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Lavoratori autoctoni e immigrati: diritti diseguali, identità di 'destino'

della cittadinanza sociale

5 Lavoratori autoctoni e immigrati: diritti diseguali, identità di 'destino'

È da alcuni lustri che torniamo su questo punto essenziale: i lavoratori, le lavoratrici, le popolazioni immigrate non sono dei semplici oggetti delle politiche migratorie, cera informe plasmata dalle necessità imperiose degli Stati e dei mercati, merce di secondo e terzo rango nel supermercato del lavoro globale. Sono soggetti, forze di trasformazione sociale

esseri umani portatori di bisogni di emancipazione sociale che esprimo-no (con tutte le contraddizioni del caso, ché esprimo-non si vuol fare romanti-cismo) necessità, attese proprie dell’intero mondo del lavoro alla scala internazionale. Umanità lavoratrice in cammino, per riprendere il tema della bella mostra di Salgado dedicata ai migranti di tutte le nazioni e

29 Si veda da ultimo, per l’Italia, il decreto legge 23 dicembre 2013, n. 145, riguardante interventi urgenti di avvio del piano ‘Destinazione Italia’, entrato in vigore il 24 dicembre u.s., teso a favorire l’ingresso di cittadini stranieri in grado di apportare «un contributo alla crescita dell’Italia», in particolare investitori, studenti, ricercatori e lavoratori altamente qualificati. Ogni Paese europeo occidentale si è dotato di una legislazione di questo tipo.

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di tutti i colori. In cammino fisico e al tempo stesso ‘ideale’ verso un riscatto dalla moderna schiavitù salariata che tuttavia neppure con la migrazione si riuscirà a compiere (Basso, Perocco 2000, pp. 9-10). Poiché nel frattempo la letteratura sociologica in lingua italiana è diven-tata addirittura pletorica, ma nella sua quasi totalità si è tenuta lontana, se non lontanissima, da questo riconoscimento di ‘soggettività’, il lettore mi perdonerà se mi consento una lunga citazione da uno scritto, per l’ap-punto, di alcuni lustri fa:

L’immigrazione, dunque, come potente fattore di trasformazione sociale. Non soltanto uno statico specchio, ma un fattore positivamente dinami-co. Tale perché la massa degli immigrati non può accettare la posizione che gli viene istituzionalmente assegnata nelle nostre società. E questo rifiuto (obbligato), che si esprime nelle modalità più diverse, sotterranee e pubbliche, individuali e collettive, nazionali ed ‘inter-etniche’, sinda-cali e culturali, religiose e politiche, agisce, perfino in modo inconsape-vole, come una forza di trasformazione di tutti i rapporti sociali. (...) il ‘nostro’ mondo, con gli appartenenti a più di duecento nazioni presenti sul territorio italiano, è già diventato un altro mondo rispetto a quello di ieri, è già uno spaccato materialmente concentrato dell’intero mondo. E nulla potrà riportare in vita il defunto stato delle cose.

Ha detto uno scrittore svizzero: «Abbiamo cercato braccia, sono arrivati uomini”. E uomini e donne tra i meno remissivi. Questo è lo ‘inconve-niente’. Gli immigrati (i migranti) d’oggi, in larghissima parte prove-nienti dai Paesi di colore del Sud del mondo, appartengono alla parte più dinamica e (quasi sempre) giovane di queste popolazioni, e conside-rano l’emigrazione un’importante opportunità per migliorare le proprie condizioni di vita. Un’opportunità dall’esito non scontato, anzi irta di difficoltà – specie nel quadro di una mondializzazione che si presenta co-me la mondializzazione della precarietà. E tuttavia un’opportunità che, esclusa in ‘patria’, bisogna inseguire e afferrare là dove sembra più a portata di mano, in Occidente. Non va dimenticato che queste nuove leve dell’immigrazione [in Europa e in Italia] hanno spesso sperimentato la disillusione per il fallimento (le cui cause sono tutt’altro che puramente endogene) delle rivoluzioni anticoloniali. Questo fallimento, però, non ne ha fatto cadere l’aspirazione ad un’esistenza degna di esseri umani. L’ha solo proiettata verso l’Europa e gli Stati Uniti, ora con ingenue illusioni sulle società ricche quali ‘case di vetro’ (per usare l’espressione naȉve di un giovane marocchino), ora con una profonda avversione per un mondo occidentale visto come la causa prima della rovina delle proprie società. Ma la realtà con cui essi impattano già nel difficile, aspro e talora tragico cammino verso il ‘centro’, l’esperienza che è riservata loro, in tantissimi

casi, nel momento della cosiddetta ‘accoglienza’, il disconoscimento dei diritti a cui vanno incontro anzitutto nel mercato del lavoro e sulla scena pubblica, li costringono a prendere atto di una situazione largamente dif-ferente dai loro desideri, e a constatare che

La legalità che vige per gli immigrati è differente da quella comune. In Italia essi vivono in un quadro di diritto speciale che in pratica li priva permanentemente dei diritti politici. Non possono stampare giornali, non possono indire manifestazioni (a meno che qualche cittadino italiano non se ne assuma la responsabilità), non possono votare, non è permes-so loro, salvo che in casi molto rari, di avere accespermes-so alla cittadinanza; e non pochi ‘diritti sociali’ gli sono contestati nei fatti, a cominciare dall’accesso al peraltro limitatissimo patrimonio delle abitazioni statali. La situazione non è identica in tutti i Paesi europei, però in nessuno di essi si può dire risolta o vicina alla risoluzione la ‘questione immigra-zione’. [...]

Non è di sicuro una simile condizione di inferiorità sociale ciò a cui gli immigrati aspiravano nei loro ‘sogni’. Ecco perché il loro rapporto con le società occidentali [...] non può che essere un rapporto conflittuale. L’elemento del conflitto sociale (e anche culturale) risulta centrale in un’analisi che sappia vedere gli emigrati-immigrati per quello che re-almente sono: non oggetti della vita sociale, ma soggetti. Nei luoghi di lavoro e nei quartieri, nelle loro associazioni (una galassia, ormai, e delle più variegate) e nei sindacati, nelle scuole e nelle piazze, nelle manife-stazioni artistiche e nei rapporti con i servizi sociali. Questo non signi-fica, naturalmente, che in ogni momento l’insieme degli immigrati ed ogni singolo immigrato siano pronti al conflitto per far valere le proprie aspettative, né che la prospettiva dell’integrazione alla ‘nostra’ società così come essa è sia estranea a tanta parte degli immigrati. Significa che perfino questa prospettiva minimale non può realizzarsi senza mettere in moto una dinamica di grandi cambiamenti, e tanto più la cosa vale per le istanze di maggiore peso del mondo dell’immigrazione.

Queste istanze cominciano ad incrociarsi con quelle degli strati subal-terni ‘indigeni’ poiché, come ha osservato lo stesso Dahrendorf, correg-gendo le proprie ben altrimenti ottimistiche previsioni di anni addietro, a rischio di lenta emarginazione ed ‘esclusione’ è ormai un 40% delle società metropolitane. E perciò quelli che fino a ieri potevano sembrare rischi, e problemi, riguardanti esclusivamente gli immigrati, iniziano a non essere più visti e percepiti come tali. In questione è l’allargamento della precarietà sperimentata dagli immigrati ad un’area sempre più vasta della stessa società autoctona. Non è un caso se, accanto e in contrasto con il diffondersi di comportamenti razzisti, si vadano facen-do strada un sentimento (e una pratica) certo ancora circoscritti, ma in espansione, di condivisione, di solidarietà attiva, di unità tra immigrati

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ed autoctoni. In Europa e soprattutto in quest’Italia ritardataria siamo lontani da quello che accade negli Stati Uniti dove addirittura la rifon-dazione del sindacato, tradizionalmente bianco e anti-immigrati come pochi altri, sta avvenendo su queste nuove basi; ma qualcosa inizia a muoversi in questo verso anche qui, e non solo nel movimento sindacale. Nelle scuole, ad esempio, dove la novità assoluta della presenza di tanti bambini non italiani sta pungolando le menti e gli animi più sensibili a incamminarsi per davvero, con convinzione, sulla strada dello svilup-po di sane relazioni interculturali, e dunque verso la trasformazione generale e radicale dei contenuti e dei metodi di insegnamento. Nei servizi sociali, ormai investiti in pieno da questa nuova ‘utenza’, nei luoghi della sanità e nei consultori familiari, nelle comunità di recupero e nelle carceri, gli operatori che hanno saputo raccogliere senza timori la ‘sfida’ dell’immigrazione si interrogano a 360° sulle innovazioni da apportare non solo nelle pratiche di intervento, ma nel modo stesso di concepire l’intervento. E forse più interessante ancora è quel processo molecolare, pressoché inesplorato, che vede nella ‘vita quotidiana’ un lento intreccio di rapporti semplici e diretti tra autoctoni e immigrati... (Basso, Perocco 2000, pp. 13-15).

A distanza di quindici anni, nel contesto di una tendenza al peggioramento per gli uni e per gli altri, questo avvicinamento di condizioni materiali tra lavoratori immigrati ed autoctoni si è ulteriormente rafforzato. Nel frat-tempo in Europa e in Italia si è molto allargata la popolazione immigra-ta, nonostante negli ultimissimi anni una certa quota di essa, comunque molto minoritaria, abbia dovuto emigrare verso altri Paesi o riprendere a malincuore il cammino di ritorno. E questo allargamento, insieme al maggiore radicamento, ne ha oggettivamente accresciuto il peso. Sebbene quest’ultimo periodo non sia stato certo un periodo di importanti e acuti conflitti sociali né in Europa (salvo la Grecia), né in Italia, quasi sempre nei conflitti più rilevanti vi è stata una partecipazione di immigrati o di figli di immigrati.30 La disuguaglianza di diritti tra lavoratori immigrati e lavoratori autoctoni continua a sussistere su tutti i piani, dei diritti civi-li, politici e sociacivi-li, ed è confermata dagli indici più importanti di questi tempi, i salari e la disoccupazione, o – per i più giovani – i tassi di abban-dono scolastico,31 o – per i più derelitti – il numero dei carcerati immigrati

30 Va registrato anche, almeno in Italia, il crescente ricorso degli immigrati alle vie legali, presso i tribunali italiani, la Corte costituzionale o la Corte di giustizia dell’Unione Euro-pea per ottenere il riconoscimento di alcuni diritti sociali negati in materia di accesso al lavoro, al pubblico impiego, alla casa, alla social card, ai buoni-bebé, alle prestazioni Inps per gli invalidi, ecc.

31 In Italia un ragazzo di origini straniere su due lascia la scuola prima di finire il percorso dell’istruzione obbligatoria.

sul totale (vicino ormai al 50%). Ma nello stesso tempo si è rafforzata l’unità di ‘destino’ tra lavoratori immigrati e lavoratori autoctoni, perché l’offensiva neoliberista degli Stati e dei capitali globali fa sempre meno differenze di nazionalità. I diritti di cittadinanza sociale, come abbiamo visto, sono messi in questione via via per una massa crescente di coloro che vivono del proprio lavoro. E non solo in Europa. Per cui non si tratta affatto, come qualche povero squinternato (o rancido nazionalista) crede, di ‘uscire dall’Europa’ e ritornare indietro ai ‘meravigliosi’ Stati nazionali protezionisti e keynesiani, perché questa apparente ‘soluzione’ sarebbe peggiore del male. Il problema è andare avanti opponendo alla globaliz-zazione delle politiche antiproletarie – è questa la sostanza di classe del neoliberismo – la globalizzazione delle resistenze e delle lotte dei lavoratori del Nord e del Sud, dell’Ovest e dell’Est del mondo.

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