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Le politiche migratorie europee come politiche antiegualitarie

della cittadinanza sociale

4 Le politiche migratorie europee come politiche antiegualitarie

Si tratta ora di verificare se le politiche migratorie europee dalla fine della Seconda guerra mondiale ad oggi hanno dato un contributo alla ‘universa-lizzazione’ dei diritti sociali, o hanno agito invece – per quello che hanno potuto, dato che non sono onnipotenti – come un fattore di incremento delle disuguaglianze. Questa verifica deve tener conto del fatto che in questo secondo dopoguerra si possono identificare due periodi tra loro abbastanza demarcati.

Nel primo periodo, che si esaurisce alla fine degli anni Settanta per ef-fetto della prima, importante recessione dell’economia europea dell’epoca postbellica, sono stati operanti tre differenti ‘modelli’ di politica migratoria per dir così attrattiva in Gran Bretagna, Francia e Germania – nessuno dei quali conteneva il riconoscimento, o almeno il pieno riconoscimento, della cittadinanza sociale agli immigrati.

In un secondo periodo, che inizia a cavallo tra gli anni Ottanta e No-vanta, e prende avvio simbolicamente dal Trattato di Maastricht, viene a delinearsi progressivamente una politica migratoria selettiva e repressiva, con tratti più o meno apertamente razzisti, che culmina in Italia con l’ap-provazione nel 2002 della legge Bossi-Fini, divenuta in seguito un punto di riferimento anche per gli altri Paesi dell’Europa dei 15. I pesanti risvolti discriminatori di questa legge in materia di acquisizione e stabile godi-mento dei diritti sociali da parte delle genti immigrate si sono via via ma-terializzati su scala più ampia man mano che la sua ‘filosofia sociale’ si è diffusa a scala europea coinvolgendo, specie dopo la crisi del 2008, anche i Paesi scandinavi, fino a far comparire in tutta l’Europa occidentale (per non parlare dell’Ungheria o della Cechia) il fenomeno della «xenofobia in nome dello Stato sociale» (Spire 2013).

Nel primo periodo le radici dei tre diversi modelli affondavano essen-zialmente nella storia del colonialismo e nel corso della Seconda guerra mondiale. La Gran Bretagna e la Francia, eredi di una lunghissima tradizio-ne coloniale e annoverate, in buona parte a torto, tra le potenze vincitrici

della guerra, erano in certo senso, e si sentivano, vincolate ad avere un atteggiamento ‘aperto’, da veri campioni della ‘civiltà democratica’, verso i propri ex-sudditi divenuti membri di nazioni indipendenti; ex-sudditi che non di rado avevano combattuto a fianco delle potenze coloniali contro il nazi-fascismo. In linea teorica, tutti gli ex-sudditi, o quasi, avrebbero avuto il diritto di diventare cittadini britannici o francesi; ma se questa acquisizione di cittadinanza da parte degli ex-colonizzati fu nei fatti mol-to limitata, ciò si deve non solo al rinnovamol-to orgoglio di appartenenza ai popoli di colore insorti, ma anche agli amari risvolti dell’esperienza fatta dai nuovi cittadini ‘di colore’ nei due Paesi. Come ha mostrato in modo magistrale Sayad (Sayad 2002, pp. 299-363), la naturalizzazione, benché appaia come un atto individuale, è in realtà una relazione sociale tra due nazioni, «oggettivamente determinata dal rapporto di forza asimmetrico che si instaura in tale circostanza tra due nazionalità che si sostituiscono l’una all’altra»: e ancora una volta la nazione colonizzatrice vince sulla nazione colonizzata. Di conseguenza la naturalizzazione è «un’operazione di annessione profonda e totale come poche altre», in quanto chi la conse-gue deve sentirla e viverla «come se fosse un onore che bisogna meritarsi e che bisogna pagare prima e dopo». Una forma di violenza più o meno ‘dolce’, a seconda dei casi, mai però una semplice, indolore e, tanto me-no, liberatoria ‘operazione amministrativa’. Attraverso di essa si poteva sfuggire allora in Francia a tutti gli obblighi del Code de l’indigénat e alle limitazioni previste per lo status di ‘cittadino di secondo collegio’, conse-guendo diritti negati agli altri immigrati, ma la condizione del naturalizzato restava contraddittoria perché l’esperienza sociale concreta, quotidiana fatta con la cittadinanza francese in tasca, rivelava poi sistematicamente ai neocittadini che erano francesi, in realtà, solo ‘sui documenti’ o ‘per i documenti’. Un’esperienza, questa, di tanti giovani figli di immigrati nati in Francia senza però riuscire ad essere integralmente francesi, «né og-gettivamente, a causa delle discriminazioni e delle molteplici esclusioni di cui sono vittime (apparentemente solo a causa delle origini)», ed ancor meno sul piano soggettivo per via del «sentimento che si prova a essere vittime di queste esclusioni e discriminazioni fondate solo sulle origini».23

L’acquisizione della cittadinanza è al tempo stesso ‘tutto’ e ‘niente’, af-ferma Sayad, e pertanto

lungi dal poter regolare come si crede il paradosso dell’immigrazione, lungi dall’assicurare o consacrare l’integrazione degli immigrati nella società e nella nazione francesi, la naturalizzazione tende, contro ogni aspettativa, a perpetuare i problemi dell’immigrazione. Lo fa nella

misu-23 Sayad 2002, p. 335 (c.m.). Sul mito dell’integrazione ‘alla francese’ e sulle discrimina-zioni di ieri e di oggi ai danni delle popoladiscrimina-zioni di origini coloniali: Vincent 2003; Costan-tini 2010.

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ra in cui non riesce a sopprimere le differenze oggettive e i conflitti che queste differenze generano oggettivamente (...). Peggio ancora, sembra aggravarli a causa della conversione indotta. La naturalizzazione cambia poco o nulla nella condizione sociale degli immigrati – anche se cambia il loro status giuridico – ma modifica malgrado tutto la natura dei pro-blemi che vengono posti loro e che loro stessi si pongono. (Sayad 2002, p. 349 [c.m.])

Con caratteri diversi anche ‘l’integrazione multiculturale’ all’inglese ha mostrato altrettanta contraddittorietà. Nonostante l’acquisizione automa-tica della cittadinanza per i nati in territorio britannico, infatti; nonostante il British Nationality Act del 1948 consentisse a tutti i cittadini del

Com-monwealth il diritto di entrare, lavorare e stabilirsi in Gran Bretagna; già

nel 1962, con il Commonwealth Immigrants Act, vennero introdotte le prime misure tese a restringere e selezionare in particolare l’immigrazione dei neri e delle donne di origine caraibica, africana o asiatica, e vennero definiti tre diversi tipi di permessi di soggiorno con relativa differenzia-zione di status e di diritti. Contemporaneamente nel dibattito pubblico, per la prima volta nell’Europa del dopoguerra, prendeva piede lo stere-otipo stigmatizzante dell’immigrato nero disoccupato che approfitta dei servizi sociali e gode di un diritto alla casa anche superiore a quello degli autoctoni. L’era thatcheriana ha rafforzato queste tendenze stratificanti e discriminatorie sia nei confronti delle popolazioni immigrate nere che dei cittadini britannici di pelle nera. In questo modo il ‘multiculturalismo di Stato’ ha assunto sempre più i tratti di una politica di ‘integrazione subordinata’ delle ethnic minorities fondata su criteri etnico-razziali e sul principio del divide et impera, con un’intensa presenza, già molto prima del 2001, dell’islamofobìa. E dunque in questo ‘modello’ fondato apparen-temente sul rispetto e riconoscimento paritario delle diverse ‘culture’, non c’era in realtà nulla che possa essere presentato come una pari, piena acquisizione dei diritti di cittadinanza sociale da parte degli immigrati delle diverse nazionalità – è interessante anche il fatto che nella sua ope-ra T.H. Marshall non faccia il minimo cenno al problema, consideope-randolo, evidentemente, un problema trascurabile.

Il banco di prova più serio e rivelatore rimane sempre, per me, quello del mercato del lavoro. Ebbene, nonostante il grande battage dell’imprendito-ria britannica negli anni Ottanta e Novanta intorno alle ‘pari opportunità’, in Gran Bretagna in particolare i lavoratori immigrati di prima generazione provenienti dall’Iraq o dallo Zimbabwe, nonché quelli indiani, pakistani o caraibici appartenenti alla seconda e alla terza generazione sono andati incontro a metodiche discriminazioni «nell’accesso al mercato del lavoro, sia in termini di salario che di prospettive di carriera» (Erel, Jefferys 2003, p. 268; Brubaker 1989; Miles 1993). Con una serie di conseguenze sui tassi di disoccupazione, generalmente più alti o molto più alti della media, sulle

maggiori difficoltà a cambiare lavoro o a conservarlo in caso di crisi azien-dale o generale, sulla sostanziale irrilevanza del grado di istruzione ai fini della qualifica e della retribuzione, sull’assegnazione a mansioni lavorative più pesanti e orari più ingrati, e così via.

In confronto a quelli francese e britannico, il ‘modello tedesco’ si presen-tava esplicitamente come il più duro e inospitale, centrato com’era sulla categoria di Gastarbeiter, lavoratori ospiti temporanei della Germania solo fin tanto che c’è bisogno delle loro braccia, e perciò oggetto di particolare attenzione da parte dei tutori dell’ordine pubblico. Non può sorprendere, quindi, né la loro sostanziale esclusione dai diritti di cittadinanza sociale, né che una legge dell’aprile 1965 prevedesse la possibilità di espulsione per «chi non può provvedere al mantenimento proprio e dei familiari a suo carico senza ricorrere all’assistenza sociale». Per essere espulsi poteva risultare sufficiente anche la semplice richiesta di accesso all’assistenza, come del resto qualunque altro tipo di infrazione di legge e, a maggior ra-gione, l’attività politica svolta. Ed anche quando, a partire dai primi anni Settanta, per la forza considerevole assunta dagli immigrati – anzitutto nei luoghi di lavoro – le autorità politiche centrali e locali della Germania federale furono costrette a confrontarsi con l’impraticabilità del puro mo-dello Gastarbeiter, i diversi aspetti sociali della ‘integrazione’ degli immi-grati – alloggi, salute, scuola, condizione delle donne, anziani, ecc. – con i relativi sempre parziali e tardivi riconoscimenti, vennero sgranati nel tempo e nelle forme, e accompagnati da un impegno volto a selezionare gli immigrati in entrata e agevolare, in più casi, il ritorno a casa dei meno desiderati (Kammerer 1976).

Non si deve dimenticare che questo primo periodo è stato, per l’Europa occidentale nel suo insieme, una fase di grande sviluppo economico, quindi di maggiori risorse a disposizione dei governi e degli Stati per allargare le maglie dei diritti sociali. Questa fase si chiude con la crisi del 1974-’75 che inaugura invece un periodo più incerto e tormentato nel quale l’eco-nomia europea occidentale continua, nell’insieme, a crescere, ma a ritmi decisamente inferiori a quelli della fase precedente. Il bisogno di forza-lavoro immigrata si generalizza anche all’Europa del Sud e dell’estremo Nord scandinavo a misura che emerge, oltre al problema demografico, la necessità stringente delle imprese europee di abbassare marcatamente e durevolmente il valore della forza-lavoro per competere con i giovani capitalismi ascendenti e di avere quindi bisogno di una grande massa di lavoratrici e lavoratori immigrati, per definizione forza di lavoro a costo inferiore alla media. È in questo nuovo contesto internazionale, segnato dalla mondializzazione della produzione industriale, agricola e di crescenti settori dei servizi, che prende corpo via via una politica migratoria selettiva e repressiva al punto da aver fatto parlare, a ragione, di Fortress Europe. Il che non sta affatto a significare: «non vogliamo più immigrati e immigra-te», bensì «ne vogliamo anche tanti, ma in stretta conformità alle nostre

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insindacabili necessità, e con le minori pretese e i minori diritti possibi-li». Maastricht e la Bossi-Fini sono i due nomi-simbolo di questo secondo periodo, l’atto fondativo e la sua più coerente applicazione in materia di politiche migratorie.

Non mi pare opportuno ritornare qui sulla disputa, per me fatua, circa il carattere antieuropeo della Bossi-Fini e sulle speranze da molti nutrite a vuoto, in Italia, circa il fatto che gli altri Paesi europei avrebbero erto una barriera contro questa legge rispedendola scandalizzati al mittente. Essa, al contrario, ha fatto scuola in Europa anzitutto su un punto fonda-mentale: la subordinazione della permanenza legale sul territorio europeo all’esistenza di un regolare contratto di lavoro. Principio che in tempi di generale precarizzazione dei rapporti di lavoro e diffusione a macchia d’olio di rapporti di lavoro irregolari, pone in capo ai lavoratori e alle lavoratrici immigrate una tagliola che può cadere su di loro in qualsiasi istante, e li ‘consiglia’ fortemente perciò a tenersi stretto, strettissimo il rapporto di lavoro che hanno, qualunque siano le condizioni e le restrizioni che compor-ta, inclusi i rapporti di lavoro al nero, perché anche dei rapporti di lavoro oggi al nero possono contenere la speranza di una futura regolarizzazione. In quanto macchina per la produzione e riproduzione a ciclo continuo di ‘clandestinità’, effettiva o temuta, e delle condizioni per l’espulsione degli immigrati anche da lungo tempo residenti in Italia, la Bossi-Fini incarna alla perfezione le necessità delle imprese europee di ogni ordine e grado. E risponde bene anche a quelle degli Stati europei impegnati tutti, in misura proporzionale alla loro forza o debolezza, a tagliare gli interventi di cura e di assistenza alle persone non autosufficienti e a trasferirne il compito e il costo sulle famiglie.

Parlammo a suo tempo, a questo proposito, di nuovi coolies sia nel senso di lavoratori vincolati a condizioni semischiavistiche, che nel senso di lavo-ratori a tempo, a termine, che non debbono concepire la loro migrazione come una migrazione definitiva (come ha fatto, invece, la gran parte degli immigrati nell’Europa occidentale, i 2/3 se non i 3/4 di loro), bensì come una migrazione possibile solo fintantoché c’è lavoro. Nuovi Gastarbeiter, che debbono essere sempre pronti ad andarsene non appena il mercato non ha più bisogno di spremerli, e che perciò non possono candidarsi né alla cittadinanza formale, né a quella sociale (Basso, Perocco 2003, pp. 18-34). Questo ‘ritorno del Gastarbeiter’ avviene in un quadro economico-sociale dominato da politiche neoliberiste e assai più incerto e cupo degli anni Cinquanta e Sessanta per tutti i lavoratori,

in un contesto a capitalismo flessibile (con tutto il suo portato di fram-mentazione, polarizzazione e precarietà) e in una congiuntura di stagna-zione economica poi divenuta vera e propria crisi economica. Così, scissi tra una condizione di rigidità determinata dalla normativa in materia di immigrazione, e una condizione di flessibilità determinata dalla

nor-mativa in materia di mercato del lavoro, gli immigrati si sono ritrovati ad essere dei lavoratori ospiti in un periodo di ristagno economico, di ripresa della disoccupazione, di crescita della precarietà, di sofferenza e di indebolimento del movimento dei lavoratori (Perocco 2012, p. 103). È lo stesso contesto in cui il principio di ‘universalità’ dei diritti è stato attaccato per gli stessi cittadini autoctoni d.o.c. attraverso la messa in atto di politiche federaliste, altra faccia della medaglia delle politiche neoli-beriste, che hanno introdotto insieme a «formali disuguaglianze giuridi-che», anche nuove modalità di «produzione del diritto, specie negli ambiti specifici dell’accesso alla cittadinanza sociale». In questo ambito infatti

le norme sono sempre più spesso generate con procedure e da soggetti diversi da quelli tradizionali e si caratterizzano non più per l’universalità e l’astrattezza, ma per il loro carattere sempre più segmentario e loca-listico, nella linea dei ‘local rights’ ottenibili sulla base di appartenenze specifiche (con il criterio essenziale di riferimento all’autoctonìa). È que-sto nuovo processo di formazione (e negazione) dei diritti che ha fatto parlare di una cittadinanza ‘a geometria variabile’, di ‘stratificazione civica’ o di ‘diritti stratificati’: ciò che in termini sociali si traduce nella produzione di nuove forme di disuguaglianza.

L’ambito in cui questo fenomeno si è sviluppato maggiormente è proprio quello dei diritti sociali e del welfare che, a seguito di svariate riforme federaliste, rientrano quasi esclusivamente nei poteri politici e nelle competenze legislative degli enti locali. Ciò ha creato le condizioni per la costituzione di una cittadinanza sociale particolarmente diversifica-ta sul territorio nazionale e gerarchizzadiversifica-ta, dipendente più da delibere comunali e ordinanze che da principi di uguaglianza e di libertà sanciti nell’ordinamento nazionale, e anzitutto nella Costituzione repubblicana. A fare maggiormente le spese di questo nuovo assetto politico-normativo di tipo ‘federalista’ è stata la popolazione immigrata. È proprio nei con-fronti di questa parte della popolazione, infatti, che le autorità locali hanno voluto e potuto sperimentare la ‘tenuta’ delle loro prerogative di potere rispetto alle autorità centrali, cancellando o riducendo, nella maggior parte dei casi, il loro accesso alla cittadinanza sociale.24

I campi di applicazione di questa crescente produzione di norme locale, localistica, ‘etnica’ sono stati i più vari: dalla residenza anagrafica alle graduatorie per gli alloggi pubblici, dal ricongiungimento familiare ai

con-24 Gjergji 2010, pp. 2-3; Perocco 2010, pp. 404 ss. Si tratta di una frammentazione, segmen-tazione, stratificazione, gerarchizzazione dei diritti simile a quella vissuta dai cittadini che si trovano nel territorio di uno Stato dell’Unione Europea, ma non hanno la ‘cittadinanza europea’: Zagato 2011. E, naturalmente, i due processi possono intersecarsi e sommarsi.

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tributi economici da parte dei servizi sociali, dall’uso degli spazi pubblici alle pratiche religiose. E non c’è dubbio che ulteriori elementi di incertezza e di fragilità derivino dai margini di discrezionalità attribuiti alle questure, alle prefetture, agli enti locali da un’alluvionale produzione di circolari e note esplicative ad esse, come ha mostrato I. Gjergji nella sua penetrante analisi (Gjergji 2013).

Un secondo aspetto della Bossi-Fini non si è ancora generalizzato agli altri Paesi europei nella stessa misura della subordinazione del permesso di soggiorno ad un regolare contratto di lavoro, ma ha egualmente una forte valenza materiale e simbolica schiettamente razzista: è l’aver espropriato l’immigrato/a anche del mero diritto di richiedere il proprio permesso di soggiorno, attribuendo a chi utilizza la sua forza-lavoro tale diritto, trasfor-mato in potere, in una potestà personale di tipo preborghese sulla persona dell’immigrato/a. È un altro aspetto di quella regressione giuridica del capitalismo maturo che abbiamo osservato nel processo di privatizzazione e differenziazione territoriale del diritto del lavoro legata ai contratti di prossimità. Altro che espansione ‘universale’ dei diritti di cittadinanza!

Ma il meglio, ovvero il peggio, in termini di razzismo istituzionale (o di Stato), è degli ultimi anni, quelli successivi alla crisi del 2008. Anni da un lato, di forte aumento della disoccupazione, della sottoccupazione, della precarietà (con il dilagare dei contratti a termine), di contrazione dei salari reali e talora pure di quelli nominali, di drastica riduzione dei conflitti di lavoro: tutti processi comuni ai lavoratori autoctoni e a quelli immigrati, ma sperimentati da questi ultimi con una particolare pesantezza, se è ve-ro che molti/e tra love-ro hanno «conosciuto precocemente il passaggio dal lavoro precario al lavoro saltuario» nell’agricoltura, con i voucher, nella sanità, con il lavoro a gettone, o nelle cooperative della logistica, vera e propria terra franca, fino a tempi recenti, di ogni sorta di violazione dei contratti e delle leggi.25 Anni dall’altro, di intensificazione ossessiva della propaganda e dell’azione degli Stati e dei governi europei contro gli im-migrati di origini ‘islamiche’, contro gli imim-migrati cosiddetti ‘clandestini’, contro le popolazioni rom, contro i richiedenti asilo, nel mezzo di una vera e propria orgia di leggi speciali, discorsi pubblici anti-immigrati, prassi amministrative arbitrarie, operazioni di polizia, moltiplicazione di campi di detenzione dentro e fuori l’Europa, e del rilancio in grande stile della retorica identitaria, occidentalista, bianca che pretende dagli immigrati una completa identificazione con i Paesi che hanno avuto la generosità di ‘accoglierli’, con i loro ‘valori’, le loro leggi e le loro istituzioni, le stesse che li discriminano, li declassificano e non di rado li demonizzano (Basso, a cura di, 2010).

25 Perocco, Cillo 2014. Si tratta della ‘spontanea’ stratificazione e gerarchia razziale pro-pria da secoli del mercato del lavoro internazionale.

Sono gli anni, per l’Italia (e non solo), degli ‘accordi di integrazione’, un tipo davvero singolare di ‘contratti’ nei quali non c’è alcuna corrispettività di obblighi tra i contraenti (a proposito di diritti...), che in più punti – come nel caso italiano – contravvengono senza alcuna remora sia alle norme europee, ad esempio in materia di richiedenti asilo, sia alle stesse norme nazionali, ad esempio in materia di decurtazione dei diritti a seguito di condanna. E non vi è certo bisogno di star qui a dimostrare le conseguenze di questo genere di ‘accordi’ in fatto di accesso ai diritti di cittadinanza... Mi sembra utile, invece, venire su una questione che sta conquistando crescente spazio nel dibattito pubblico europeo, ovvero il presunto abuso che le popolazioni immigrate farebbero dei sistemi di protezione sociale del welfare state. Essa è stata addirittura sollevata in forma solenne il 27 aprile 2013 da una dichiarazione-lettera congiunta, una forma più solenne di questa non è immaginabile, dei ministri degli interni e della immigrazio-ne tedesco, olandese, britannico e austriaco. Costoro hanno chiesto ai