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Il riduzionismo democratico schumpeteriano

della cittadinanza sociale

5 Il riduzionismo democratico schumpeteriano

La nuova forma assunta dai partiti ha il suo antesignano teorico nella comprensione maggioritaria e competitiva della democrazia annunciata già negli anni 50 dal riduzionismo di matrice elitista di Joseph Schumpeter. L’economista austriaco era stato autore di un unico ma decisivo intervento sul tema della democrazia, contenuto nel volume Capitalismo, socialismo,

democrazia. La posizione argomentata da Schumpeter appare come la

prosecuzione di una lunga tradizione di pensiero nata in Italia a cavallo tra Ottocento e Novecento con autori come Mosca, Pareto e Michels, e nota appunto come elitismo (Revelli 2013; Mastropaolo 2011). Obiettivo dell’elitismo era stato quello di mostrare il carattere inevitabilmente no-minalistico delle istituzioni democratiche. Mosca, capostipite di quella che non fu mai una vera scuola, aveva definito la democrazia una mera ‘formula politica’, una forma di pensiero superstizioso, non differente dalle credenze magiche e sovrannaturali, utile nella sua funzione legittimante ma priva di riscontro nei fatti che invariabilmente mostrano come le mag-gioranze organizzate (quella che Mosca chiama la classe politica: cfr. Mo-sca [1939] 1966) sono destinate a dominare le maggioranze disorganizzate.

La feroce critica cui la democrazia è sottoposta dal pensiero elitista viene ripresa da Schumpeter, che come gli elitisti vuole andare alla ricerca di una definizione realistica di democrazia. Per Schumpeter dunque si tratta di sottrarsi alla suggestione dell’ideale democratico; si tratta di liberare il campo dai valori e di indagare la democrazia oggettivamente, come un me-ro metodo politico,15 un semplice «strumento costituzionale per giungere a decisioni politiche – legislative ed amministrative» che non può, e soprat-tutto non deve mai divenire «un fine in sé» (Schumpeter 1942, tr. it. p. 231). La democrazia nulla ha a che fare con un ineffabile ‘bene comune’, né con un’altrettanto chimerica realizzazione della ‘volontà generale’. La politica nelle condizioni democratiche del suo esercizio viene ridotta dalla teoria di Schumpeter a procedura elettorale di selezione di una élite dirigente, divenendo una semplice funzione incidentale della lotta per il potere.16

15 Per Schumpeter, «il metodo democratico è lo strumento istituzionale per giungere a decisioni politiche, in base al quale singoli individui ottengono il potere di decidere attraver-so una competizione che ha per oggetto il voto popolare» (Schumpeter 1942, tr. it. p. 257).

16 Le definizioni ‘realistiche’ della democrazia proposte da autori come Giovanni Sartori o Samuel Huntington (Huntington 1993; Sartori 1957, 1993) sono costruite su una simile

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Da questa concezione residuale del politico ripartirà pochi anni dopo l’ancor più cinica riflessione di Anthony Downs. Per Downs – che si incarica di perfezionare l’economic analogy sulla quale è fondata la comprensione schumpeteriana della democrazia – lo scopo di ogni partito che partecipi al gioco elettorale democratico è solo apparentemente la realizzazione di questo o quel programma politico-sociale, e dunque la rappresentanza del proprio elettorato. In verità «l’obiettivo primario degli appartenenti ai partiti è» – invariabilmente – «quello di essere eletti» (Downs 1957, tr. it. p. 63). Così, secondo Downs, le proposte politiche concorrenti tra le quali il popolo è invitato a scegliere non sono tanto l’espressione di concorrenti propositi politico-sociali, quanto proposte strumentali ad accaparrarsi l’u-nica cosa che conta: il consenso elettorale. Nel realismo maggioritario e competitivo di ispirazione schumpeteriana che Downs fa proprio la politica partitica si svuota così di ogni finalità sostanziale, nonché di ogni tensione utopica e ideale, per ridursi a mero mezzo attraverso il quale prevalere nella competizione elettorale per il potere.17

Ogni differenza ideologica tra i partiti concorrenti diviene in questo modo del tutto secondaria rispetto allo scopo che li accomuna tutti: non tanto rappresentare e difendere la propria particolare concezione del bene sociale – e gli interessi dei propri militanti e simpatizzanti – ma trionfare nella competizione elettorale, forgiando adeguatamente la volontà degli elettori al fine di ottenerne il suffragio.

6 La postdemocrazia

Le complesse trasformazioni sociali cui sopra abbiamo accennato hanno aperto la strada alla vittoria ideologica del riduzionismo schumpeteriano che, saldandosi alla perfezione con l’imperativo della governabilità fatto proprio dalle élite conservatrici, ha condotto ad un nuovo cambio di para-digma. Il successo del nuovo paradigma riduzionista neoliberale ha spinto i partiti ad abbandonare progressivamente l’ancoraggio alle loro basi sociali tradizionali per tentare di massimizzare il proprio appeal su quello che si è cominciato abitualmente a definire mercato elettorale. A mano a mano che i nuovi ‘partiti pigliatutto’ perdevano contatto con i propri militanti, essi divenivano sempre più penetrabili dagli interessi lobbistici e sempre

riduzione. La centralità del momento elettivo è chiarissima anche nella definizione minima proposta da un autore di ispirazione assai diversa come Norberto Bobbio (Bobbio 1995), e nello stesso fortunato concetto di poliarchia sviluppato da Dahl (Dahl 1971).

17 «Su questo ragionamento si basa l’ipotesi fondamentale del nostro modello: i partiti formulano proposte politiche per vincere le elezioni; non cercano di vincere le elezioni per realizzare proposte politiche» (Downs 1957, p. 60 tr. it.).

più vulnerabili ad involuzioni di carattere cesaristico.18 Snelli e postideolo-gici, più che gli intermediari di precise esigenze sociali sono divenuti così organismi sempre più autoreferenziali: delle mere macchine elettorali,19

condizionate – quando non controllate – dalle lobbies affaristiche che for-niscono loro i mezzi economici ed il know-how necessari a trionfare in competizioni elettorali sempre più dispendiose e tecnicamente complesse. Secondo Bernard Manin la democrazia dei partiti si è così trasformata in una ‘democrazia del pubblico’, ovvero una democrazia nella quale il ruolo degli elettori è sempre più quello passivo di consumatori di spettacoli politici, piuttosto che di ‘autori’ dello spettacolo stesso (Manin 1996). In questa nuova configurazione del gioco politico i coreografi politici contano più dei militanti, le immagini proposte più dei contenuti, le persone più delle idee, in una regressione che deforma il concetto di democrazia sino a farlo coincidere con uno strumento cinico e formalistico di legittimazione del potere esistente.

Nel corso della loro regressione postdemocratica i partiti sono divenuti complici di un lento e progressivo svuotamento dei contenuti della citta-dinanza sociale. Questo percorso è stato accelerato potentemente dalla cosiddetta globalizzazione, ovvero dalla sempre più pervasiva integrazione economica e culturale del mondo. Esasperando la concorrenza internazio-nale, la globalizzazione ha innescato anche all’interno della ricca Europa un meccanismo perverso di livellamento verso il basso di quel sistema di tutele del lavoro che si era affermato con la democrazia postbellica (Arri-ghi 2010; Chesnais 1997; Gallino 2000; Sassen 2002, 2008). Mentre la base sociale dei partiti di massa tradizionali si erodeva progressivamente e la loro forma si modificava, il potere delle grandi aziende che la meccanica della concorrenza internazionale costringeva a divenire globali è cresciuto a dismisura. La sempre maggiore mobilità internazionale degli investi-menti è divenuta così una potente arma di ricatto che è stata ampiamente impiegata per scatenare una vera e propria ‘corsa al ribasso’ tra le nazioni tanto negli standard di tutela del lavoro, quanto nel sistema fiscale e dun-que, più o meno indirettamente, nella qualità dei servizi pubblici.20

18 Il leader, come il marchio per un azienda, è un insostituibile strumento di marketing elettorale: Calise 2010; Cavalli 1981; Ciliberto 2012; Bovero 2000.

19 Anche in questo caso si tratta di un ritorno alle origini: il processo di trasformazione dei partiti in macchine era stato analizzato già ad inizio Novecento da Ostrogorski, per tramite dell’esempio americano (Ostrogorski 1903). Dal lavoro di Ostrogorski – fondamentale anche per la riflessione dell’elitista Michels (1911) – Max Weber aveva voluto trarre una profezia riguardante il futuro del politico in quanto tale (Weber 1919). La sua soluzione, come è no-to, era di rimediare all’inevitabile burocratizzazione del politico che le macchine-partito avrebbero indotto attraverso il cesarismo (Weber 1918).

20 Il meccanismo è tanto semplice quanto noto. Se il regime fiscale o l’organizzazione del lavoro di un determinato luogo sono troppo onerosi, un’impresa globale può minacciare di trasferirsi altrove. Una simile minaccia rappresenta una pressione assai più efficace

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Le multinazionali globali, la cui proprietà si nasconde dietro una mutevo-le costellazione di azionisti, i cui investimenti si spostano in continuazione, hanno una natura inafferrabile – specie riguardo alle proprie responsabilità fiscali, sociali e ambientali. Esse esercitano tuttavia sui governi una pres-sione pressoché irresistibile perché realizzino condizioni più favorevoli all’investimento, deregolamentando le condizioni del lavoro, abbassando i regimi di imposizione fiscale, tagliando le spese statali inutili dal punto di vista delle aziende (Crouch 2012; Strange 1996). Abbassare il costo della macchina statale significa infatti, dal punto di vista delle multinazionali, ottimizzare il regime fiscale di riferimento. E questo anche a costo di met-tere a rischio i servizi essenziali per la cittadinanza: la sanità, l’istruzione, la previdenza sociale, ovvero l’insieme di quelle funzioni pubbliche che costituivano la sostanza della cittadinanza democratica postbellica.21 Il progressivo disimpegno dello Stato ha implicato dunque una tendenziale ri-commercializzazione dei contenuti della cittadinanza sociale democratica, seguendo un percorso che Luigi Ferrajoli ha descritto come una decostitu-zionalizzazione di quei diritti sostanziali fondamentali che le costituzioni postbelliche avevano immaginato come un sfera sopraordinata rispetto alla legislazione ordinaria, e perciò non disponibile alla discrezionalità politica (Ferrajoli 2011).

7 Conclusione

La sistematica opera di riduzione dell’eccesso democratico perseguita sin dagli anni Settanta dalle élite neoliberali ha modificato in profondità sia le forme della politica democratica che i suoi contenuti. L’era di intensa apatia e di profonda sfiducia nelle istituzioni politiche rappresentative che stiamo vivendo è il risultato di questo mutamento. Assediati

dall’offensi-di quella che può essere esercitata dai cittadall’offensi-dini dall’offensi-di quel dato Paese. Le aziende globali si impadroniscono così di fette sempre più consistenti di quel potere che sino a pochi decenni prima era gelosamente conservato dagli Stati sovrani (Strange 1996; Sassen 1998). Esse divengono capaci di condizionare le politiche delle diverse nazioni, in particolare le politiche del lavoro, quelle sociali e quelle fiscali.

21 Quello delle privatizzazioni è un meccanismo che si auto-alimenta e si auto-convalida. Spogliandosi del potere di intervento nei campi della sanità, dell'assistenza, della previden-za che aveva riempito di sostanpreviden-za l'involucro della democrazia liberale, gli Stati perdono progressivamente le competenze che operando in tali settori avevano acquisito. In questo modo una sorta di idiota istituzionale (Crouch 2003), le cui mosse sono sempre mal infor-mate e avvengono sempre in ritardo rispetto a quelle dei soggetti che agiscono nel mercato. Dal disimpegno dalle funzioni che vengono di volta in volta ‘privatizzate’ segue dunque un calo dell’autorità dello Stato e delle sue competenze, un calo che a sua volta alimenta il bisogno di ricorrere a consulenti privati, in un circolo vizioso che ad ogni spossessamento dell'influenza e della competenza pubblica fa corrispondere un aumento del potere delle lobby industriali e finanziarie.

va ideologica neoliberale, gli Stati hanno messo in discussione i concetti stessi di servizio pubblico e di Stato sociale, abdicando alla centralità che in epoca fordista avevano assunto nella regolazione della società e dei suoi conflitti. Come abbiamo visto, questo disimpegno non ha solo conseguenze di tipo economico e sociale: esso comporta un mutamento profondo del significato politico della cittadinanza democratica, un mu-tamento che – allo stesso modo di quello innescato dalla trasformazione postdemocratica dei partiti – sembra farne regredire il contenuto verso paradigmi prenovecenteschi.

Lo Stato presente può essere considerato irreversibile solo concedendo ciò che non deve più essere irriflessivamente concesso: che le istituzioni della democrazia elettiva di matrice neoliberale – ed in particolare la sua torsione maggioritaria, competitiva e spettacolare di ascendenza schumpe-teriana – rappresentino il compimento della democrazia (Abensour 2004; Ferrajoli 2011; Galli 2011; Nancy 2008; Rancière 2005; Rosanvallon 2006; Salvadori 2009; Sousa Santos 2002). La riduzione della democrazia alle esangui forme delle attuali procedure elettorali va invece denunciato come il frutto di un progetto politico intimamente demofobico, che ha perseguito negli ultimi quarant’anni un sistematico attacco non solo della rappresen-tanza politica democratica, ma di ogni forma di rappresenrappresen-tanza organizzata degli interessi popolari.

Non c’è spazio qui per indagare quale futuro possa essere ancora im-maginato per quelle istanze che stavano nella logica dell’istituzione della democrazia del welfare e che i partiti postdemocratici non riescono più a incanalare. Che le istituzioni rappresentative riescano a trovare il modo di dare loro nuovamente voce o che sia necessario a questo scopo immaginare istituzioni di tipo radicalmente nuovo, il primo e preliminare passo è quel-lo di contestare radicalmente ogni riduzione ‘realistica’ della democrazia alle sue presenti istituzioni elettorali. Contrastare il riduzionismo proce-duralista di matrice neoliberale è un passo necessario per contrastare la demofobia dominante, opponendosi alla sistematica distruzione di quegli elementi propriamente democratici che le lotte politiche e sociali avevano iniziato ad introdurre nell’architettura dello Stato moderno. Per farlo, si tratterà di sottrarre la democrazia ad ogni pretesa ‘normalizzazione’ del suo contenuto. Il concetto di democrazia non può essere in nessun modo assunto come un dato: esso, al contrario, rappresenta e deve rappresentare il prodotto di una dinamica storica, ovvero l’inesauribile posta in gioco del confronto e del conflitto politico. Solo superando i riduzionismi procedu-ralisti e assumendo invece la coscienza di come la democrazia rappresenti di volta in volta il luogo e il risultato della lotta politica e sociale, potremo sperare di ritrovare la rappresentatività e la sostanza perdute dalle nostre presenti istituzioni politiche.

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