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Cittadinanza e storia del pensiero economico

della cittadinanza sociale

4 Cittadinanza e storia del pensiero economico

L’idea che ciò che è ‘bene’ non sia deducibile da norme date e sovraordi-nate, ma consista laicamente nel realizzare la felicità e nel rifuggire l’in-felicità, è la novità che, nell’epoca moderna, accompagna i primi sviluppi della libertà borghese e in particolare di una libera attività economica. La filosofia utilitarista pone il problema della «felicità pubblica», come dicono gli economisti italiani del XVIII secolo, o, come dice Jeremy Bentham, della «happiness of the society». Promuovere la felicità costituisce «il compito del governo» (Bentham [1780] 2001, p. 154). La definizione stessa della felicità, oltre che dei modi di conseguirla, viene ora attribuita agli indi-vidui e al loro interagire sociale, e non a istanze presupposte, a volontà trascendenti, a dogmi rivelati. Polanyi parla, al riguardo, della «scoperta della società»: l’organizzazione della società è un problema che tocca ri-solvere a coloro che ne fanno parte. Questa scoperta, però, avviene come «scoperta dell’economia» e conduce paradossalmente, all’inizio del XIX secolo, alla ricerca di leggi naturali del comportamento individuale e delle dinamiche sociali (Polanyi 1944, cap. 10).

Si afferma, in effetti, un altro aspetto dell’utilitarismo, che finisce per contraddire quello appena indicato: è il far assegnamento sul mito di una società costituita semplicemente dal libero, razionale-naturale interagire d’individui liberi. In realtà, la società non può non essere organizzata, istituzionalizzata. La società moderna, in cui il capitale e il mercato sono le istituzioni fondamentali, rende pensabile quel mito, producendo l’ap-parenza di una situazione in cui le attività dei singoli individui in vista dei propri interessi, razionali per definizione, vengano integrate come tali in un sistema ad opera di una «mano invisibile». L’agire razionale dei singoli mette in atto la «legge naturale» dell’economia. E ciò appare sufficiente come spiegazione e come norma del funzionamento della società per il bene comune. Polanyi, sulle orme di Marx, svela che tale apparenza è il modo in cui, in una società economicamente organizzata – mediante il mercato, mediante il capitale – il problema della società si pone e viene risolto, con l’illusione che sia la soluzione migliore, nel migliore dei mondi. Questa scorciatoia ideologica costituisce l’altra faccia dell’utilitarismo. Il vincolo istituzionale, costituito dall’organizzazione sociale esistente, non viene definito come tale, anzi si presenta come il modo in cui la libertà moderna si realizza: gli individui perseguono il proprio interesse, sapendo giudicare razionalmente come procurarsi felicità e sfuggire l’infelicità. L’interesse comune risulterà dalla somma degli interessi individuali; la politica, il Governo, dovranno semplicemente garantire che tale processo si realizzi in condizioni di sicurezza, senza interferenze e con il minimo di attriti. A ffidare il buon funzionamento della società non più all’educazione delle passioni, come in precedenza, ma all’interesse degli individui appare la soluzione più efficace, e anche, come si usa aggiungere, la più efficiente, la

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più economica, dato che rende quasi inutili la politica e la Pubblica Ammi-nistrazione, oltre che il controllo sociale mediante istituzioni pedagogiche e coercitive (Hirschman 1977).

Questa è sempre stata e rimane la base del pensiero liberale, nelle sue diverse accezioni: da quello che si preoccupa almeno di perseguire una certa uguaglianza delle condizioni di partenza a quello che giustifica le grandi concentrazioni finanziarie e il loro salvataggio dal fallimento con denaro pubblico. Di volta in volta, fino ai nostri giorni – scriveva Federico Caffè, preoccupato della svolta neoliberista – vengono avanzate «nuove argomentazioni che ripropongono l’antico ‘lasciar fare’», sostenendo che l’intervento pubblico nella vita economica sia inutile se non dannoso. Tali argomentazioni si ammantano di una «pretesa ‘scientificità’», ma sono piuttosto, il più delle volte, «una pura manipolazione ideologica» (Caf-fè 1990, p. 28).

L’utilitarismo economicista e liberista è sempre stato e continua ad es-sere, in forme via via diverse, la tendenza maggioritaria del pensiero eco-nomico. Si è sviluppata parallelamente, d’altra parte, una tendenza critica minoritaria, che fa capolino persino nei primissimi sviluppi della teoria neoclassica. Per esempio, nell’epoca della ‘questione sociale’ e dell’isti-tuzione delle prime forme di Stato sociale nella Germania bismarckiana, i fondatori della Scuola Austriaca dell’economia neoclassica, Carl Menger e Friedrich Wieser, distinsero il modello astratto, che è compito della teoria definire, dalla realtà concreta (Cangiani 2010). In teoria, in un sistema di scambio perfettamente concorrenziale oppure in un sistema comunistico perfettamente trasparente, si avrebbe l’allocazione ottima delle risorse per la soddisfazione dei bisogni, mediante le scelte razionali dei soggetti. Ma nella realtà, nella società oggettivamente esistente, il mercato e la produzione capitalistica provocano inevitabilmente un divario tra l’alloca-zione ottima delle risorse e quella effettiva. Il mercato e la produl’alloca-zione in vista del profitto non sono in grado di garantire la massima felicità per la società nel suo complesso. Ciò avviene, secondo Menger e Wieser, perché l’allocazione delle risorse dipende dalla domanda di mercato, e questa dipende, sì, dai bisogni dei singoli, ma nella misura del potere d’acquisto di cui essi sono – in modo ineguale – dotati. Dunque, verranno impiegate risorse per beni di lusso richiesti dai ricchi, sottraendole alla produzione di beni di sussistenza di cui i poveri hanno bisogno. Considerando poi la questione dal lato dell’offerta, l’esigenza stessa del profitto tende a orien-tare la scelta dell’oggetto della produzione, in modo non necessariamente corrispondente alla qualità e all’urgenza dei bisogni.

Max Weber riprende questo tema in Economia e società, aggiungendo che il mercato è in realtà il campo di conflitti di potere tra imprese, le quali mettono in atto una politica dei prezzi, oltre a una politica di marketing, che non si limita a informare i consumatori, ma ne influenza i bisogni (We-ber 1980, pp. 86 sgg.). Insomma, l’allocazione ottima delle risorse resta

un puro ideale, se riferita ai bisogni sociali invece che alla valorizzazione del capitale. In precedenza, all’inizio del secolo, Weber osserva che appare irrazionale un agire economico razionale che sia

scopo a se stesso [a prescindere da] ogni fine eudemonistico o semplice-mente edonistico. […] Il guadagno è considerato come scopo della vita dell’uomo, e non più come mezzo per soddisfare i suoi bisogni materiali. […] Questa inversione del rapporto naturale [...] è manifestamente un motivo fondamentale del capitalismo (Weber 1965, pp. 105-106). Il problema dell’efficienza sociale dell’economia di mercato comincia a imporsi nell’epoca della crisi del capitalismo liberale, verso la fine del XIX secolo. Thorstein Veblen fonda la sua riflessione critica riguardo al funzio-namento del capitalismo e alle teorie economiche sul fatto che la

«profit-ability» del prodotto (cioè la sua capacità di produrre profitto, dando prova

della sua «vendibility» nel mercato) non coincide necessariamente, anzi tende a non coincidere, con l’utilità («serviceability») per l’insieme dei cittadini (Veblen ([1901] 1994, p. 299). Non appena si esca dalla contabilità del business, e quindi anche da quella del reddito nazionale, il capitalismo si rivela un modo di produzione non solo iniquo, ma anche inefficiente. Quest’idea vebleniana ispira la corrente minoritaria detta istituzionalista nel corso del XX secolo (e oltre, si spera). La capacità della società, così com’è organizzata, di garantire il massimo benessere possibile, e la defi-nizione stessa del benessere, vengono messe in questione. Gli utilitaristi annunciavano una nuova condizione umana, un livello superiore di liber-tà. Ma lo stesso sviluppo storico della società che rende plausibile quella libertà costituisce il vincolo che impedisce di realizzarla. La ricerca della felicità può essere limitata e perfino contraddetta dalle istituzioni della società esistente, dall’esigenza che il mercato funzioni e il capitale si va-lorizzi. La scorciatoia utilitarista si presenta dunque come illusione di ef-ficienza e di libertà, basata sulla rimozione delle caratteristiche specifiche dell’organizzazione sociale.

Con la Prima guerra mondiale culmina la crisi del capitalismo liberale. Anche il pensiero economico va in crisi; il mercato concorrenziale appare sempre più irreale, sia come ideale normativo, in vista dell’allocazione ottima delle risorse, sia, quindi, come fonte dei postulati della teoria eco-nomica. Si sviluppano le teorie dell’economia non concorrenziale. Pigou (1920) sostiene che un intervento consapevole, politico, esterno rispetto al meccanismo del mercato, può far aumentare il benessere, agendo sulla distribuzione dei redditi e sulle esternalità, intese come costi o benefici che ricadono sull’ambiente (umano, naturale, sociale) in conseguenza dell’a-gire delle imprese, ma di cui queste ultime non tengono conto né sono chiamate a rispondere. La tendenza alla sovraccumulazione e l’inevitabilità delle crisi costituiscono ulteriori argomenti per la tesi dell’inefficienza del

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sistema. Keynes ([1930], 1968 p. 274) rammenta in questo senso «l’atroce anomalia della disoccupazione in un mondo pieno di bisogni», e considera l’irrealtà della tendenza all’equilibrio un motivo fondamentale dell’inter-vento pubblico nell’economia.

Il tema vebleniano dell’esigenza di una nuova scienza economica e di una nuova politica in conseguenza delle trasformazioni del capitalismo viene ripreso da Adolf Löwe. L’«ottimismo sociale» degli economisti classici, egli scrive, poteva essere giustificato agli inizi del capitalismo, quando «la produzione su piccola scala e labour intensive» – che permetteva di en-trare nella produzione anche senza ingenti capitali, facilitando d’altronde l’adozione di nuove tecniche – costituiva il presupposto della «prognosi ottimistica che collega la libertà di scambio con la giustizia sociale, con l’efficienza e la stabilità economica generale» (Löwe 1935, p. 69). Si svi-luppa la tecnica e cambia la struttura del mercato; il capitalismo delle grandi concentrazioni industriali e finanziarie prende il posto di quello concorrenziale. L’ottimismo dei classici diviene irreale.

Veblen e Löwe sono esponenti della corrente più radicale degli eco-nomisti ‘istituzionalisti’ – certo, non i soli, ma solo questo accenno è qui possibile. Ciò che importa è che, partendo dall’analisi della trasformazione del capitalismo, essi consentono di capire perché la questione dei diritti sociali ed economici sorga sistematicamente nel capitalismo sviluppato (corporativo, concentrato, tecnicamente evoluto e organizzato su grande scala) e perché non si tratti semplicemente di interessi particolari che pretendono una fetta più grande della torta, ma di un’inevitabile reazione contro l’inefficienza del sistema economico – di una reazione che si mani-festa, poi, come conflitto di classe. La fine dell’illusione utilitarista – con la crisi irreversibile delle istituzioni del capitalismo liberale, del mercato più o meno concorrenziale in primo luogo – costringe ad affrontare il proble-ma dell’organizzazione economica e sociale. Scegliere consapevolmente e pianificare, con vaste conseguenze sociali, è inevitabile: la questione è solo chi e come debba farlo. Cambia, a questo punto, il concetto di cittadinanza, insieme a quelli di libertà e di democrazia.