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L'attacco neoliberista ai diritti sociali

della cittadinanza sociale

3 L'attacco neoliberista ai diritti sociali

L’attacco neoliberista allo ‘Stato sociale’ e alla cittadinanza sociale da stri-sciante che era stato fino ad allora, è divenuto più violento e sistematico a partire dalla crisi di metà anni Settanta. Le condizioni di questo salto di qualità erano state da lungo preparate sul terreno ideologico con il rilancio dell’utopia, o – se si preferisce – della colossale menzogna, del mercato che si auto-regola e sa fare magicamente coincidere, se lo si lascia fare,

l’utilità privata, il guadagno privato, il profitto privato, e l’interesse pub-blico. La condizione fondamentale, al contempo necessaria e sufficiente, è che all’individuo, all’individuo proprietario dei mezzi di produzione, al capitalista, che per il liberalismo classico e il neoliberismo è il prototipo dell’individuo, sia lasciata la massima libertà di movimento. Più questa è garantita, inclusa la possibilità di abusarne (secondo il precetto formulato in età classica da B. Constant); più questa libertà è esercitata senza inter-ferenze da parte di altri, in particolare da parte dei pubblici poteri e della ‘collettività’; più efficace sarà nel produrre insieme benessere individua-le e sociaindividua-le. Questa concezione ultraindividualistica della natura umana, dell’economia e dei rapporti sociali tra gli esseri umani non poteva che assumere a suo primo bersaglio, fin dal suo atto fondativo avvenuto con

Socialismo di von Mises (von Mises 1990, la cui prima redazione risale

al 1922), i diritti dei lavoratori, inclusi ovviamente i diritti ‘sociali’ da loro conquistati.

Ed ecco quindi, ancor prima che venisse a conformarsi il welfare state postbellico, una critica demolitiva, se non una vera e propria demonizza-zione della politica sociale volta a conferire una qualche tutela legale ai salariati, a cominciare dalla legislazione del lavoro. Secondo von Mises, la regolamentazione per legge degli orari di lavoro, i limiti legali al lavoro di notte e al lavoro femminile, la graduale eliminazione del lavoro dei fan-ciulli, o sono il portato naturale dello sviluppo dell’industria, e quindi è tale sviluppo a doverne stabilire tempi e modi, oppure – quando siano decisi nei tempi e nei modi dall’intervento dello Stato per venire incontro alle rivendicazioni del movimento operaio – producono solo effetti distruttivi per tutta la società, quindi anche per gli stessi lavoratori, poiché riducendo la quantità di lavoro prestata, riducono l’ammontare totale della ricchez-za sociale prodotta (p. 517). Peggio ancora va per l’assicurazione sociale obbligatoria sugli incidenti, le malattie o la vecchiaia, perché essa «rende la gente malata fisicamente e mentalmente o la spinge ad esagerare, pro-lungare o intensificare la propria malattia», e trasforma le nevrosi degli assicurati in «una pericolosa malattia pubblica» (p. 524). Un’arma ancor più letale del ‘distruttivismo’ è l’assicurazione contro la disoccupazione, ossia l’insieme delle misure di sostegno e assistenza ai disoccupati, che lungi dal proteggere i disoccupati, è invece «la causa principale che ha reso la disoccupazione un fenomeno permanente». Infatti se non esistesse, i lavoratori rimasti disoccupati ridimensionerebbero le proprie ‘pretese’ e sarebbero disposti a «cambiare la propria residenza e la propria occupazio-ne» obbedendo ai comandi del mercato. Ma se non si consente al mercato di dislocare liberamente e ridislocare di continuo altrettanto liberamente la forza-lavoro, è inevitabile che si venga formare una «permanente disoc-cupazione di massa»; e il responsabile di tutto ciò «non è il capitalismo ma la politica, che paralizza il funzionamento dell’economia di mercato» (p. 534). Altrettanto perniciose sono le nazionalizzazioni o

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zioni delle poste, del gas, dell’acqua, dell’energia elettrica, del sistema tranviario delle grandi città, dal momento che in tutti i rami e in tutti i casi sono le imprese private le sole in grado di generare progressi tecnici e organizzativi. In questa lista di mali sociali, di danni arrecati a tutte le componenti della società, va inserita, ovviamente, la politica fiscale quan-do incida in qualche moquan-do sul capitale e sulla proprietà in genere, perché sottrae risorse alla formazione e all’accumulazione del capitale evolvendo «sempre più in una politica di confisca» (p. 541). Ma secondo von Mises «la vera tragedia dell’era capitalistica» è la diffusione della convinzione che «nell’ambito di un’economia di mercato, il lavoro possa ottenere una più alta e duratura remunerazione ricorrendo all’associazionismo e alla contrattazione collettiva» (p. 525), è l’avere consentito su queste basi la formazione e lo sviluppo dei sindacati e del sindacalismo. La «politica dello sciopero, della violenza, del sabotaggio», tipica delle organizzazioni sindacali che molto somiglierebbero, a suo dire, ai tiranni di un tempo, ha finito per «scuotere dalle fondamenta l’edificio, abilmente costruito, dell’e-conomia capitalistica; un edificio in cui tutti, dal più ricco al più povero, vedono continuamente crescere la loro parte» (pp. 529-530).

Gli altri membri della Société du Mont-Pèlerin13 e le istituzioni che si sono incaricate di socializzarne e popolarizzarne i temi, dal Congresso per la Libertà della Cultura alla Fondazione Rockfeller, dall’Adam Smith Institute all’Institute of Economic A ffairs alla Heritage Foundation alla Fondazione che assegna i premi Nobel (Harvey 2007), non hanno aggiunto gran che a questa organica ripulsa di ogni interferenza sociale e politica, tanto più se collettiva, nel funzionamento spontaneo dei meccanismi propri del capi-talismo. Si può solo notare che, essendo scomparsa l’immediata minaccia del socialismo, il neoliberismo degli anni Settanta ha concentrato i suoi strali contro la pianificazione e contro ogni forma di intervento statale in economia e in materia di politica sociale, di cittadinanza sociale. E l’ha fatto imputando tutti i mali della crisi, inflazione, disoccupazione, processi di indebitamento, ecc., agli ‘irrazionali’ tentativi di ‘regolazione statale’ o sindacale dell’economia, del mercato del lavoro, dei prezzi, esigendo il loro completo smantellamento. Tipico il ragionamento svolto da von Hayek sulla disoccupazione. I sindacati, sostiene costui, hanno impedito il libero gioco della domanda e dell’offerta nella determinazione dei prezzi in generale, dei salari in particolare. In nome di cosa? Di fatue, insignificanti considera-zioni relative alla ‘giustizia sociale’. In questa maniera si è tolta al mercato la sua naturale funzione-guida, sicché il lavoro non è stato più indirizzato dal mercato là dove poteva essere venduto ai prezzi ‘ragionevoli’ definiti dal mercato stesso. E la conseguenza inevitabile è stata il crescere della

13 Tra i membri più famosi della Conferenza tenutasi a Mont-Pèlerin dal 1° al 10 aprile 1947, ci sono M. Allais, M. Friedman, S. de Madariaga, K. Popper, W. Rappard, L. Robbins, G. Stigler: Page Deux, octobre 1996, con scritti di P. Anderson e Ch.-A. Udry.

disoccupazione. Per invertire la tendenza e riassorbire la disoccupazione,14

c’è una sola via percorribile: togliere di mezzo ogni ostacolo al libero fun-zionamento del libero mercato (von Hajek 1991, pp. 316-355).

Con il mancato psicologo von Hayek l’esaltazione del benefico potere auto-regolatore del mercato assume toni mistici. Apprendiamo infatti che il miglior uso possibile delle risorse è guidato da una sorta di misterioso ‘remoto controllo’ a distanza che gli individui eserciterebbero gli uni sugli altri in modo spontaneo, non deliberato, quando interagiscono tra loro usando per i propri scopi privati le informazioni limitate di cui ciascuno di essi dispone. A produrre questo miracolo sarebbe il sistema dei prezzi, l’unico meccanismo che trasmette le informazioni e permette ai singoli in-dividui di adattarsi alle condizioni di cui non sanno nulla. Questa telepatica interazione virtuosa – virtuosa perché alla fine produce ordine, equilibrio, benessere, crescita per tutta la società – può produrre i suoi effetti solo a condizione che ogni individuo (leggi: il vero individuo, l’imprenditore, il capitalista) venga lasciato completamente libero di perseguire il proprio privato interesse, perché solo il perseguimento di finalità private è in grado di produrre incentivi utili anche agli altri. Per contro ogni intervento volto a modificare questa dinamica in nome di principi ‘sociali’, è del tutto insen-sato, irrazionale. Solo l’attività economica privata e volta all’utilità privata è razionale, solo l’individuo singolo (leggi ancora: l’imprenditore, il capi-talista) è in grado di pensare e di agire razionalmente (von Hayek 1945).

E lo Stato? Dovrà forse scomparire? Nulla del genere. Il liberalismo, sostiene a ragione von Hayek, «non è mai stato contrario allo Stato co-me tale». Si tratta solo di indicare quali sono le sue ‘adeguate funzioni’: battere moneta, esercitare il monopolio legittimo della forza all’inter-no e all’estero, fissare regole formali ‘uguali per tutti’ e amministrarne l’applicazione. Si devono, per contro, costruire forti argini contro le sue possibili prevaricazioni in campi che debbono restare di esclusiva compe-tenza del mercato, del capitale. E poiché questi limiti sono stati da svariati decenni ampiamente superati, si deve privatizzare e ‘liberalizzare’ tutto ciò che è stato indebitamente reso ‘pubblico’ e posto sotto il ‘controllo’ dello Stato. Non è questo il luogo in cui contestare uno per uno i dogmi di questa ‘barbara religione’ nella quale il ‘dio nascosto’, mai nominato come tale perché nominarlo è diventato un tabù, non è altri che il capitale; una religione che esalta e consacra la sottomissione incondizionata degli esseri umani che lavorano al prodotto del loro stesso lavoro; che esalta e

14 Cosa decisamente fattibile per i neoliberisti in quanto nel capitalismo il lavoro è un ‘bene scarso’, per cui «ci sarà sempre una domanda di lavoro non soddisfatta» (von Mises 1990, p. 532), una panzana stratosferica! La tradizionale indifferenza dell’economia politica per gli esseri umani in carne ed ossa, leggi: per i lavoratori, tocca con i pontefici massimi del neoliberismo vette di cinismo estreme.

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consacra, per dirla con Bihr, «il vampirismo del capitale».15 Neppure è il caso di contestare qui la falsa raffigurazione del mercato, che di questa religione è propria, come grande equilibratore, fattore di armonia, presi-dio di libertà per tutti, liberatore della violenza, e quant’altro di benefico si possa immaginare, laddove al centro della ‘economia di mercato’ c’è la compravendita della forza-lavoro, la disuguaglianza più radicale (per usare questo termine sempre insoddisfacente perché quantitativo) ovve-ro il rapporto di dominio e di sfruttamento vigente nella relazione tra i proprietari dei mezzi di produzione e chi può disporre solo ed unicamente della propria capacità di lavoro. Una relazione che produce insicurezza e soggezione per i lavoratori; che, anche se non comporta catene fisiche e necessario spargimento di sangue, è comunque una relazione intrinseca-mente violenta, perché la massa dei salariati è costretta dalla propria con-dizione sociale, dalla divisione sociale del lavoro, a vendere, ad alienare ad altri (‘all’Altro’) la propria energia e capacità di lavoro, il proprio tempo di vita, la propria autonomia, la propria libertà. Non è neppure possibile esaminare qui la continuità/discontinuità che esiste tra la religione, o – se si preferisce – l’ideologia neoliberista, propria della fase del capitale glo-bale ultraaccentrato, e il liberalismo economico e politico, e l’economia politica classica del periodo storico nel quale il capitalismo nascente e la giovane borghesia ascendente hanno svolto un ruolo rivoluzionario. Mi interessa, invece, andare a vedere quali effetti essa ha prodotto là dove si è tramutata in politica di Stato – già, perché questa fanatica idolatria del mercato, contraddicendo in modo clamoroso la propria demagogia ben sintetizzata nello slogan ‘meno Stato, più mercato’, ha assegnato proprio agli Stati, allo Stato, il compito centrale nell’aggressione ai diritti sociali e politici dei lavoratori.

Lo farò richiamando molto brevemente, per l’Europa,16 il caso britannico e quello italiano. I confini di questo saggio non consentono di andare oltre, e di esaminare gli effetti dell’attacco neoliberista su tutte le diverse forme del welfare state europeo, oltre l’anglo-sassone e la mediterranea anche la nordica e la continentale (per ricorrere agli stereotipi correnti); ma mi permetto di dare per scontato che nessuna di esse è rimasta indenne, nep-pure quella scandinava, su cui porterò qualche elemento più oltre.

15 Bihr 2007, p. 146. Questo A. giustamente osserva che la religione del neoliberismo ha fondato e diffuso una ‘neolingua’ di stampo orwelliano nella quale le parole vengono usate in modo rovesciato rispetto alla realtà cui si riferiscono, sicché l’eguaglianza è, in realtà, la diseguaglianza; la libertà è, in realtà, il monopolio; la proprietà è, in realtà, la espropria-zione; la flessibilità è, in realtà, il nome accattivante della più brutale precarietà; la riforma denomina le controriforme, e così via.

16 Ma non può essere dimenticato che i primi ‘esperimenti’ di messa in pratica del credo neoliberista sono stati fatti, non a caso, nel Cile della dittatura militare di Pinochet e in altri Paesi del Sud del mondo (Messico, Argentina, Perù, Venezuela, ecc.) schiacciati sotto il tallone di ferro dei piani di ristrutturazione del FMI: Chossudovsky 2003.

Sotto il lungo regno thatcheriano/blairiano (1979-2007) trascorso all’in-segna del neoliberismo d’assalto prima e del neoliberismo leggermente temperato, poi, la Gran Bretagna è profondamente cambiata e proprio nella direzione prevista da T.H. Marshall. Con l’avvento al potere di M. Thatcher ha preso corpo in Europa, nel Paese che era stato la culla del

welfare state postbellico, un nuovo ‘modello di società’, che ha puntato

a modificare tanto le condizioni economiche e sociali, quanto la struttu-ra giuridico-istituzionale esistente per renderle entstruttu-rambe coerenti con il ‘modello liberista’, rafforzare ‘la libertà del mercato’, cioè il potere dei capitali più concentrati che lo dominano, e indebolire le difese (i celebrati diritti...) dei salariati a fronte dello strapotere delle mega-imprese e degli Stati. L’agenda thatcheriana prevedeva, tra l’altro:

1) la privatizzazione di praticamente tutto ciò che era stato mantenuto sotto il controllo statale nel periodo laburista;

2) la riduzione e anche l’estinzione del capitale produttivo statale; 3) lo sviluppo di una legislazione che ha fortemente deregolamentato le

condizioni di lavoro e precarizzato i diritti sociali;

4) l’approvazione da parte del Parlamento dominato dai conservatori di un insieme di atti che hanno limitato pesantemente l’azione sin-dacale, puntando a distruggere un po’ tutto, dalle solide basi che gli

shop steward avevano nelle fabbriche fino alle forme più stabili della

contrattazione tra capitale, lavoro e Stato espresse, per esempio, nelle negoziazioni collettive. (Antunes 2006, p. 87)

Questa agenda non è rimasta sulla carta. Al contrario, la sua messa in pratica è stata talora più estrema delle sue stesse formulazioni program-matiche. Mi limiterò ad osservarla sotto il solo aspetto delle ‘politiche del lavoro’ (ovvero: contro il lavoro) che, è assai curioso, non hanno un posto né rilevante, né chiaro nell’opera di T.H. Marshall,17 mentre sono, a mio avviso, il fattore-chiave del processo di ampliamento o di riduzione dei diritti di cittadinanza sociale. Lo sono perché incidono su quella che è la forza sociale determinante nella acquisizione e nella difesa dei diritti di cittadinanza: i lavoratori salariati.

La guerra aperta scatenata dalla Thatcher nel 1984-’85 contro i minatori e il NUM, il loro forte e militante sindacato, è stata solo il momento culmi-nante di un processo di vasta soppressione dei posti di lavoro nell’industria britannica, crollati dai 7 milioni del 1979 ai 3,7 milioni del 1995, che ha colpito la spina dorsale del movimento dei lavoratori in quel Paese. Altri colpi sono stati assestati attraverso una raffica di limitazioni alla

contrat-17 Si può osservare, ad esempio, com’è redatto il quadro riassuntivo dei diritti civili, poli-tici, sociali a p. 9 del suo testo.

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tazione collettiva, in specie agli scioperi, con il divieto di quelli di solida-rietà, la moltiplicazione degli intralci burocratici alla loro proclamazione e ai picchetti operai, l’intromissione governativa nelle casse sindacali, la limitazione dei closet shop in cui erano garantiti i diritti di iscrizione al sin-dacato. Questo attacco ha innescato un vero e proprio tracollo dei livelli di sindacalizzazione, precipitati in poco più di trent’anni dal 55% della forza lavoro nel 1979 al 26,5% di oggi.18 Non è eccessivo parlare, con Antunes, di un «sistematico boicottaggio«dell’azione sindacale con lo scopo di imporre una «negoziazione individualizzata«tra capitale e lavoro, che in un conte-sto di crescente disoccupazione e deindustrializzazione quale quello degli anni Ottanta, non può significare altro che il rafforzamento del potere di disposizione unilaterale del capitale sul lavoro. Nella medesima direzione è andata anche l’apertura agli investimenti di capitali stranieri nell’indu-stria che attraverso l’importazione delle pratiche toyotiste ha spianato la strada alla disorganizzazione dei lavoratori nei luoghi di lavoro. Anche in questo la Gran Bretagna è stata battistrada in Europa con gli insediamenti della Nissan Motor Manifacturing e della Ikeda Hoover, dove è stato mes-so in atto un ‘sistema di comunicazione’ diretto tra direzioni aziendali e lavoratori, senza la ‘interferenza’ delle strutture sindacali, e le prestazioni lavorative sono state fortemente intensificate anche attraverso la prassi consolidata in Giappone dell’‘auto-controllo’ e della ‘auto-subordinazione’ dei lavoratori agli obiettivi aziendali. A partire da queste due ‘isole’ questa nuova organizzazione del lavoro che ha limitato drasticamente i diritti operai nelle fabbriche, si è espansa ad altri settori dell’industria britanni-ca, facendo della Gran Bretagna, negli anni Ottanta e Novanta, «il Paese nel quale le condizioni di lavoro si sono più deteriorate, se comparate agli altri Paesi dell’Unione Europea», il Paese europeo occidentale dagli orari di lavoro più prolungati (Antunes 2006, p. 114; Basso 1998, pp. 51-52). Se volessimo adottare la tripartizione dei diritti operata da T.H. Marshall, dovremmo dire che con il thatcherismo sono stati ristretti i diritti sociali dei lavoratori, ma lo sono stati anche i loro diritti civili e politici, quanto meno nei luoghi di lavoro. Sul piano dei diritti di cittadinanza, quindi, si è andati indietro in tutti i campi.

L’avvento di Blair e del blairismo non ha cambiato nulla di sostanziale. In certi casi vi è stato un parziale alleggerimento delle misure thatcheria-ne, ma in altri vi è stata perfino una loro intensificaziothatcheria-ne, ad esempio in materia di contratti di lavoro precari, di limitazione dei diritti sociali delle madri nubili e dei portatori di handicap fisici, o di misure repressive con-tro la marginalità sociale, fino all’istituzione di vere e proprie carceri per i minori di anni 14.

18 Il colpo più terribile l’ha subìto proprio il NUM (National Union of Mineworkers) preci-pitato dai 257.000 membri del 1979 agli 8.000 degli anni Novanta.

In Italia l’aggressione ai diritti acquisiti dei lavoratori è partita dopo, ma è andata altrettanto in profondità. Anche in questo caso l’opera è stata rigorosamente bipartisan. Limitandoci questa volta al solo mercato del lavoro, possiamo individuare quattro passaggi-chiave. Il primo è stato l’accordo del 23 luglio 1993 tra il governo Spadolini e i sindacati, che ha aperto la porta sia al lavoro a tempo determinato che, soprattutto, al la-voro interinale o in affitto. Il secondo passaggio-chiave è avvenuto con il cd. ‘pacchetto Treu’ del 1997, che ha normato il lavoro interinale, sebbene inizialmente solo come forma di lavoro temporaneo, fino a quel momento vietata esplicitamente da una legge del 1960. È stata spalancata la porta, così, all’ingresso in Italia delle agenzie di lavoro interinale, legalizzando il caporalato organizzato con la pratica soppressione dei vecchi uffici pub-blici di collocamento e la generalizzazione della intermediazione privata di manodopera. Nello stesso ‘pacchetto’ è stata introdotta la flessibilità degli orari attraverso l’orario pluriperiodale che consente di praticare le 40 ore su base annua, con variazioni in più o in meno a seconda dei periodi. Un vero e proprio salto di qualità nella precarizzazione dei rapporti di lavoro, è questo il terzo passaggio-chiave, si è realizzato con la legge 6 settem-bre 2001 che ha liberalizzato del tutto i contratti a termine, consentendo di ripeterli senza fine, e ha introdotto altre tipologie di quelli che allora venivano definiti ancora ‘contratti atipici’, ma stavano diventando sempre meno tali.

Con la legge 30 del 2003 (la cd. legge Biagi), quarto passaggio, tutto questo processo di deregolamentazione governativa, parlamentare, sta-tale del mercato del lavoro è stato radicalizzato e canonizzato. L. Gallino ha parlato impropriamente di ri-mercificazione del lavoro, perché il lavoro salariato non ha mai cessato di esser una merce anche quando, come negli anni Sessanta e Settanta, è riuscito a conquistare alcune tutele legali e con-trattuali; ma si è distinto dalla generalità, o quasi, degli studiosi per avere criticato senza mezzi termini l’ideologia della ‘flessibilità’ e la valanga di provvedimenti tesi a metterla in pratica (Gallino 2007). Sulla legge Biagi