli, Silvio Berlusconi, Roberto Calvi, Michele Sindona e i giornalisti come Franco di Bella, direttore del Corriere della Sera e Maurizio Costanzo. Veniva alla luce un'Italia sotterranea. Il 23 dicembre 1984, un'altra strage riportò il Paese nel vortice del terrorismo: si trattò della

strage del rapido 904. Il treno, in transito da Napoli verso Milano, esplose provocando la

morte di sedici passeggeri e oltre duecento feriti. L'episodio costituì una svolta, un mutamento, nel quindicennio stragista ('69-'84): esso rivelò l'esistenza di una zona grigia in cui mafia, Servizi segreti, criminalità politica e comune stringevano rapporti. Per questo, non stupisce che il responsabile dell'attentato venisse identificato nella figura di Giuseppe Calò, boss legato agli ambienti di Cosa Nostra e che, si suppose, la ragione dell'attentato potesse collegarsi alla necessità di distogliere l'attenzione dell'opinione pubblica dalle rivelazioni del pentito di mafia, Tommaso Buscetta. Trasferitosi a Roma negli anni Settanta, Pippo Calò sotto il falso nome di Mario Aglialoro, strinse accordi con la banda della Magliana, determinando una singolare convergenza di interessi, un intreccio di interessi politici e finanziari, fra ambienti mafiosi e ambienti della gestione pubblica.

Negli anni precedenti alla strage, le relazioni fra Calò e Licio Gelli, riguardarono attività di riciclaggio: in particolare, Calò si avvalse della consulenza di Roberto Calvi, oltre che del Gelli, per investire denaro nel Banco Ambrosiano, di proprietà di Calvi stesso: in seguito al 77 S. Pertini, Messaggio di fine anno, 31 dicembre 1981. Consultato su http://www.presidenti.quirinale.it in data 25

fallimento dell'Ambrosiano, Calvi non riuscì a recuperare il denaro del mafioso, andato perduto nella bancarotta. Il 17 giugno 1982, Roberto Calvi venne ritrovato morto impiccato sotto il Blackfriars Bridge a Londra, in circostanze ancora sospette.