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L'equivoco democratico

della cittadinanza sociale

1 L'equivoco democratico

Nel 1992, all’indomani della fine dell’Unione Sovietica, Francis Fukuyama celebrava con un fortunato volume, La fine della storia e l’ultimo uomo, quello che a suo avviso costituiva il definitivo trionfo globale della demo-crazia. Secondo Fukuyama la caduta dell’unica alternativa sistemica globa-le alla democrazia di stampo occidentagloba-le sanciva addirittura «la fine della storia in quanto tale: ovverosia il momento finale dell’evoluzione ideologica dell’umanità intera e l’universalizzazione della democrazia liberale come forma ultima di governo umano» (Fukuyama 1992).

Per quanto il numero delle democrazie sia indubbiamente aumentato negli ultimi venti anni, l’universalizzazione della democrazia non è stata così completa quanto lo suggeriscono le parole di Fukuyama (Grassi 2008; Grilli di Cortona 2009; Morlino 2003; Huntington 1993; Linz-Stepan 2011). Secondo il report di Freedom House (2013) che dal 1972 viene pubblicato annualmente per ‘misurare’ la salute della democrazia nel mondo, il nume-ro delle ‘democrazie elettorali’ non supererebbe nel 2012 le 118 unità. Pur essendo significativamente aumentato rispetto al 1989 quando ammontava a 69, la democrazia non si sarebbe dunque ancora universalizzata.1

1 «The survey, which includes both analytical reports and numerical ratings, measures freedom according to two broad categories: political rights and civil liberties. Political rights ratings are based on an evaluation of three subcategories: electoral process, political

Trasformazioni e crisi della cittadinanza sociale

56 Costantini. Cittadinanza sociale e postdemocrazia

Non solo, ma se con Fukuyama ci volgiamo a considerare il tema della cosiddetta «evoluzione ideologica dell’umanità», non potremo acconten-tarci di verificare il numero delle democrazie elettorali, ma ci dovremo preoccupare di quantificare quelle che Freedom House definisce le Free

countries ossia quei Paesi che oltre a contemplare elezioni libere e plurali,

praticano anche un effettivo rispetto delle libertà civili. Ovviamente il nu-mero delle democrazie liberali è inferiore a quello delle democrazie eletto-rali. Anch’esso sarebbe comunque aumentato passando dalle 44 del 1972 (29% dei 151 Paesi presi in esame) alle 90 del 2012 (46% dei 195 Paesi presi in esame, nei quali abita il 43% della popolazione globale, ossia circa 3 miliardi di persone); il numero dei Paesi illiberali (Not free) sarebbe con-testualmente diminuito nello stesso lasso di tempo da 69 (46% dei Paesi) a 47 (24% dei Paesi e 34% della popolazione mondiale).

Accettando una definizione ancor più selettiva – poiché costruita non so-lo sull’analisi delle istituzioni politiche e delle libertà civili, ma anche della partecipazione e della cultura politica – come quella del Democracy Index prodotto dall’Economist (Economist Intelligence Unit 2013), solo 25 Paesi (corrispondenti all’11,3% della popolazione dei 167 Paesi indagati) merite-rebbero di essere riconosciuti come Full democracies. Anche sommando a questo numero quello delle 54 Flawed democracies del cui gruppo il nostro Paese fa parte (corrispondenti al 37,2% della popolazione del campione indagato), dovremmo ammettere che la democrazia si sarebbe realizzata in meno della metà dei Paesi del mondo e che, escludendo la Cina, sarebbe effettiva per meno di metà della popolazione mondiale.2

Quali che siano i parametri adottati, comunque, il più recente trend comunemente riconosciuto da questo genere di inchieste è quello di una stagnazione nell’espansione, se non di una tendenza al regresso numerico

pluralism and participation, and functioning of government. Civil liberties ratings are based on an evaluation of four subcategories: freedom of expression and belief, associational and organizational rights, rule of law, and personal autonomy and individual rights». Nel 1989 i Paesi presi in considerazione erano 167, nel 2012 195 (Freedom House 2013)

2 «The index provides a snapshot of the state of democracy worldwide for 165 independ-ent States and two territories – this covers almost the independ-entire population of the world and the vast majority of the world’s states (micro states are excluded). The Democracy index is based on five categories: electoral process and pluralism; civil liberties; the functioning of government; political participation; and political culture. Countries are placed within one of four types of regimes: full democracies; flawed democracies; hybrid regimes; and authoritarian regimes. Free and fair elections and civil liberties are necessary conditions for democracy, but they are unlikely to be sufficient for a full and consolidated democracy if unaccompanied by transparent and at least minimally efficient government, sufficient political participation and a supportive democratic political culture». Trentasette Paesi avrebbero un regime ibrido, cinquantadue un governo autoritario. Il metodo impiegato nella produzione di una definizione di democrazia volutamente più thick di quella di Freedom House – ma non tanto da includere tra i propri parametri il benessere economico e sociale – è ampiamente discusso nel report (Economist Intelligence Unit 2013).

e qualitativo delle democrazie pleno jure.3 L’ultimo Rapporto di Freedom House nota ad esempio che, per quanto il numero delle nazioni libere sia aumentato di tre unità rispetto all’anno precedente, il numero delle nazioni nelle quali la condizione democratica ha subito un declino sorpassa per il settimo anno consecutivo – ossia costantemente dal 2005 in poi – quello delle nazioni nelle quali si sono registrati dei ‘progressi’. L’impasse della democrazia si riflette anche nei significativi titoli degli ultimi rapporti dell’Economist: il preoccupato Democracy under stress del 2012 è stato confermato dal Democracy at a standstill dell’ultima edizione. Secondo l’analisi dell’Economist Intelligence Unit, più attenta rispetto a Freedom House al tema della qualità della vita democratica, la crisi delle istituzioni politiche democratiche è particolarmente evidente proprio in quei Paesi che negli ultimi due o tre secoli sono stati gli alfieri mondiali della riscossa democratica, a partire dalla Gran Bretagna e dagli Stati Uniti che da quan-do il report ha cominciato ad essere emesso si piazzano con continuità nei gradini inferiori della classifica dei Paesi democratici. Anche negli altri Pa-esi della ricca e civile Europa, tuttavia, le istituzioni democratiche non sem-brano godere di ottima salute. Un sintomo particolarmente importante del

malaise democratico è la perdita di fiducia nelle sue istituzioni politiche:

«Meno di un quinto degli Europei occidentali ha fiducia nei partiti po-litici e solamente un terzo ha fiducia nei governi e nei parlamenti. I livelli di fiducia nelle istituzioni sono particolarmente bassi in Europa dell’Est […]. Meno del 10% della popolazione di questa subregione ha fiducia nei partiti politici e meno di un quinto ha fiducia nei governi e nei parlamenti» (Economist Intelligence Unit 2013) (Democracy Index 2012, p. 17.).

La sempre più diffusa disaffezione nei confronti delle istituzioni della democrazia prende la forma di percentuali di votanti in diminuzione, di un collasso della fiducia nell’azione dei partiti e nella credibilità dei politici e in generale di una crescente apatia politica. Questo fenomeno risulta particolarmente evidente nel nostro Paese (Revelli 2013; Ciliberto 2012; Borrelli 2011; Ferrajoli 2011; Bovero, Pazé 2010). Secondo un sondaggio realizzato nel dicembre 2012 da Demos per il quotidiano La Repubblica solamente il 6,9% degli italiani dichiara di avere fiducia nel Parlamento. Ancora minore è il numero degli italiani che hanno fiducia nei partiti: il 5,6% (Demos&Pi 2012). La sfiducia nelle istituzioni democratiche trova però forse la sua più palese evidenza nel giudizio di quel 27,2% degli ita-liani che ritengono che non vi siano sostanziali differenze tra un sistema democratico ed uno autoritario (Demos&Pi 2011).

Per quanto la crisi delle istituzioni democratiche europee ed occiden-tali sia di lungo momento (Altini 2011; Bobbio 1995; Bovero 2000;

Co-3 Secondo alcuni analisti, superata l’era della democrazia trionfante, saremmo entrati così in usa fase di democratic recession. Cfr. Diamond 2008.

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stantini 2013; Galli 2011; Goisis 1998; Mastropaolo 2011; Müller 2011; Pazé 2011; Possenti 2011), secondo gli analisti dell’Economist essa ha subi-to un’accelerazione in conseguenza alla grave crisi economica innescatasi nel 2008/2009. La crisi economica ha avuto come è noto effetti negativi sulla vita democratica di molti Paesi a partire da quelli che più direttamen-te ne sono stati toccati come Grecia, Portogallo, Irlanda, Spagna e Italia.4 I governi nazionali, progressivamente esautorati in competenze sempre più ampie dalla logica transnazionale dei movimenti di capitali (Arrighi 2010; Beck 1997; Crouch 2012; Gallino 2000, 2011; Zolo 2004), si sono dimostrati incapaci di reagire efficacemente alla crisi. Ciò ha indebolito fortemente le istituzioni democratiche liberali, come dimostrano con evidenza gli espe-rimenti tecnocratici condotti in Grecia ed in Italia.

ll quadro può essere completato ricordando la crescente diffusione di movimenti politici populisti o razzisti che – come testimoniato eloquente-mente dai risultati delle ultime elezioni europee del maggio 20145 - sembra-no ormai a un passo dall’assumere forza sufficiente per poter contestare apertamente la democrazia anche nei suoi fondamenti ideologico-forma-li (Burgio 2010; Mastropaolo 2005; Milza 2005; Scaideologico-forma-liati 2008).

Considerazioni ancora più radicali hanno condotto alcuni commentatori a descrivere la nostra epoca e le nostre istituzioni politiche come postde-mocratiche (Crouch 2003; Mastropaolo 1996, 2001; Todd 2008). Secondo queste letture le istituzioni democratiche si sarebbero nel corso degli ultimi decenni progressivamente svuotate dei contenuti che nel tempo avevano faticosamente conquistato. Questo svuotamento sarebbe stato così efficace da produrre un nuovo regime politico caratterizzato dalla conservazione di alcune istituzioni tipiche del sistema politico democratico da esso sop-piantato, ed in particolare di ‘libere’ elezioni politiche. Tuttavia la lotta elettorale postdemocratica, confermando le analisi prodotte nel 1967 da Guy Debord in La socièté du spectacle (e poi integrate dai Commentaires

sur la socièté du spectacle del 1988; Debord 1992), apparirebbe sempre

meno come espressione di bisogni e di interessi sociali conflittuali, e sem-pre più come uno spettacolo autoreferenziale, condotto e diretto da gruppi ristretti e rivali di esperti della comunicazione il cui scopo primario non è la realizzazione di alcuna idea del bene comune, ma il mero prevalere nella lotta elettorale (Bovero 2000; Ferrajoli 2011; Salvadori 2009;

Mastro-4 È tuttavia significativo notare che secondo il Democracy Index anche la Francia – assieme a Grecia, Italia e Portogallo – ha perso dopo il 2008 lo status di full democracy.

5 Il Front National di Marie Le Pen è risultato il primo partito in Francia con circa il 24,86% dei voti; in Gran Bretagna il primo partito è l’United Kingdom Independence Party di Nigel Farage con il 26,77%; in Danimarca ha trionfato lo xenofobo Dansk Volkeparti con il 26.6%. In Austria il partito di ultradestra di Andrea Moelzer (FPOE) è arrivato al 20,5%, i neofascisti di Jobbik in Ungheria al 14,67%. Risultati importanti per l’ultradestra si sono avuti in molti altri Paesi, in particolare dell’Est europeo.

paolo 2011). Gli attori principali di questo meccanismo spettacolare – che intrattiene il pubblico fissandone l’attenzione sui propri irreali conflitti ottenendo in questo modo il consenso necessario a confermarne la reale subordinazione – sono i nuovi partiti postdemocratici, sul cui ruolo avre-mo avre-modo di tornare più avanti, e le élite economiche al cui servizio essi finiscono per porsi. Quello che qui conta è che la riduzione spettacolare del confronto politico finisce per relegare i cittadini in un ruolo passivo ed apatico, alimentando potentemente la diffusa percezione di crisi – una percezione di impotenza, di inanità, di corruzione diffusa ... – che colpisce le istituzioni democratiche nel loro complesso.

Una simile diversità di toni e di conclusioni nell’analisi, che può spaziare dalla celebrazione del trionfo democratico alla dichiarazione della fine del suo ciclo storico, nasconde un equivoco che va chiarito. È evidente infatti che i diversi punti di vista qui rapidamente passati in rassegna non condi-vidono una medesima definizione di democrazia.6

Nelle pagine che seguono prenderò in esame questa equivocità, che proverò a leggere non solo come il naturale sedimento di una storia lunga e complessa, ma anche come il frutto storico e mutevole di un profondo ed inesausto conflitto, la cui posta in gioco è stata e continua ad essere esatta-mente la progressiva e mai conclusa risemantizzazione del concetto di de-mocrazia. La crisi e il trionfo della democrazia si dovranno allora misurare proprio in relazione a questo conflitto e alle profonde trasformazioni sociali ed istituzionali che ne sono state assieme il motore e il risultato. Per farlo focalizzerò la mia attenzione, in particolare, sul concetto di cittadinanza democratica che di questo conflitto è una delle più preziose poste in gioco.