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I limiti invalicabili della 'cittadinanza sociale' secondo T.H. Marshall

della cittadinanza sociale

2 I limiti invalicabili della 'cittadinanza sociale' secondo T.H. Marshall

Quando si discute di cittadinanza sociale,1 il pensiero corre d’obbligo a T.H. Marshall e alla sua opera Sociology at the crossroad (Marshall [1963] 1976). In questa opera egli identifica un tendenza di fondo, nel mondo moderno, all’allargamento dei diritti di cittadinanza, e la descrive come un

κλίμαξ

che va dai diritti civili ai diritti politici ai diritti sociali con l’effetto fondamentale di ridurre le disuguaglianze sociali. Questa tendenza, però, è in un rapporto intrinsecamente contraddittorio con la struttura di classe del capitalismo. Sicché nel quadro del sistema socia-le capitalistico l’allargamento dei diritti di cittadinanza ha, secondo T.H. Marshall, dei limiti organici invalicabili, ed è assai probabile che tali limiti siano già stati raggiunti.

Egli ha esposto la sua posizione in una sorta di dialogo con l’economista A. Marshall. Questi, in The Future of the Working Classes, aveva sostenuto che il miglioramento delle condizioni, non solo materiali, delle classi lavo-ratrici sarebbe stato illimitato fino ad arrivare addirittura alla abolizione o dissoluzione delle classi lavoratrici in una società composta di soli

gentle-men. A realizzare questa epocale trasformazione sarebbe stata, a suo dire,

la crescita della produttività del lavoro generata dallo sviluppo tecnologico, capace altresì di ridurre ad un minimo il lavoro pesante, lavoro che avrebbe poi potuto essere suddiviso in piccole porzioni decisamente sopportabili.2

Il Marshall sociologo è convinto anch’egli che le necessità oggettive della divisione del lavoro propria della società industriale comportino l’afferma-zione del principio (giuridico) dell’uguaglianza e, più in generale, una ridu-zione delle disuguaglianze sociali, ma non condivide l’abbagliante schizzo

1 Per la sua intrinseca ambiguità metterei volentieri questa locuzione tra virgolette, ma se lo facessi, appesantirei di molto la lettura del testo. Per questa ragione lo evito, con-fidando che il lettore ne tenga conto. Un’analoga avvertenza vale anche per la categoria ‘diritti sociali’.

2 Pigou, Marshall 1925, pp. 101-118, dove sono anticipati di decenni i temi trattati da J.M. Keynes in Prospettive economiche per i nostri nipoti, il quale, secondo il metodo abituale, non ne fa cenno alcuno.

del futuro tracciato dal Marshall economista. Preferisce interrogarsi sui li-miti che «il moderno impulso verso l’eguaglianza sociale» deve incontrare ed incontra in effetti a causa non solo dei suoi costi economici, quanto dei suoi stessi principi ispiratori e, soprattutto, della struttura sociale propria della società capitalistica. E prima di entrare nel merito di questa fonda-mentale contraddizione, si sente in obbligo di tracciare un bilancio storico del cammino verso l’‘uguaglianza sociale’ che egli vede svolgersi lungo una «evoluzione della cittadinanza che ha visto un progresso costante per circa 250 anni» (p. 8, sottolineature mie).

Dal mio punto di vista questo bilancio storico è del tutto insoddisfacente, e perfino fuorviante. Per diverse ragioni.

Anzitutto: l’affermazione dei diritti civili, politici e sociali vi appare quasi come un portato naturale della società moderna e del capitalismo, men-tre è, dall’inizio alla fine, il risultato di conflitti sociali anche di grande asprezza, dal momento che vi hanno svolto una funzione determinante le rivoluzioni politiche e sociali e, in generale, la lotta delle classi lavoratrici,3

dal momento che in materia di riconoscimento dei loro diritti, anche i più elementari, nulla è stato regalato alle classi lavoratrici dai poteri costitui-ti, ogni diritto acquisito è stato frutto di lotte, talora secolari, e ha dovuto essere difeso con altrettanti conflitti. T.H. Marshall sospinge invece il fat-tore conflitto/lotta di classe sul retroscena dei grandi accadimenti storici britannici ed europei che hanno creato le precondizioni, e hanno segnato i momenti più importanti, di questo processo.

In secondo luogo, nella ricostruzione fatta da T.H. Marshall l’attribuzione di diritti sociali finisce per apparire consustanziale allo sviluppo del solo capitalismo democratico,4 laddove, invece, nello scorso secolo un certo riconoscimento di diritti sociali ai lavoratori si può trovarlo anche nel capi-talismo associato ai regimi nazi-fascisti europei, accanto – si capisce – alla totale negazione dei loro diritti politici e civili. I lavori di T. W. Mason e di G. Aly, tra gli altri, hanno dimostrato con ricchezza di analisi e di dati l’esi-stenza di un’attenta politica sociale del nazismo, se non di un vero e proprio ‘Stato sociale’ nazionalsocialista, e hanno ricondotto tale esistenza all’e-strema attenzione che Hitler e i suoi riservarono, sotto questo aspetto, alla classe operaia tedesca, che sebbene venisse dichiarata inesistente nella propaganda ufficiale, fu nei fatti oggetto di un’incessante ‘cura’, in quanto nella realistica visione dei capi del nazismo rappresentava l’unica possibile

3 Che hanno raggiunto in Europa, tra il 1848 e gli anni Trenta del Novecento, un diapason mondiale.

4 E questo nonostante egli affermi paradossalmente a più riprese, senza esitazioni, che «il capitalismo è un sistema di disuguaglianze, non di uguaglianza» (p. 24), anzi fondato «su un principio di totale disuguaglianza» (p. 25).

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fonte di pericoli per la stabilità del regime all’interno della Germania.5

Infine, il bilancio storico redatto da T.H. Marshall è fortemente deficita-rio perché non vi è una sola parola di numero sul colonialismo britannico, la perfezionata macchina di sfruttamento e di dominio operante su scala mondiale che ebbe il compito, finché funzionò a pieno ritmo prima di es-sere brutalmente soppiantata da quella statunitense, di procacciare nelle colonie le risorse necessarie per l’ampliamento dei diritti sociali nella metropoli. Sennonché la genesi e lo sviluppo del welfare state, in Gran Bretagna e in Europa, è legata a triplo filo con la lotta delle classi lavora-trici e delle donne da un lato, con l’oppressione coloniale dall’altro; così come, per converso, la sua progressiva amputazione si deve alla ‘lotta di classe dall’alto’ condotta da decenni dai poteri capitalistici contro i diritti sociali acquisiti dai lavoratori e dalle donne da un lato, e alla crescente difficoltà dell’Europa a mantenere con i Paesi del Sud del mondo divenuti indipendenti la stessa relazione coloniale di un tempo, dall’altro. Di con-seguenza, tutto si può considerare l’interessante opera di Marshall salvo che uno schizzo scientifico esauriente del processo storico di ‘estensione della cittadinanza’ di cui si occupa.

Ed infatti io la prendo qui in considerazione sotto un altro e differente profilo, e nel fare ciò rispetto la dichiarazione di intenti dell’A.: «Il mio interesse principale è per la cittadinanza e per il suo effetto sulla disugua-glianza sociale», mentre per converso «la classe sociale [ossia il conflitto tra le classi sociali intorno alla cittadinanza sociale] occupa una posizione secondaria nel mio argomento» (p. 23). Questa scelta è coerente con la sua preoccupazione armonicista di fondo, e deriva in lui dalla consapevolezza che, data la divisione in classi propria della società capitalistica e l’esisten-za in essa di posizioni sociali profondamente diseguali, non può che esservi un attrito tra l’ampliamento dei diritti sociali di cittadinanza, a cui aspira la classe lavoratrice, e i meccanismi della economia di mercato che vi fanno resistenza. Ascoltiamo dalle sue stesse parole la posizione del problema:

La cittadinanza è uno status che viene conferito a coloro che sono mem-bri a pieno diritto di una comunità. Tutti quelli che possiedono questo

sta-5 Mason 2003; Aly 2007, di cui vale la pena citare un passaggio iniziale: «Il Partito nazio-nalsocialista tedesco dei lavoratori si basava sulla teoria dell’ineguaglianza delle razze e promise però ai tedeschi, contemporaneamente, una maggiore uguaglianza di opportunità di quanta ve ne fosse stata mai in Germania ai tempi del Kaiser e anche durante il periodo detto della repubblica di Weimar. Nella prassi ciò avvenne a spese altrui, con gli strumenti della guerra razziale e della guerra di rapina. Sotto questo profilo il NSDAP propugnò una delle utopie rivoluzionarie sociali e nazionali dello scorso secolo. Hitler voleva la ‘costruzio-ne dello Stato social-popolare’, di uno ‘Stato sociale’ che sarebbe stato di esempio e in cui si sarebbero dovute «abbattere sempre più tutte le barriere (sociali)» (p. 5). Inutile aggiungere che la realizzazione di questo programma presupponeva lo schiacciamento violento di ogni

forma di organizzazione autonoma del proletariato anche in Germania ed era finalizzata al suo permanente annientamento politico (Roth 1977). Analoghe considerazioni potrebbero farsi anche sul fascismo in Italia.

tus sono uguali rispetto ai diritti e ai doveri conferiti da tale status. Non c’è nessun principio universale che determini il contenuto di questi

diritti e doveri, ma le società nelle quali la cittadinanza è una istituzio-ne in via di sviluppo presentano l’immagiistituzio-ne di una cittadinanza ideale rispetto a cui si possono misurare le conquiste ottenute e verso cui le aspirazioni possono indirizzarsi. La spinta in avanti lungo il sentiero così tracciato è una spinta verso un maggior grado di uguaglianza, un arricchimento del materiale di cui è fatto lo status e un aumento del numero delle persone cui è conferito questo status. La classe sociale è invece un sistema di disuguaglianza. E anch’esso, come la cittadinanza, può fondarsi su un insieme di ideali, credenze e valori. È quindi ragio-nevole aspettarsi che l’effetto della cittadinanza sulla classe sociale prenda la forma di un conflitto tra principi opposti. Se è giusta la mia tesi che la cittadinanza è un’istituzione che ha cominciato a svilupparsi almeno dalla fine del secolo diciassettesimo, allora è chiaro che la sua crescita coincide con lo sviluppo del capitalismo, che è un sistema di disuguaglianza e non di uguaglianza. Qui c’è qualcosa che richiede una spiegazione. Com’è che questi due principi contrastanti hanno potuto crescere e fiorire fianco a fianco sullo stesso suolo? Che cosa ha reso possibile che essi si riconciliassero fra loro e divenissero, almeno per un po’ [c.m.], alleati invece che antagonisti? L’interrogativo è pertinente perché è chiaro che, nel secolo ventesimo, la cittadinanza e la classe capitalistica si sono trovati in guerra tra loro (p. 24, sottolineature mie). Provo a sbrogliare questo mix di verità, omissioni e mistificazioni. Si può concordare facilmente con l’A. sul fatto che «la cittadinanza è incompa-tibile con il feudalesimo medievale». Si può convenire con lui anche sul fatto che la via ai ‘diritti di cittadinanza’6 si è aperta in grande stile solo nel secolo diciassettesimo, per l’appunto con le prime rivoluzioni politiche borghesi della storia verificatesi sul suolo britannico. L’ha aperta la clas-se borgheclas-se con la sua lotta contro il dispotismo feudale che conosceva sudditi, non cittadini. Su questa via prima dietro, poi a fianco della classe borghese, si è incamminato anche il proletariato. Quando T.H. Marshall sostiene che lo sviluppo della cittadinanza «coincide con lo sviluppo del capitalismo» sovrappone in modo indistinto queste due spinte di classe mai identiche, inizialmente differenti, in seguito conflittuali quando non antagoniste. I due ‘principi’, cioè i due distinti interessi di classe, hanno potuto «crescere e fiorire fianco a fianco sullo stesso suolo» solo fintanto-ché non si è definitivamente stabilizzato, sulle rovine dell’ancien régime,

6 Troviamo questa espressione ne La questione ebraica di Marx, scritto del 1843 (Marx 1954, p. 68).

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il potere borghese. Perché da quel momento in avanti il rapporto tra la classe capitalistica divenuta dominante e la ‘cittadinanza’, l’espansione dei diritti delle classi lavoratrici, si è tramutato in un rapporto conflittuale, addirittura: di guerra – la formula è di Marshall, non mia, ma mi sentirei di sottoscriverla.7 Fin quando si è trattato solo dei diritti civili, dei diritti personali di libertà, della libertà di parola, di pensiero, di fede religiosa, del diritto di possedere cose in proprietà o di concludere contratti, ecc., o anche dei diritti politici, ma con l’importante e rivelatrice eccezione del diritto di sciopero, non si sono verificati grandissimi attriti tra i due prov-visori alleati, anche a misura che la classe lavoratrice non era ancora in grado di rivendicare per sé, in esclusiva, il potere politico. Le cose sono cambiate nel ventesimo secolo, ed anche prima, man mano che, nota l’A., sono entrati in gioco i diritti sociali.

In realtà, osserva T.H. Marshall, già i diritti politici di cittadinanza «era-no carichi di potenziali pericoli per il sistema capitalistico» (p. 35). Per questo il loro allargamento avvenne con prudenza, quasi si avvertisse in alto il rischio potenziale per la stabilità del nuovo ordine sociale in essi contenuto. Gli effetti diretti del riconoscimento ‘universale’ dei diritti civili e politici di cittadinanza sulla struttura della disuguaglianza sociale furono tuttavia limitati, perché fino ad un certo momento i diritti sociali restaro-no a un livello infimo, confinati fuori dal ‘tessuto della cittadinanza’. Lo scenario si è modificato dalla fine del diciannovesimo secolo con il ‘primo grosso progresso dei diritti sociali’ che cominciò a incidere in modo tangi-bile sulla disuguaglianza sociale, facendo sorgere la «domanda della sua abolizione, almeno rispetto agli elementi essenziali del benessere sociale» (p. 39). Si è messo in moto così un processo di trasformazioni dagli esiti potenzialmente sovversivi.

Queste aspirazioni [al ‘godimento materiale’] sono state soddisfatte in parte facendo entrare i diritti sociali nello status della cittadinanza e creando così un diritto universale a un reddito reale non misurato sul valore di mercato del soggetto. L’attenuazione delle differenze di classe è ancora lo scopo dei diritti sociali, ma ha acquistato un significato nuovo.

7 Egli è, viceversa, quasi spaventato dall’aver dato un giudizio così netto e per questo scri-ve: «Ho detto prima che nel ventesimo secolo la cittadinanza e il sistema di classe capitalisti-co si sono trovati in guerra tra loro. Può darsi che questa affermazione sia troppo forte, ma non c’è dubbio che la prima ha imposto delle modificazioni al secondo» (T.H. Marshall 1976, p. 57). Da notare che qui, come in tutta la sua opera, sono messi a confronto una categoria ben definita sul piano sociale (sistema di classe capitalistico) con una sostanzialmente giuridica (la cittadinanza) che rimane però molto astratta quanto alla sua identificazione con una forza sociale, un preciso soggetto sociale capace di imporre modificazioni ad un sistema sociale così fortemente strutturato come quello capitalistico. È chiaro che questo soggetto sociale (quasi sempre taciuto o offuscato nello scritto di T.H. Marshall) altri non è che la classe sociale dei lavoratori salariati.

Non è più soltanto un tentativo di diminuire l’ovvia molestia della pover-tà negli strati più bassi della sociepover-tà. Essa ha preso la forma di un’azione diretta a modificare l’intero quadro della diseguaglianza sociale. Non si accontenta più di sollevare il livello più basso al fondo dell’edificio sociale, lasciando intatta la sovrastruttura. Essa ha cominciato a rimo-dellare l’intera costruzione e potrebbe finire anche per trasformare un grattacielo in una casa a un solo piano (p. 40, sottolineature mie). Per illustrare questa dinamica T.H. Marshall porta alcuni esempi relativi alla situazione britannica. La legge sull’assistenza e la consulenza legale, che pur senza accordare una amministrazione della giustizia ‘gratuita per tutti’, la accorda ai poveri ‘certificati’, nello sforzo di combinare ‘giu-stizia sociale’ e prezzo di mercato. Il servizio sanitario nazionale, che ha liberato il «reddito reale, in certe forme, dalla sua dipendenza dal reddito monetario», perché ha portato il minimo di assistenza sanitaria garantito per tutti «a una tale altezza che il termine ‘minimo’ diventa improprio». In tal modo anche nell’ambito dei servizi sociali non il servizio comprato, bensì il servizio fornito dalle strutture a ciò destinate «diventa la norma dell’assistenza sociale» (p. 48). Poi ancora la politica governativa in mate-ria edilizia, che ha riconosciuto di fatto ad ogni cittadino il diritto ad una abitazione ‘adatta alla vita di una famiglia’. E ancor più la pianificazione urbanistica, che si è data come suo obiettivo quello di favorire il costituirsi sul territorio di una ‘comunità equilibrata’, con una «giusta mescolanza di tutte le classi sociali, come pure delle generazioni e dei sessi, delle profes-sioni e così via» (p. 51). Infine il diritto all’istruzione, il mezzo più efficace per eliminare i privilegi ereditari, come «scala di ascesa sociale» (p. 53). È evidente, ai miei occhi, l’esagerazione dell’A. quando attribuisce all’ac-cesso della classe lavoratrice a questi diritti sociali, mai realmente univer-sale e incondizionato, una forza eversiva capace di riconfigurare l’intero assetto sociale.8 Tuttavia si può convenire con T.H. Marshall sul fatto che nel contesto di un’economia caratterizzata dalla mediazione onnipresente del denaro, l’affermazione nella pratica dei diritti sociali su menzionati su larga scala fuori dalla mediazione immediata del denaro e del mercato, costituisce in certa misura un’anomalia. E tale anomalia suona minacciosa per i custodi dell’ordine costituito che intravvedono dietro la

rivendicazio-8 Peraltro ne La questione ebraica il giovane Marx aveva sostenuto che una cosa è l’e-mancipazione civile e politica separata da quella sociale, possibile in parte anche entro il perimetro della società capitalistica, altra cosa è l’emancipazione sociale dell’umanità lavoratrice, possibile solo, nella sua concezione, attraverso il rivoluzionamento dei rapporti sociali propri del capitalismo. Ancor prima Babeuf e i suoi sodali, cogliendo a modo loro questo scarto qualitativo tra le due forme di emancipazione, avevano rivendicato, ‘oltre all’uguaglianza dei diritti’, o giuridica, la ‘uguaglianza reale’, sociale, che deve realizzarsi «in mezzo a noi, sotto il tetto delle nostre case», e non semplicemente dentro le carte dei diritti (Babeuf [1795] 1945, p. 31; Bravo [1797] 1973, p. 57).

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ne di singoli diritti sociali la comparsa, o almeno il rischio della comparsa, di aspirazioni, attitudini, programmi, prospettive volte a rivoluzionare dei rapporti sociali fondati sullo sfruttamento di classe.9

Esattamente questo è il tema di T.H. Marshall. Egli considera fondati tali timori perché l’arricchimento dello ‘status della cittadinanza’ avvenuto con l’incorporazione in esso dei diritti sociali rende complicato da un lato conservare, e dall’altro legittimare, le ‘diseguaglianze economiche’ su cui si basa il capitalismo, prima tra tutte (preciso) quella, da lui non esaminata, tra il capitale dominus sul mercato (e sullo Stato) e il lavoro ridotto alla condizione di merce. Nonostante ciò egli è certo, a differenza di Marshall l’economista, che

Non stiamo dirigendoci verso l’uguaglianza assoluta. Ci sono dei limiti insiti nel movimento egualitario. Ma si tratta di un doppio movimento. Esso opera in parte attraverso la cittadinanza ed in parte attraverso il sistema economico. In tutti e due i casi l’obiettivo è di eliminare le disu-guaglianze che non possono essere considerate legittime, ma il criterio della legittimità è differente. Nella prima è il criterio della giustizia sociale, nel secondo è la giustizia sociale combinata con la necessità economica. È possibile, perciò, che le disuguaglianze consentite dalle due metà del movimento non coincidano. Possono persistere delle diffe-renze di classe che non hanno alcuna funzione economica appropriata, e delle differenze economiche che non corrispondono alle distinzioni di classe accettate (p. 65).

Traducendo: il moto storico verso l’uguaglianza non si dirige in nessun caso verso l’‘uguaglianza assoluta’, e cioè verso la soppressione della di-visione in classi della società capitalistica.10 Si oppone a ciò anzitutto la ‘necessità economica’, ovvero le leggi di funzionamento del capitalismo che tale divisione in classi, con le inerenti disuguaglianze, producono e ri-producono senza posa. Ma non punta a un simile traguardo neppure quello che, secondo l’A., è il principale attore della spinta verso l’uguaglianza e la giustizia sociale, il ‘sindacalismo’, che prima si è battuto per affermare i diritti sociali dal di fuori del sistema di potere dato, e in seguito, venuto a più miti consigli, ha accettato di difenderli dall’interno di esso, stabilendo

9 Aveva già osservato Marx che la rivendicazione del droit au travail avanzata dagli ope-rai parigini nel giugno 1848 riassumeva in modo goffo le aspirazioni rivoluzionarie del proletariato. «Il diritto al lavoro è, nel senso borghese, un controsenso, un meschino, pio desiderio; ma dietro il diritto al lavoro sta il potere sul capitale, dietro il potere sul capitale sta l’appropriazione dei mezzi di produzione, il loro assoggettamento alla classe operaia associata, e quindi l’abolizione del lavoro salariato, del capitale e dei loro rapporti reciproci» (Marx [1950] 1970, pp. 161-162).

10 Poiché altro non può significare questa rozzissima locuzione, costruita ad arte dagli avversari dell’‘egualitarismo’.