• Non ci sono risultati.

La cittadinanza sociale delle donne e la gestione dei cicli di vita in Italia

il genere fa la differenza?

4 La cittadinanza sociale delle donne e la gestione dei cicli di vita in Italia

Il tema della cittadinanza sociale delle donne si collega a due aspetti, intrecciati, rileva Saraceno (2008, p. 604): da un lato, la condizione di indipendenza dai legami, «in primis dai legami che discendono dalla di-pendenza altrui»; dall’altro, la condizione di didi-pendenza economica che deriva dall’assunzione, spesso totalizzante, della responsabilità della di-pendenza altrui. È proprio su questa didi-pendenza, sottolinea Saraceno, che si è strutturato il diritto di famiglia in Italia e con esso il disconoscimento del valore del lavoro di cura. Ancora Saraceno (pp. 604-605) pone in luce un apparente antinomia: il corpo, il corpo sessuato e riproduttivo delle donne è una risorsa privata ma anche pubblica. Il lavoro di riproduzione sociale si articola in diversi compiti: lavoro domestico, lavoro riproduttivo e lavoro di cura. Esso è difficilmente contabilizzabile proprio in relazione allo scambio immateriale e simbolico che viene generato. In questa dire-zione, l’introduzione di macchine e apparecchi elettronici per la riduzione del lavoro domestico e l’affidamento a terzi del lavoro di cura possono solo ridurre il carico complessivo del lavoro di riproduzione sociale: esso, tuttavia, è ineliminabile. Non solo esso è ineliminabile, evidenzia Federici (2012), ma vi sono seri limiti a una sua riduzione o riorganizzazione at-traverso il ricorso al mercato. La defamilizzazione del lavoro riproduttivo, continua Federici, attraverso il ricorso a servizi privati sta scaricando su altre donne la gestione del lavoro riproduttivo e contribuisce a creare nuove disuguaglianze tra donne (Federici, pp. 110-111). Proprio per

que-Trasformazioni e crisi della cittadinanza sociale

174 Toffanin. La cittadinanza sociale delle donne in Italia: il genere fa la differenza?

sta caratteristica propria del lavoro riproduttivo, sottolinea Saraceno, le donne hanno conosciuto maggiori difficoltà a vedersi riconosciuto l’habeas

corpus, a ottenere le garanzie a tutela delle libertà personali, a partire

dal controllo del proprio corpo e della propria integrità fisica.1 Per queste ragioni risulta difficile ipotizzare una spiegazione meramente culturalista delle diseguaglianze esistenti tra uomini e donne, riconducibile alla sedi-mentazione degli stereotipi di genere e alla loro riproduzione nel tempo. Saranno, pertanto, esaminate le diverse tappe del processo di inclusione selettiva che il sistema patriarcale ha imposto e tuttora impone alle donne italiane.

4.1 Le discriminazioni nell’accesso al lavoro

Le discriminazioni nell’accesso al lavoro costituiscono un elemento per-sistente della società italiana, specie a partire dal Novecento, quando i cambiamenti economici e sociali in corso stimolano la maggiore presenza delle donne nel lavoro retribuito. In tale direzione, va ricordato il ruolo che il regime fascista ha giocato nella demarcazione delle divisioni di genere: nel 1923, con la riforma Gentile, attraverso la quale si limita la frequen-za scolastica delle donne, riducendo il numero degli istituti magistrali e introducendo il liceo femminile triennale che non permette l’accesso agli studi universitari. Ancora, nel 1939, il varo della Carta della scuola, pre-sentata da Giuseppe Bottai, che introduce gli istituti femminili secondari, finalizzati alla specifica formazione di casalinghe e insegnanti delle scuole materne. Senza tralasciare la previsione di un maggior importo delle tasse di iscrizione alle scuole superiori per le ragazze (Willson 2011, pp. 123-124). L’esercizio del confinamento delle donne italiane da parte dello Stato non ha termine con la fine della Seconda guerra mondiale. Nel secondo dopoguerra, infatti, il miracolo economico e la grande richiesta di forza la-voro maschile, a tempo pieno, nelle fabbriche del Nord, si sostengono, nei fatti, sul pieno asservimento delle donne al lavoro domestico e di cura. Fino agli anni Cinquanta le riviste cattoliche non solo avvalorano la famiglia patriarcale ma legittimano pure la violenza domestica mentre fino al 1971 rimase in vigore l’articolo 553 del Codice penale che vieta la diffusione

1 Si confronti l’art. 13 della Costituzione Italiana: «La libertà personale è inviolabile. Non è ammessa forma alcuna di detenzione, di ispezione o perquisizione personale, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dell’Autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge. In casi eccezionali di necessità ed urgenza, indicati tassativamente dalla legge, l’autorità di Pubblica Sicurezza può adottare provvedimenti provvisori, che devono essere comunicati entro quarantotto ore all’Autorità giudiziaria e, se questa non li convalida nelle successive quarantotto ore, si intendono revocati e restano pri-vi di ogni effetto. È punita ogni pri-violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà. La legge stabilisce i limiti massimi della carcerazione preventiva».

di informazioni sugli anticoncezionali (p. 220). Va poi ricordata la pratica delle dimissioni in bianco: l’impegno chiesto alla lavoratrice da parte del datore di lavoro di dare le dimissioni in caso di matrimonio, nonostante già negli anni Cinquanta fosse stata varata una legge a protezione della maternità.2

In Italia lo sviluppo del tessuto industriale non si accompagna, come invece accade in altri Paesi europei, né all’aumento del settore terziario privato né alla maggiore offerta di posti di lavoro da parte dello Stato. La distribuzione commerciale, fino agli anni Ottanta del secolo scorso, è atta-gliata alla piccola dimensione, spesso a gestione familiare e non contempla elevate opportunità di impiego per le donne. Non solo, altri tre aspetti vanno considerati: il ruolo marginale del lavoro a tempo parziale come leva per l’aumento dell’occupazione femminile; lo squilibrio Nord-Sud e l’assenza di effettive possibilità occupazionali per le donne di molte aree italiane; la tardiva e carente offerta di posti di lavoro nei settori della cura. Mentre in molti Paesi europei, sia le imprese private sia gli enti pubblici, offrono possibilità di occupazione a tempo parziale, in Italia, questa tipo-logia contrattuale si afferma con molto ritardo, costringendo molte donne, impossibilitate ad appoggiarsi a reti parentali per il lavoro di cura, e in as-senza di servizi pubblici, a restare nell’area dell’inattività o del sommerso. Nelle Regioni meridionali le limitate opportunità occupazionali nel settore industriale hanno, di fatto, concentrato l’offerta di lavoro nella Pubblica Amministrazione che ha, però, privilegiato la forza lavoro maschile, a tutto svantaggio di quella femminile. La delega operata dallo Stato italiano alle donne in relazione al lavoro di cura ha poi disincentivato la creazione di posti di lavoro nello stesso ambito e contribuito a deprimere la potenziale domanda di servizi pubblici e privati. Nel secondo dopoguerra, in linea con una lunga tradizione mai abbandonata, lo Stato italiano, come evidenziano i dati riportati in tabella 1, non ha investito nella spesa sociale, delegando alle famiglie, ma solamente alla componente femminile, tutti gli oneri con-nessi al lavoro riproduttivo.

Trasformazioni e crisi della cittadinanza sociale

176 Toffanin. La cittadinanza sociale delle donne in Italia: il genere fa la differenza?

Tabella 1. Spese del bilancio dello Stato, per interventi nel campo sociale (percentuale sul totale della spesa pubblica)

Anni Percentuale di spesa

1910 1,7 1920 4,7 1930 6,6 1940 7,3 1950 12,1 1960 12, 1970 18,6 1980 21,5 1990 20,8 2000 18,4 2009 16,3

Fonte: Ministero dell’Economia e delle Finanze

Nel lungo periodo si è, così, strutturata la gestione informale della cura sia per i bambini in età scolare sia per gli adulti non autosufficienti, a carico delle donne e delle famiglie, con l’effetto di rafforzare un «famili-smo ambivalente» (Saraceno 1994) che combina elementi di dipendenza e solidarietà che, poiché gravano unicamente sulle donne, riproducono il modello del maschio adulto procacciatore di reddito e pregiudicano l’au-tonomia economica delle donne.

4.2 L’impervio tentativo di bilanciamento tra tempi di vita e tempi di lavoro3

Se l’accesso al lavoro è problematico – a causa della persistenza degli stereotipi di genere, diventati senso comune e determinanti nella fase di selezione – il bilanciamento dei tempi di vita e di lavoro lo è in misura ancora maggiore. La rappresentazione della madre prolifica di matrice fascista non ordina più i destini riproduttivi delle donne italiane come fino agli anni Sessanta del Novecento: i movimenti femministi nati attor-no al tema della salute riproduttiva della donna hanattor-no poi diffuso

prati-3 Ho deciso di non utilizzare il termine ‘conciliazione’ poiché ritengo che la mediazione tra tempi di vita e tempi di lavoro per le donne, e per quelle italiane in particolare, non abbia nulla di conciliante ma sia, invece, l’esito sofferto di una contrattazione di coppia o di un percorso individuale che spesso, in virtù delle disparità retributive e di avanzamento lavorativo/professionale, determini la generale riduzione di possibilità di scelta per le donne.

che di gestione della sessualità attente al controllo del corpo. Dagli anni Settanta, in particolare, la secolarizzazione, l’accresciuta mobilità terri-toriale, l’aumento dell’istruzione terziaria e la maggiore socializzazione extradomestica hanno imposto alle donne italiane il confronto con culture riproduttive e stili di vita eterogenei spesso molto distanti dall’archetipo della famiglia patriarcale, nella quale gli uomini dovevano occuparsi del reddito e le donne solamente del focolare domestico. Tuttavia, nonostante i cambiamenti intervenuti nella struttura familiare e in quella economica lo Stato italiano, sottraendo risorse alla spesa sociale, di fatto, continua ad imporre alle donne con responsabilità di cura variabili alternative tra: a) la totale dipendenza dal reddito del coniuge/compagno e il completo

assolvimento del carico del lavoro domestico e di cura;

b) la parziale partecipazione al lavoro retribuito e il maggior carico ri-produttivo;

c) la piena partecipazione al lavoro retribuito con sospensioni o modifi-che dell’orario di lavoro sulla base del carico di cura;

d) la piena partecipazione al lavoro retribuito e la variabile terziarizza-zione del lavoro domestico e di cura.

Lungo questa direzione, alcune questioni vanno riconsiderate, in termini critici: la maggior presenza delle donne nei luoghi decisionali non ha par-ticolarmente favorito – come auspicato dalle sostenitrici della rappresen-tanza qualificata, sulla base dell’appartenenza di genere – il miglioramento delle condizioni delle donne. A dimostrarlo: la difficile implementazione della legislazione che dagli anni Ottanta ha interessato il bilanciamento dei tempi di vita e di lavoro e la sostanziale continuità delle discrimina-zioni presenti nei luoghi di lavoro e nella società nel suo complesso. Basti pensare alla pervicace specularità che accompagna l’occultamento del lavoro riproduttivo e la gravosa condizione delle donne lavoratrici con responsabilità di cura. La rappresentanza femminile in politica e nelle or-ganizzazioni sindacali e datoriali sembra, quindi, aver agito secondo una logica di riduzione degli effetti negativi connessi al radicato sistema di discriminazioni che a più livelli agisce nei confronti delle donne. Tuttavia, questa logica non solo non ha intaccato il perdurante e radicato dominio maschile, ma all’interno delle stesse organizzazioni ha contribuito a ripro-durre logiche androcentriche, più attente alle esigenze di continuità dello scambio di mercato che alla tematizzazione del riconoscimento del lavoro di riproduzione sociale. La stessa legge n. 53 del 2000, seppur sostenuta da un impianto innovativo, finalizzato a ridiscutere «i tempi di lavoro, di cura, di formazione e di relazione»,4 nei fatti, ha avuto un impatto

scarsa-4 Al comma 1 del testo della L. 53 sono riportate le finalità della norma: «La presente legge promuove un equilibrio tra tempi di lavoro, di cura, di formazione e di relazione, mediante: a) l’istituzione dei congedi dei genitori e l’estensione del sostegno ai genitori di soggetti

Trasformazioni e crisi della cittadinanza sociale

178 Toffanin. La cittadinanza sociale delle donne in Italia: il genere fa la differenza?

mente rilevante sia nei contesti di lavoro sia nella revisione dei tempi dei servizi nelle città. La norma citata5 ha previsto, all’art. 9, diverse misure a sostegno della flessibilizzazione dell’orario di lavoro, da attuare all’in-terno della contrattazione decentrata, aziendale e/o territoriale. Tra le misure previste: il part-time reversibile, da utilizzare, quindi, nelle fasi ove maggiore è il carico derivante dal lavoro di cura; programmi finalizzati a favorire la diffusione del telelavoro e del lavoro a domicilio;6

flessibilizza-portatori di handicap; b) l’istituzione del congedo per la formazione continua e l’estensione dei congedi per la formazione; c) il coordinamento dei tempi di funzionamento delle città e la promozione dell’uso del tempo per fini di solidarietà sociale». Si confronti l’intero testo normativo, disponibile on line nel sito del Parlamento Italiano all’indirizzo http://www. Parlamento.it/parlam/leggi/00053l.htm (2014-03-23).

5 All’art. 9 della L. 53/2000 sono indicate le misure a sostegno della flessibilità di orario. Testualmente: «1. Al fine di promuovere e incentivare forme di articolazione della prestazio-ne lavorativa volte a conciliare tempo di vita e di lavoro, prestazio-nell’ambito del Fondo per l’occupa-zione di cui all’articolo 1, comma 7, del decreto-legge 20 maggio 1993, n. 148, convertito, con modificazioni, dalla legge 19 luglio 1993, n. 236, è destinata una quota fino a lire 40 miliardi annue a decorrere dall’anno 2000, al fine di erogare contributi, di cui almeno il 50 per cento destinato ad imprese fino a cinquanta dipendenti, in favore di aziende che applichino accordi contrattuali che prevedono azioni positive per la flessibilità, ed in particolare: a) progetti articolati per consentire alla lavoratrice madre o al lavoratore padre, anche quando uno dei due sia lavoratore autonomo, ovvero quando abbiano in affidamento o in adozione un minore, di usufruire di particolari forme di flessibilità degli orari e dell’organizzazione del lavoro, tra cui part-time reversibile, telelavoro e lavoro a domicilio, orario flessibile in entrata o in uscita, banca delle ore, flessibilità sui turni, orario concentrato, con priorità per i genitori che abbiano bambini fino ad otto anni di età o fino a dodici anni, in caso di affidamento o di adozione; b) programmi di formazione per il reinserimento dei lavoratori dopo il periodo di congedo; c) progetti che consentano la sostituzione del titolare di impresa o del lavoratore autonomo, che benefici del periodo di astensione obbligatoria o dei congedi parentali, con altro imprenditore o lavoratore autonomo».

6 La letteratura nazionale e internazionale sul lavoro a domicilio ha posto in luce le copiose ombre di questa tipologia contrattuale: il domicilio, poiché luogo privato, è di fatto estra-neo a controlli fiscali e di altri organi ispettivi, con la conseguenza che né lavoro nero né lavoro nocivo possono essere oggetto di monitoraggio e di sanzione. Studi di medicina del lavoro condotti tra le lavoratrici a domicilio dell’industria calzaturiera, tra gli anni Settanta e Ottanta, hanno provato la correlazione positiva tra la diffusione di aborti e l’insorgenza di polinevriti (o polineuriti): affezioni nervose che portano al rallentamento della reazione del fisico agli stimoli esterni con astenia e difficoltà deambulatoria, fino alla paralisi. Si confronti Carnevale et al. 1979; Bortolucci 1991. In aggiunta il lavoro a domicilio, è retri-buito attraverso il cottimo, seppur come prevedono i contratti collettivi nazionali di lavoro ricalcolato sulla base di un coefficiente utilizzato per la forza lavoro occupata all’interno delle imprese. Si confronti l’art. 78 del CCNL Industria Calzature vigente. Nella prassi, le tariffe di cottimo sono stabilite unilateralmente dal datore di lavoro committente: le lavo-ratrici a domicilio per diverse ragioni, non ultima l’atomizzazione che contraddistingue la loro attività lavorativa, hanno sempre avuto scarsa forza contrattuale, con la diretta conseguenza di pregiudicare il riconoscimento retributivo sulla base della qualità e della quantità del lavoro svolto. Per queste ragioni, l’introduzione di questa misura, tra le forme di flessibilità oraria, all’interno della L. 53/2000 è del tutto criticabile: più che un’innovazione, essa rappresenta un ritorno al passato, certamente inopportuno e inadeguato ai bisogni di bilanciamento dei tempi di vita e di lavoro.

zione dell’orario di lavoro in entrata o in uscita; istituzione di banche delle ore, per favorire l’accumulo di ore da poter fruire a titolo individuale; la flessibilizzazione dei turni di lavoro, per favorire esigenze individuali del lavoratore e della lavoratrice; particolari forme di concentrazione oraria. Queste misure sono state pensate per lavoratori dipendenti e indipenden-ti, con l’intento di favorire in termini prioritari i genitori con figli in età scolare. All’art. 3 la stessa norma ha previsto la revisione del sistema dei congedi, regolato precedentemente dalla legge 30 dicembre 1971, n. 1204, riconoscendo a uomini e donne, con carichi di cura, la fruizione di conge-di conge-di maternità, conge-di paternità e parentali. I congeconge-di parentali meritano un particolare approfondimento. Essi spettano alle lavoratrici e ai lavoratori dipendenti, con attività lavorativa continuativa, entro i primi 8 anni di vita del figlio, per un periodo complessivo, da suddividere tra la coppia non superiore a 10 mesi (che possono aumentare fino a 11 se il padre lavoratore si astiene dal lavoro per un periodo continuativo o frazionato non inferiore a 3 mesi). La norma prevede la fruizione contemporanea del periodo di congedo da parte di entrambi i genitori. L’indennità per congedo parenta-le stabilita dal parenta-legislatore italiano è pari al 30% della retribuzione media giornaliera calcolata sulla base della retribuzione del mese che precede l’inizio del periodo indennizzabile, se il figlio ha meno di 3 anni. Il conge-do non è retribuito se il figlio ha dai 3 agli 8 anni, a meno che il salario annuale del genitore richiedente sia inferiore a 2,5 volte l’importo annuo del trattamento minimo di pensione.7 Ma, considerati i limiti citati, quanti genitori italiani hanno utilizzato i congedi parentali?

I dati riportati nell’ultimo Rapporto sulla coesione sociale (2013), pon-gono in luce le seguenti criticità: nel 2012 sono stati 284.672 i lavoratori dipendenti che hanno usufruito di congedi parentali. Il 93,3% aveva un contratto a tempo indeterminato e il 6,7% aveva un contratto a tempo determinato. I beneficiari con contratto a tempo indeterminato sono più presenti nelle Regioni del Nord (64,7%) mentre quelli con contratto a tempo determinato si concentrano nelle Regioni meridionali (55,3%). Tra i lavoratori autonomi e i parasubordinati possono fruire di questa presta-zione solamente le donne: nel 2012 le beneficiarie di congedo parentale sono 2.366 autonome e 1.607 parasubordinate, concentrate principalmente nelle Regioni del Nord. Il quadro che ne esce è emblematico: in un Pae-se – nel quale le tipologie contrattuali variamente considerate a tempo de-terminato, che un decennio fa erano definite «atipiche», sono ampiamente diffuse – il sistema dei congedi, così come è stato strutturato, premia la forza lavoro che può contare su una posizione occupazionale stabile e su entrate certe e continuative e non sostiene, invece, la forza lavoro

precariz-7 Si confronti il sito dell’Inps sul tema dei congedi all’indirizzo http://www.inps.it/porta-le/default.aspx?sID=%3b0%3b5773%3b5774%3b5823%3b5841%3b5845%3b5846%3b&lastMenu=58 46&iMenu=1&iNodo=5846&p4=2 (2014-03-23).

Trasformazioni e crisi della cittadinanza sociale

180 Toffanin. La cittadinanza sociale delle donne in Italia: il genere fa la differenza?

zata. Questa dinamica non può che acuire il divario Nord-Sud e quello tra generazioni. Non solo: l’esiguità dell’indennità prevista (30% da rivedere poi sulla base dell’età del figlio) non può che pregiudicare l’utilizzo dei congedi parentali da parte dei padri. Il retaggio del modello del maschio adulto procacciatore di reddito – che ha prodotto la divisione del lavoro domestico e di cura all’interno della coppia ma anche del lavoro retribuito nella struttura economica e le differenze retributive presenti nei luoghi di lavoro hanno – ha limitato la fruizione dei congedi da parte dei padri poiché l’esiguità del trattamento economico previsto si risolve, necessariamente, con una contrattazione all’interno della coppia che impone la richiesta del congedo al componente della coppia che guadagna meno e/o che ha meno aspettative di carriera.

L’analisi dei dati raccolti dalla Consigliera Nazionale di Parità in relazio-ne alle forme di sostegno della ‘conciliaziorelazio-ne’ introdotte relazio-nella contrattazio-ne decentrata, interconfederale e nazionale, pocontrattazio-ne in luce l’esiguità delle iniziative intraprese, sia nel settore pubblico che in quello privato.8 Quali gli elementi di criticità che hanno mitigato gli effetti auspicati nella norma? Per prima cosa, il legislatore non ha adeguatamente considerato degli elementi che, invece, sono cruciali per spiegare la condizione delle donne e delle coppie italiane che si trovano a bilanciare impegni familiari e esi-genze lavorative:

1) il radicamento delle diseguaglianze di genere: in un quadro di mar-cata divisione del lavoro domestico e di cura sulla base dell’appar-tenenza di genere, la possibilità di fruire di congedi rappresenta un elemento di vantaggio solamente se il trattamento economico previsto non comporta una diminuzione del reddito familiare tale da impedirne la fruizione. Se l’indennità è molto contenuta, questa misura, come insegna il caso italiano, aumenta il divario di genere