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Relazione di minoranza: parla Massimo Teodor

Le relazioni di minoranza: motivazioni di un dissenso

5. Relazione di minoranza: parla Massimo Teodor

Quella che ci apprestiamo ad esaminare è l'ultima espressione di dissenso proposta in occasione della chiusura dei lavori della Commissione parlamentare; a formularla fu Massimo Teodori, esponente del Partito Radicale. Per Teodori, più che per altri, la relazione di minoranza fu anche l'occasione per promuovere la propria espressione politica. Vedremo come, in apertura della relazione, l'onorevole avesse messo in rilievo il tacito consenso dato, dalla maggior parte della classe dirigente politica italiana, alla Loggia P2: in questa maggioranza, tuttavia, affermava Teodori, non erano presenti i suoi compagni radicali. Essi, pur rappresentando una piccola forza politica, avevano prestato attenzione alle influenze negative del potere occulto, denunciandone più volte la presenza e combattendone perentoriamente le pressioni sulle istituzioni. Le maggiori denunce formulate dal Partito Radicale e volte a colpire i settori deviati della massoneria, riguardavano: l'introduzione del divorzio nella legislazione italiana nella seconda metà degli anni Sessanta (la massoneria aveva, in quella occasione, abbandonato il patrimonio laico e risorgimentale che pure doveva esserle proprio, in favore di una ostinata avversione al divorzio); le pressioni illegittimamente esercitate e la corruzione che l'Eni di Cefis condusse nei confronti di correnti, partiti e giornali; la nomina di Carmelo Spagnuolo a Procuratore Generale di Roma; il coinvolgimento dei settori militari e dei Servizi segreti nella strategia NATO ed operanti nel Nord-Est d'Italia; ed infine i casi Occorsio, Moro e D'Urso durante i quali i radicali denunciarono l'inefficienza dei Servizi segreti e delle forze dell'ordine. Queste vicende, sottolineava Teodori, sottolineavano il disinteresse, da parte del Partito Radicale, per i favoritismi che gli altri partiti politici avevano ottenuto dalla vicinanza con gli ambienti occulti piduisti, ed evidenziavano la buona fede dei radicali, piacevole eccezione di un contesto istituzionale profondamente corrotto.

L'onorevole apriva la sua relazione ricorrendo ad alcune testimonianze: quelle rilasciate dai capi politici durante gli interrogatori condotti dalla Commissione parlamentare d'inchiesta e riguardanti il periodo di accertata operatività della Loggia P2. In quella occasione, ad Amintore Fanfani (segretario DC dal 1973 al 1975 e più volte ministro e Presidente del Consiglio), Benigno Zaccagnini (segretario DC), Enrico Berlinguer (segretario del PCI), Bettino Craxi (segretario del PSI e poi Presidente del Consiglio), Giorgio Almirante (segretario del MSI), Pier Luigi Romita (segretario del PSDI dal 1976 al 1978) Pietro Longo (segretario del PSDI dal 1978), Giovanni Spadolini (segretario del PRI dal 1979, più volte ministro e Presidente del Consiglio), Valerio Zanone (segretario del PLI), Arnaldo Forlani,

(segretario e presidente della DC, ministro e Presidente del Consiglio in diverse epoche) Silvano Labriola (capogruppo PSI alla Camera dal 1979 al 1983) e Giulio Andreotti (ministro e Presidente del Consiglio per lunghi periodi nel corso di decenni) vennero richiesti pareri sulla P2 e sul suo mentore; ma questa serie di interrogazioni non fornì le risposte sperate anzi, le dichiarazioni rilasciate da questi esponenti politici, in cui tendenzialmente essi confermavano la loro ignoranza sul tema P2, finirono col rispecchiare l'inettitudine della classe politica di fronte al fenomeno piduista. Le deposizioni, infatti, si rivelarono poco credibili tenendo specialmente in considerazione la pregnanza della comprovata osmosi verificatasi fra ambienti piduisti e ambienti politici in quegli anni; il rapporto intrattenuto dalla rete P2 con i partiti dell'establishment e con i suoi leader, ora continuativo ed organico, ora collegato ad attività circoscritte (che comunque avevano alimentato il reticolo dei coinvolgimenti, delle collusioni e dei ricatti), non poteva esser passato inosservato come invece le testimonianze di certe personalità politiche volevano far credere. Piuttosto tali dichiarazioni, affermava Teodori, miravano a coprire l'indichiarabile, ovvero che la P2 aveva vissuto all'interno dei partiti e si era intrecciata con i loro uomini, come parte operante del sistema partitocratico. DC, PCI, PSI erano stati pienamente coinvolti nei finanziamenti targati P2 e avevano intrattenuto rapporti con il Venerabile così frequentemente che, in definitiva, si poteva concludere che la P2 era il grande scheletro nell'armadio dei partiti di cui ognuno conosceva l'esistenza, ma nessuno ne voleva (o poteva) parlare.

Per avvalorare la sua tesi, Teodori partiva dalla ricostruzione del passato gelliano, e in particolare dalle relazioni intrattenute con il Partito Comunista Italiano. Teodori sottolineava come, per comprendere la natura di questo legame, fosse utile condurre una analisi degli anni del dopoguerra, in cui Gelli iniziò a praticare quel doppiogiochismo che negli anni contraddistinguerà la sua personalità; la reticenza mostrata dalla maggior parte della Commissione a proposito dell'accertamento dei fatti risalenti a quel periodo era, per l'onorevole, inspiegabile; per questo motivo riteneva indispensabile, per lo sviluppo delle sue riflessioni, fissare alcuni punti a riguardo. Eviteremo di soffermarci troppo a lungo su quanto già affermato nei capitoli precedenti; brevemente, ricordiamo come nel '43, di ritorno dal campo di battaglia, Gelli ricoprisse il ruolo di ufficiale di collegamento tra la Wehrmacht e la Repubblica sociale di Salò nella sua città natale, Pistoia. Erano i mesi dell'agonia nazifascista che preludevano al successo della Resistenza e alla liberazione da parte degli Alleati e in quel contesto, Gelli aveva compreso l'importanza di affiancarsi a chi, con ampia probabilità, avrebbe trionfato. Così, il futuro Venerabile si mise in contatto con i rappresentanti locali del

CLN offrendo loro collaborazione: iniziò a fornire informazioni, sfruttando la posizione da lui occupata in campo repubblichino e tedesco, e a partecipare ad azioni partigiane che gli garantirono, malgrado l'ambiguità dei suoi comportamenti, la protezione dei comunisti del Comitato di Liberazione, un lasciapassare e documenti personali con i quali fuggì a Roma, poi a Napoli ed infine in Sardegna, nell'isola della Maddalena. Qui, ricercato dalle forze dell'ordine, entrò in contatto, per la prima volta, con i carabinieri. In seguito ad un interrogatorio, Gelli consegnava agli stessi carabinieri una lista di persone che avrebbero collaborato attivamente con i Tedeschi.

Questa breve ricostruzione, ci era utile a giustificare l'articolo rilasciato dal comunista e Presidente provinciale del CLN di Pistoia, Italo Carobbi e pubblicato, nel febbraio '45, su La

Voce del Popolo. Nell'intervento, intitolato Un chiarimento del CPLN, si affermava:

Si avvertono tutti coloro che si sono interessati e si interessano al caso Licio Gelli, che il CPLN era a conoscenza della sua appartenenza al Partito Fascista fino dal periodo clandestino del comitato stesso e accetto la di lui collaborazione, che fu attiva ed ef ficace. [..] In considerazione di questo suo lavoro per la causa, il CPLN rilascio al suddetto soltanto una dichiarazione e un permesso per recarsi fuori provincia, presso alcuni parenti, ove si trova tuttora.

In seguito poi, nel 1950, apparì la prima informativa organica che i Servizi segreti compilarono su Licio Gelli, sul suo passato e sulla sua attività di quel periodo. Come rammentato da Teodori, si trattava dell'informativa Cominform: qui, Gelli veniva descritto come un personaggio capace di compiere qualunque azione, che aveva iniziato la collaborazione con il PCI nel 1944 e che svolgeva attività di spionaggio in favore dei Paesi dell’Est. L'informativa si concludeva indicando Gelli quale individuo pericolosissimo sia per la zona strategica nella quale operava, sia per l'azione informativa che egli espletava.

Più di un ventennio più tardi, nel 1976, sulla stampa Gelli appariva nella veste di capo di una massoneria nera al centro di trame sovversive, in relazione con gli estremisti fascisti e con la criminalità organizzata dei sequestri di persona; in questa circostanza, Gelli richiedeva all’ex presidente del CLN di Pistoia, il citato Carobbi, di rilasciargli una nuova certificazione del suo passato nella quale si legge: «Quale ex Presidente del CLN di Pistoia attesto che il signor Licio Gelli, pur facendo parte della Repubblica di Salò ha collaborato con liberazione di quaranta detenuti politici di Villa Sbertoli. Salvo altre possibili informazioni a me non risulta che si sia macchiato di delitti politici». L'Unità che aveva fatto un riferimento alla natura nera della P2, in un articolo del maggio 1976 di Franco Scottoni dedicato ad Edgardo Sogno, non

ritenne opportuno pubblicare il documento, che tuttavia e nuovamente attestava la vicinanza di Gelli con esponenti del mondo politico comunista.

Infine, sempre in relazione al passato di Gelli, l’agenzia OP di Mino Pecorelli, il 2 gennaio 1979, pubblicava l’attestato di benemerenza partigiana rilasciato nel 1944 da Carobbi annotando: «Non quindi un Gelli nazifascista, americano e golpista, ma un Venerabile Maestro, sincero democratico e partigiano combattente, come risulta da un documento originale. E come avrebbe dovuto risultare al Messaggero e agli altri che non ignorano i rapporti di Gelli con la Repubblica Popolare di Ceausescu».

Dall'insieme di queste vicende, come attestava Teodori, si evince come Gelli avesse collaborato con il PCI, attraverso la componente del CLN, e come dal partito egli avesse ricevuto aiuto e protezione per superare le difficoltà incontrate come repubblichino e collaborazionista. Questo passaggio iniziale della vicenda gelliana, secondo Teodori, contraddiceva l'immagine accreditata dai più secondo la quale Gelli, pur tra i tanti doppiogiochismi, avesse costantemente ed esclusivamente operato con la destra, nelle sue più diverse sfumature. Teodori, pur accettando la valutazione di un Gelli cinico e spregiudicato, capace di giocare ruoli contrapposti in diverse situazioni, considerava significativa la collaborazione che Gelli intrattenne con il PCI e dunque concludeva:

La collaborazione con il PCI è lo scheletro nell’armadio sia del Partito Comunista che di Gelli che dei Servizi segreti che ne erano a conoscenza. Questa zona inesplorata e lasciata volutamente nell'area dell'ambiguità e della contraddizione ha prodotto un duplice e speculare effetto. Il primo, sul rapporto fra Gelli e il PCI che sembra essere improntato nel corso degli

anni da una specie di codice di un reciproco gioco delle parti, con il ruolo fisso di anticomunista assegnato dal PCI al Gelli medesimo, da questi accettato, continuamente ribadito e proclamato; e con l’intesa da parte di Gelli nei confronti del PCI che mai avrebbe dovuto trasparire nulla dell’antica collaborazione. Il secondo, sul rapporto fra Gelli e i servizi segreti, rapporto che, relativamente alla speci fica conoscenza dei fatti Gelli/PCI, e dovuto rimanere sempre improntato ad una omerta deliberatamente mantenuta dai servizi e molto volentieri accettata da Gelli254.

Per questo, aggiungeva l'onorevole, la Commissione avrebbe avuto il dovere di fare quanto era in sua facoltà per chiarire questo aspetto.

La tesi di Teodori si concentrava poi sull'analisi degli eventi verificatisi negli anni Settanta; da quest'ultima, l'onorevole traeva le seguenti conclusioni: sebbene nella P2 di quegli anni si 254 Commissione parlamentare sulla Loggia massonica P2, IX Legislatura, M. Teodori, Relazione di minoranza, Legge

del 23 settembre 1981, n. 527, Roma 1984, p. 22. Consultato suhttp://www.laprivatarepubblica.it, in data 1

incrociassero strutture segrete e parallele dei Servizi segreti (SID parallelo), manovre eversive e golpiste, volontarie connivenze dei politici e interferenze internazionali, secondo Teodori, era scorretto attribuire alla loggia una funzione direttiva di tutta la strategia della tensione ed eversiva del quinquennio. L'organizzazione gelliana, al contrario, era il crocevia, il punto di incontro, collegamento e coordinamento oltre che di propulsione dei gruppi militari e civili. Nella sua testimonianza, il pentito Aleandri individuava tre livelli autonomi (ma tra loro connessi) attivi nel precario contesto italiano: gruppi estremistici della destra eversiva, forze militari e statuali favorevoli ad una svolta autoritaria ed ambienti politici ufficiali disponibili a sostenere (o comunque a non ostacolare) una democrazia forte. E bene, è per questi gruppi che la P2, sosteneva Teodori, rappresentava il nodo di collegamento:

La nostra conclusione per questo periodo è che la P2 ha giocato sì la carta della destabilizzazione, ma come anello di congiunzione con settori dell'establishment politico e dello Stato al fine di una più profonda stabilizzazione dei meccanismi extra-istituzionali e anti-costituzionali255.

La riflessione sul carattere politico della Loggia P2, nella relazione di Teodori, lasciava poi spazio a considerazioni legate all'ambiente economico; era dunque inevitabile, che l'onorevole affrontasse il caso Sindona. Rispettato e agevolato sino al '74 dalla Banca d'Italia, alleato di Eugenio Cefis in numerose operazioni speculative e corteggiato dall'espressione politica democristiana, oltre che collegato a notevoli esponenti della finanza cattolica, Sindona aveva visto crollare il suo castello finanziario nel '74, quando la sua Banca Privata Italiana, sottoposta al vaglio del liquidatore Ambrosoli, dovette accettare l'irrimediabile crollo. Ma il supporto a Sindona non si limitava ad avere carattere nazionale: il faccendiere era infatti bene inserito nel circuito della finanzia internazionale, motivo per il quale poté godere dell'amicizia di David M. Kennedy e delle relazioni con le diramazioni siculo-americane di Cosa Nostra. Molti degli elementi cui Sindona era connesso si sarebbero poi ritrovati nelle trattazioni sulla P2 tanto che non è sbagliato sostenere che proprio in quei canali, stabiliti da Sindona, la P2 si consolidò. É anche per questa ragione che, affermava Teodori, possiamo comprendere l'attiva presenza della P2, soprattutto dopo il crollo sindoniano, come se l'una avesse sostituito l'altro. Il quinquennio che seguì l'ordine di liquidazione della Banca Privata Italiana, a cui nel frattempo si era aggiunta la dichiarazione di fallimento negli Stati Uniti della Franklin Bank e il conseguente mandato di cattura per Sindona da parte della magistratura milanese, fu 255 Ivi, p. 33.

incentrato sul tentativo sindoniano di salvare le proprie attività. Per raggiungere l'obiettivo, il faccendiere mise in atto operazioni politiche, giudiziarie, finanziarie che coinvolsero uomini e forze d'ogni tipologia; ma più di tutti, ad essere coinvolta in tali operazioni, fu la Democrazia Cristiana: del resto, il bancarottiere, nella primavera del '74, aveva elargito ben due miliardi di lire in occasione della campagna per il referendum sul divorzio e a giovarne era stato l'allora segretario del partito, Amintore Fanfani. In qualche modo, la DC doveva ripagare il favore e rispondere all'appello di Sindona, prontamente raccolto da Giulio Andreotti, capo di governo dal 1976 al 1979. Le richieste, direttamente esposte dal Sindona in una missiva indirizzata ad Andreotti, erano le seguenti:

Contrastare l'estradizione voluta da giudici sulla base di un giudizio di preconcetta e preordinata colpevolezza; esercitare una pressione sull'apparato giudiziario e amministrativo; sistemare gli affari bancari della BPI contemporaneamente a quelli della SGI per cui il presidente del Consiglio si è già mosso; chiudere la pagina di grave ingiustizia apertasi con la liquidazione coatta, sì da dare tranquillità ai piccoli azionisti e al Banco di Roma che, altrimenti, resterebbe coinvolto; opporsi alla sentenza di insolvenza e premere per un positivo giudizio del TAR che annulli il decreto di messa in liquidazione del ministro del Tesoro, giungendo alla revoca della liquidazione della BPI. [..] La mia difesa avrà due punti di appoggio, come può immaginare, quello giuridico e quello politico, che discende dalla tesi di fondo di essere stato vittima di un complotto. [..] Farò presente, con opportune documentazioni, che sono stato messo in questa situazione per volontà di persone e gruppi politici a Lei noti che mi hanno combattuto perché sapevano che, combattendo me, avrebbero danneggiato altri gruppi cui io avevo dato appoggi con tangibili e ufficiali interventi.

E Andreotti non tardò a muoversi in questi termini: si mobilitò per i progetti di sistemazione e sostegno del sistema Sindona così come fecero esponenti piduisti, altrettanto legati all'impero affaristico sindoniano, quali Gelli, Ortolani, Memmo, Spagnuolo e via discorrendo.

Non è certo un caso, affermava Teodori nella sua relazione, che gran parte dei protagonisti del tentato salvataggio di Sindona nel periodo '74-'79 fossero risultati, con la conoscenza delle liste, appartenenti alla P2. Queste persone si collocavano nell'ambito di un medesimo sistema di potere che aveva trovato nel sindonismo una delle forme di esplicazione per cui, fu per loro imprescindibile, anche in termini di completa ufficialità e pubblicità, mobilitarsi per Sindona. Abbiamo parlato di pubblicità, perché è pubblicamente che essi firmarono le dichiarazioni giurate (gli affidavit), nelle quali sottolineavano il carattere persecutorio dell'attività giudiziaria con cui l'operato di Sindona era stato messo al vaglio. Tali dichiarazioni descrivevano Sindona come un perseguitato politico, incriminato per le sue ideologie in un

Paese sinistroide. Queste, ad esempio, le parole di Gelli in merito:

In Italia l'influenza dei comunisti è già giunta in certe aree del governo particolarmente nel Ministero della Giustizia, dove durante gli ultimi cinque anni c’è stato uno spostamento dal centro verso l'estrema sinistra. Io, nella mia qualità di uomo d’affari, sono conosciuto come anticomunista e sono al corrente degli attacchi dei comunisti contro Sindona... Se Michele Sindona dovesse rientrare in Italia non avrebbe un equo processo e la sua stessa vita sarebbe in pericolo256.

Nel '79 poi il finto sequestro, episodio che si era reso necessario a causa dell'impossibilità di risolvere tranquillamente, con l'appoggio dei potenti, la situazione Sindona. La sparizione dagli USA nell'agosto '79 e la permanenza in Sicilia fino all'ottobre da quanto emerso dalle indagini condotte dalla Commissione di inchiesta sul caso Sindona, sarebbero servite ad ottenere, tramite un'intensa attività ricattatoria e minacciatoria, a spronare la classe politica che, secondo il bancarottiere, non aveva fatto abbastanza per concretizzare la sua scarcerazione. Anche in questo caso, Gelli non rimase a guardare, ma partecipò dall'esterno a quella chiassosa messa in scena; numerosi, infatti, i rapporti che il Venerabile intrattenne con il medico Joseph Miceli Crimi, direttamente coinvolto nel falso sequestro.

E ancora, Teodori non dimenticava di inserire, fra gli episodi che dimostravano l'intreccio fra questi ambienti, il ruolo occupato da Gelli nella relazione intercorsa fra Sindona e Calvi e che, in quegli anni, aveva subito un amaro declino. Ricordiamo come Calvi fosse strettamente collegato a Sindona al quale, secondo la tesi di quest'ultimo, doveva gran parte delle sue fortune; questa la ragione per cui il faccendiere si sarebbe aspettato massima intraprendenza da parte del Presidente dell'Ambrosiano, non appena venuto a conoscenza della sua incriminazione. Nel momento della disgrazia, Sindona avrebbe voluto che Calvi corresse in suo ausilio: le imprese condivise erano, per lui, argomento sufficiente per costringere il banchiere a intervenire, eppure Calvi non lo fece mai con grande slancio. É in questo momento che il ruolo di Gelli acquisì nuovamente importanza, in quanto esortò il banchiere a muoversi a favore di Sindona. Questo, tuttavia, non fermò Sindona che, non vedendo materializzarsi alcun salvataggio, ricorse al ricatto attraverso la figura giornalistica di Luigi Cavallo, provocatore sempre al servizio del faccendiere, che sulla rivista Agenzia A attaccò Calvi, rendendo noti i suoi imbrogli finanziari internazionali condotti in combutta con Sindona fino al 1974, oltre ai numeri di conti correnti svizzeri intestati personalmente al 256 Commissione parlamentare sulla Loggia massonica P2, IX Legislatura, M. Teodori, Relazione di minoranza, Legge

del 23 settembre 1981, n. 527, Roma 1984, p. 42. Consultato suhttp://www.laprivatarepubblica.it, in data 1

banchiere ed ai suoi familiari.

Non è inoltre da sottovalutare, sottolineava Teodori, che con la fine dell'avventura siciliana di Sindona, a crollare era stato solo il bancarottiere e non certo il sistema che egli stesso aveva espresso: da quel momento in avanti, l'impero sindoniano, praticamente intatto, sarebbe passato nelle mani dei due successori Gelli e Calvi. Quest'ultimo avrebbe espletato la funzione finanziaria, mentre Gelli sarebbe stato investito dell'incarico di rappresentare la

leadership di quel centro di relazioni ed intrecci. In perfetta linea con la strumentalizzazione

che il Gelli era solito praticare, anche Sindona fu uno strumento nelle mani del Venerabile che riuscì così ad allargare e a rendere più solida quella costellazione di personaggi di primaria importanza. collocati nei gangli strategici dello Stato e delle istituzioni, che si è soliti definire P2.

Una riflessione mai riscontrata nel panorama delle relazioni di minoranza sinora analizzate e presente invece nella relazione di Teodori riguarda i generali Vito Miceli e il Gianadelio Maletti257, entrambi attivi sul palcoscenico dei Servizi segreti negli anni Settanta, l'uno capo

dell'allora SID e l'altro Direttore dell'Ufficio di controspionaggio D, ovvero uno dei settori più importanti del SID. I due generali, rammentava la relazione di Teodori, erano espressione di due correnti interne ai Servizi segreti italiani: Miceli appoggiava un approccio favorevole a svolte autoritarie realizzabile anche attraverso operazioni tipicamente golpiste (per questo lo vediamo presente nelle vicende del golpe di Borghese e del SID parallelo), mentre Maletti poteva essere ricondotto a settori meno rozzi e diretti, probabilmente anche per i suoi legami con i Servizi segreti inglesi, israeliani, tedeschi ed americani. Questa battaglia ideologica interna al SID, acquisiva ancora più rilevanza se accostata alla scena politica italiana del