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Alcune questioni sulla cittadinanza europea delle donne

La cittadinanza sociale alla prova: genere, nuove povertà, disabilità

3 Alcune questioni sulla cittadinanza europea delle donne

Oggi la cittadinanza dei diritti in Europa, in particolare per i diritti sociali, si articola essenzialmente attorno alla definizione del cittadino in quanto lavoratore, cosa che va a confliggere non solo con i cittadini vittime del-la crisi, disoccupati, del-lavoratori precari o in nero, ma anche, e di nuovo, con la dimensione sessuata della definizione di cittadino, poiché le donne statisticamente sono le ‘cittadine’ meno definite come ‘lavoratrici’. Dai trattati di Roma, con la parità salariale, alla Carta di Nizza, ora sussunta dal Trattato di Lisbona, il cittadino che può circolare in Europa vantando dei diritti in ogni Stato in cui va a risiedere è solo il lavoratore e per dei diritti che discendono da questo suo status.6

A questo punto è legittimo chiedersi in primo luogo che senso abbia o che necessità vi sia di definire una cittadinanza europea specifica per le donne. Il fatto è che ci sono argomenti, leggi e diritti che hanno a che fare con un corpo sessuato, nella sua specificità riproduttiva e nei rapporti sociali che ne conseguono. Tutto ciò che riguarda il corpo non può essere neutro, è una costatazione empirica e pone la questione dell’universalità e della neutralità dei diritti. Diventa per questo necessario analizzare la costruzione giuridica di genere, sesso e sessualità e la parzialità di questa costruzione fondata spesso su principi totalmente illiberali e irrispettosi dei soggetti (Tamar Pitch 1998).

Riprendendo una serie di osservazioni sulla legislazione ONU sui diritti umani, si può osservare che solitamente essa prevede oltre ai diritti collet-tivi, che assicurano la tutela contro i genocidi e il saccheggio delle risorse naturali, i diritti soggettivi alla sicurezza, alla libertà, i diritti politici e quelli di Habeas corpus. Inoltre, fondamentali, il diritto al benessere (cioè i diritti economico-sociali) e i diritti di uguaglianza sociale che garantiscono

6 Anche se oggi, in tempi di crisi, anche la libera circolazione dei ‘cittadini lavoratori’ si riduce alla figura dei ‘lavoratori ricchi’, che non costino troppo agli Stati ospitanti, come dimostra l’emblematica vicenda di Silvia Guerra, cittadina italiana (ed europea) espulsa dal Belgio. Per maggiori dettagli e commenti cfr. l’efficace e documentato articolo di Costanza Margiotta La chiamavano Europa... cittadinanza e libera circolazione in tempi di crisi in

uguale accesso alla cittadinanza, uguaglianza di fronte alla legge e abo-lizione delle discriminazioni. Nella Dichiarazione e programma d’azione prodotti dalla Conferenza mondiale sui diritti umani di Vienna del giugno del 1993 si specifica all’art. 18 che:

I diritti umani delle donne e delle bambine sono parte inalienabile, in-tegrale e indivisibile dei diritti umani universali. La piena ed eguale partecipazione delle donne nella vita politica, civile, economica, sociale, culturale, a livello nazionale, regionale e internazionale e lo sradicamen-to di tutte le forme di discriminazione sessuale, sono obiettivi prioritari della comunità internazionale. La violenza di genere e tutte le forme di molestia e sfruttamento sessuale, incluse quelle derivanti da pregiudizi culturali e da traffici internazionali, sono incompatibili con la dignità e il valore della persona umana e devono essere eliminate. Questo obiet-tivo può essere conseguito attraverso strumenti legislativi e attraverso un’azione nazionale e una cooperazione internazionale in campi come lo sviluppo economico e sociale, l’educazione, la tutela della maternità e della salute, i servizi sociali. I diritti umani delle donne dovrebbero costituire parte integrante delle attività delle Nazioni Unite nel campo dei diritti umani, inclusa la promozione di tutti gli strumenti sui diritti umani riguardanti le donne. La Conferenza Mondiale sui Diritti Umani sollecita i governi, le istituzioni, le organizzazioni intergovernative e non-governative a intensificare i loro sforzi per la protezione dei diritti umani delle donne e delle bambine.

Se i diritti civili, politici e sociali sono costitutivi della cittadinanza, la preoccupazione dell’ONU di inserire in modo specifico le donne all’in-terno di una dichiarazione ‘universale’ ne certifica paradossalmente la specificità e ne afferma la condizione di non godimento in quanto corpi sessuati. Anche l’Unione Europea, con la politica che conduce in questo campo, difende i diritti civili, politici, economici, sociali e culturali di tutti, ma insiste giustamente nel promuovere i diritti delle donne, dei bambi-ni, delle minoranze e degli sfollati. Dignità umana, libertà, democrazia, uguaglianza, Stato di diritto e rispetto dei diritti umani sono valori che da sempre sono saldamente ancorati nei trattati dell’UE. Recentemente sono stati rafforzati grazie all’adozione della Carta dei diritti fondamentali (del 2000, vincolante dal 2009).

Ma in Europa si può morire in uno degli Stati in cui il diritto per una donna di vivere non è riconosciuto: il caso della morte per setticemia, in Irlanda, ot-tobre 2012, di una trentunenne di origini indiane, Savita Halappanavar, una settimana dopo la richiesta di aborto – respinta – presentata alla clinica uni-versitaria di Galway, è esemplare. La donna era stata ricoverata alla 17esima settimana di gravidanza con forti dolori alla schiena e un principio di aborto spontaneo, ma i medici, stando al racconto fornito dal marito, si rifiutarono

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di farla abortire finché il feto dava segnali di vita perché – questa la frase riferita – «l’Irlanda è un Paese cattolico» (Pignatelli 2012).

In secondo luogo l’organizzazione sociale e giuridica della cittadinanza

è grandemente diversa tra Stato e Stato nell’Unione, almeno per quanto riguarda i cosiddetti diritti sessuati. Questo pone la necessità che venga sollevato il problema dei limiti della sovranità dei vari Stati in funzione di una cittadinanza che non abbia squilibri elevati quanto al godimento dei diritti. Infatti la Corte Europea per i Diritti dell’Uomo (per il caso della don-na morta di aborto in Irlanda) ha adottato un pressing notevole insistendo perché il Paese – unico insieme a Malta nell’Unione Europea dove, di fatto, l’aborto non è mai ammesso – tuteli la salute della madre. L’Unione Europea ha ben presente il problema di questa grande divaricazione nel godimento dei diritti: infatti, constatando come il congedo di maternità fosse di durata diversa nei vari Paesi, emanò una direttiva (92/85 del 19 ottobre 1992) in cui, tra l’altro si prevedeva un congedo di maternità di almeno 14 settimane prima e post parto, operando così una media tra i diversi periodi di conge-do. Soluzione pilatesca che prendeva in considerazione solo i casi di minor protezione per aumentare il tempo di riposo, senza assumere il benessere delle lavoratrici gestanti come misura primaria. D’altronde, il tentativo della Commissione europea nel 2009 di aumentare il congedo a 18 setti-mane fallì perché molti Paesi giudicarono questo aumento troppo costoso.

Un secondo caso di soluzione ambigua delle disparità risiede nella di-rettiva 96/34/CE del Consiglio del 3 giugno 1996, concernente l’accordo quadro sul congedo parentale concluso dell’Unice, dal Ceep e dalla Ces.7

Sono tre le categorie di congedi per motivi familiari previsti dalle leggi nazionali. La prima è la tradizionale astensione dal lavoro prevista per le donne in maternità. La Direttiva comunitaria 85 del 1992, appena citata, garantisce un minimo di 14 settimane di permesso, ma in realtà in quasi tutti i Paesi il periodo sale perlomeno a 15. Nella maggior parte dei Paesi, lo stipendio pieno prima e dopo il parto è un diritto ormai acquisito. I costi sono sostenuti generalmente dallo Stato o dai sistemi nazionali di sicurezza sociale o, ma solo in Danimarca, direttamente dai datori di lavoro. Il secon-do tipo di congesecon-do è quello di cui i neo padri possono usufruire per alcuni giorni dopo la nascita del figlio, che però non è ancora previsto in tre Stati (Germania, Irlanda e Austria).8 La terza categoria è quella del congedo parentale vero e proprio, utilizzato per accudire un bambino piccolo. Il

7 Gazzetta ufficiale n. L 145 del 19/06/1996, pagg. 0004-0009.

8 In Italia è previsto dalla legge Fornero del 2012. In particolare l’articolo 4 comma 24 lettera a) della Riforma Fornero Legge n. 92/2012 sancisce che in via sperimentale per gli anni 2013-2014-2015 il padre lavoratore dipendente dovrà astenersi dal lavoro per il perio-do di un giorno, entro 5 mesi dalla nascita del figlio, e di ulteriori due giorni di astensione continuativi, goduti in sostituzione alla madre, per i quali è riconosciuta un’indennità gior-naliera a carico INPS pari al 100% della retribuzione.

numero delle donne e degli uomini che usufruiscono di questo permesso è notevolmente aumentato in tutta Europa negli ultimi anni, ma permangono ancora numerosi problemi, come, a esempio, il fatto che in ben sei Stati (Grecia, Irlanda, Olanda, Portogallo, Spagna e Gran Bretagna) questo tipo di congedo non è retribuito in alcun modo. L’Italia è uno dei Paesi dove il compenso durante il periodo di astensione dal lavoro è più basso (30% dello stipendio), mentre in Danimarca, Svezia, Slovenia e Norvegia i lavoratori possono usufruire di un compenso pari al 90 o al 100% della paga. Inoltre, sono ormai numerosi gli Stati dove gli uomini possono richiedere il congedo parentale per badare ai propri figli, anche adottivi, fino a otto anni di età o oltre in caso di malattia. L’Italia e i quattro Paesi scandinavi sono, infine, gli unici Stati europei dove è possibile per i genitori alternarsi nei congedi parentali. Inoltre in molti Paesi, fra i quali l’Italia, i lavoratori a tempo par-ziale non possono chiedere il congedo parentale. Inoltre, nonostante che la Direttiva europea punti a un aumento dei permessi per gli uomini, le norme nazionali pongono così tante restrizioni che in pratica sono in gran parte le donne a doversi assentare dal lavoro per badare ai bambini. In effetti in Europa la cura della famiglia continua a pesare sulle spalle delle donne e un po’ dappertutto sono soprattutto le donne ad assentarsi dal lavoro dopo la nascita di un bambino. L’atteggiamento ostile di molti datori di la-voro verso chi chiede tali congedi rimane un forte deterrente, cosicché gli uomini non ne usufruiscono per paura di vedere compromesse le proprie possibilità di carriera, mentre numerose donne lamentano discriminazioni al proprio ritorno da un’assenza per maternità oltre alle discriminazioni nelle assunzioni per le donne in età fertile. Ci troviamo di fronte ad una doppia differente cittadinanza dei diritti: quella tra lavoratrici e lavoratori per quanto riguarda le politiche sociali e il diritto al lavoro in tema di ri-produzione della specie nei singoli Stati e quella tra lavoratrici e lavoratori residenti nei diversi Stati d’Europa.

In terzo luogo mi sembra necessario porre la questione di come si possa

immaginare una cittadinanza europea delle donne partendo dagli attuali disequilibri nel godimento dei diritti. Una ricerca fatta da giuriste france-si (Choifrance-sir la cause des femmes, 2008) di qualche anno fa proponeva una soluzione pratica, che non necessitava di particolari elaborazioni. Non si trattava di cercare nei settori che riguardano direttamente le donne o i rapporti tra i sessi innovazioni difficili da proporre, gestire politicamente e far approvare dal livello comunitario agli Stati nazionali, ma, partendo dalle leggi ‘esistenti’ in alcuni Stati, assumere come universali per tutti i Paesi dell’Unione quelle che maggiormente potessero dare un segno di libertà per le donne stesse, facendole rientrare nei parametri di una cittadi-nanza europea. Le soluzioni trovate possono essere discusse, ma il metodo potrebbe essere efficace. Di seguito vorrei portare due esempi, uno sulla violenza di genere e l’altro relativo alla libera disponibilità del proprio cor-po in tema di riproduzione della specie. Questi due esempi investono campi

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specifici, ce ne sono molti altri, per esempio nel campo dei diritti famigliari o relativi al lavoro, campi amplissimi dove i casi esemplari non mancano.

4 Due esempi di possibili soluzioni immediate: violenza domestica