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Il concetto di cittadinanza dei diritti

La cittadinanza sociale alla prova: genere, nuove povertà, disabilità

1 Il concetto di cittadinanza dei diritti

Nel dibattito politico sui problemi che riguardano la costituzione politico-pratica dell’Unione Europea, la definizione del concetto di cittadinanza assume un’importanza prioritaria, poiché delineerà la posizione dei ‘cit-tadini’ e delle ‘cittadine’ all’interno delle grandi trasformazioni politiche, istituzionali e territoriali necessarie per rendere l’Unione un’unità politica a tutti gli effetti. Diventa fondamentale cercare di ri-definire i contenuti della cittadinanza proprio perché, nella crisi di fiducia che investe le forme tradizionali della rappresentanza politica, le rappresentazioni simboliche che la qualificano non ottengono più il consenso su cui essa si fondava in passato.

Trasformazioni e crisi della cittadinanza sociale

154 Del Re. Per una cittadinanza europea delle donne

Il concetto di cittadinanza è un concetto ambiguo, che sussume in sé le frontiere dell’inclusione e dell’esclusione. Sempre di più viene travalicata la soglia della cittadinanza come affermazione di diritti e quindi espansi-va di libertà, come poteespansi-va apparire nel XIX secolo, verso una concezione della cittadinanza come limite, frontiera per escludere altri. Ciò porta inevitabilmente tutte le politiche e le iniziative favorevoli all’inclusione ad essere e a manifestarsi come «conservatrici» dell’ordine esistente e di per sé limitatrici del cambiamento dei rapporti sociali e politici. Si tende cioè, nella migliore delle ipotesi, a chiedere l’allargamento del numero dei «cittadini», senza una adeguata riflessione sulla reale dimensione dei contenuti della cittadinanza stessa. Non è quindi solo questione di sapere chi è il cittadino; è anche questione, ed è forse la cosa più importante, di sapere quali sono i diritti del cittadino e, per quanto ci riguarda più diretta-mente, fino a che punto essi abbiano una dimensione sessuata, siano quindi detenibili e spendibili da uomini e donne, e dai diversi gruppi sociali. Mi riferisco in particolare alle tesi di T.H. Marshall (Marshall [1949] 1964). Egli ha proposto una nozione di cittadinanza che si articola attorno a tre componenti: i diritti civili, politici e sociali, la cui realizzazione corrisponde a tre periodi storicamente determinati (XVIII secolo per i diritti civili, XIX per i diritti politici e XX per i diritti sociali).1 Secondo Marshall questi tre tipi di diritti si sono susseguiti ed hanno finito per costituire la struttura della cittadinanza moderna, in una tensione evolutiva verso l’uguaglianza di tutti i cittadini. Anche se si possono avanzare riserve nel confronti di questa teoria, c’è un’idea che per me conserva tutta la sua validità: la citta-dinanza si costituisce con dei diritti concreti e storicamente quantificabili; essi non sono separati, né subordinati gli uni agli altri, ma si articolano semplicemente tra loro nel tempo.

Invece, in una lettura sessuata, la cittadinanza marshalliana può ri-servare delle sorprese, rivelare alcune incoerenze e provocare qualche perplessità. In primo luogo, anche se una periodizzazione è sempre utile, i rapporti sociali di sesso sembrano smentire la sequenza marshalliana.2

La cittadinanza civile si afferma, secondo Marshall, nel XVIII secolo (ma si potrebbe partire dall’Habeas Corpus, Gran Bretagna, 1640) e consiste in una serie di diritti di libertà: libertà fisica, di parola, di pensiero, di reli-gione, il diritto di essere proprietari e di stilare dei contratti, l’uguaglianza di fronte alla legge. Ma le donne tutte, di fronte ad una capacità intera dell’agire sociale, della libera disponibilità di sé e dei propri beni, hanno ottenuto ben più tardi degli uomini i diritti civili, restando per lungo tempo

1 Nel 1949, in una serie di conferenze date a Cambridge in onore di Alfred Marshall e pubblicate in seguito in Citizenship and Social Class (1964), T.H. Marshall formulò e rese pubblica la sua teoria sulla cittadinanza nei termini più completi.

dipendenti dal benvolere dei padri o dei mariti. È solo nel 1938 che viene soppressa per le donne in Francia – terra di rivoluzione – l’incapacità civile relativa alla persona (legge 18 febbraio, art. 215),3 mentre fino al 1975 in Italia il marito esercitava la patria potestà nei confronti della moglie e dei figli e, nel caso della comunione dei beni, gestiva i beni della moglie.

La cittadinanza politica si sviluppa, per Marshall, nel XIX secolo e con-siste in un allargamento alle classi subalterne (sedicente ‘universale’) del diritto di voto attivo e passivo. Tuttavia, a dispetto della teoria ‘giusnatu-ralistica’ che afferma che la cittadinanza politica è un diritto naturale e universale, il codice politico che regola l’universalismo dei diritti lo sot-tomette a delle regole di esclusione e di subordinazione: in una comunità nazionale sono esclusi di fatto gli stranieri e i minori, e le donne sono state escluse fino al XX secolo (Zincone 1992).4

Il sistema dei partiti nasce senza le donne, o comunque senza la rappre-sentanza degli interessi delle donne in quanto attrici dell’universo del di-scorso politico. Inoltre, se si accetta la tesi di Stein Rokkan (1982) secondo la quale il sistema attuale dei partiti nasce dal tipo di conflitti contempora-nei all’estensione del suffragio (Chiesa-Stato, centro-periferia, agricoltura-industria, proprietari dei mezzi di produzione-lavoratori), l’organizzazione del consenso femminile attraverso la concessione del diritto di voto non apparirebbe di nessuna utilità in questo contesto. Infatti, l’emergere della struttura moderna dei partiti e quella del conflitto tra i sessi si presentano dissociati: il sistema dei partiti si forma prima che appaia un conflitto or-ganizzato tra i sessi e prima che le donne siano elettrici. Si tratta dunque di partiti di uomini, costruiti per affrontare con indifferenza, se non con ostilità, un’agenda che riguardi specificamente questioni inerenti alla dif-ferenza sessuale.5

La cittadinanza sociale si afferma, secondo Marshall nel XX secolo (ma già Bismarck introduce in Germania nel 1883 l’assicurazione obbligatoria contro le malattie e, l’anno seguente, contro gli incidenti sul lavoro) e consiste nel diritto ad un livello di istruzione, di benessere e di sicurezza misurato sul livello di vita di una comunità politica – il sistema scolastico nazionale, i servizi sociali, la salute, la sicurezza sociale, le pensioni ecc. Tutto ciò con l’obiettivo di eliminare tutte le disuguaglianze di ordine

eco-3 In Italia fu la legge 17 luglio 1919 che stabilì le norme relative alla capacità giuridica della donna.

4 Giovanna Zincone chiama «virtuosi» i casi in cui il suffragio universale è concesso ai due sessi nello stesso tempo – e ciò non succede che nel XX secolo in Europa: la Finlandia nel 1906, l’Islanda nel 1915; la Germania di Weimar nel 1918; la Danimarca nel 1920.

5 La presenza di «femministe» che si batterono per la partecipazione delle donne alla vita politica e per il diritto di voto non permette, secondo me, di parlare di un conflitto «orga-nizzato». In ogni caso, nella formazione dei diversi partiti politici questo non ha costituito base di programma. Nessuno dei partiti esistenti è nato a partire da questo conflitto.

Trasformazioni e crisi della cittadinanza sociale

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nomico. Le politiche di riproduzione in generale riguardano il lavoro e la condizione materiale delle donne, agli inizi principalmente per la prote-zione della maternità, poi per tutte le sezioni del salario ‘indiretto’ che riguardano il lavoro di riproduzione. Se questi interventi costituiscono dei diritti sociali lo fanno senza alcun dubbio a partire dall’esistenza concreta di un lavoro di riproduzione socialmente e storicamente determinato al femminile. Per le donne vengono spesso prima dei diritti civili e dei diritti politici. La cittadinanza sociale dovrebbe togliere ogni funzione economi-ca alla formazione delle disuguaglianze e alle distinzioni di classe con un «divorzio progressivo tra redditi reali e redditi monetari» (T.H. Marshall, p. 68). La natura dei rapporti di classe sarebbe cambiata e il lavoro sarebbe stato liberato da quello che Max Weber (2003, pp. 222-223) chiamava «la costrizione della frusta della fame» e che egli considerava come una delle condizioni necessarie per l’esistenza del capitalismo moderno.