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Cittadinanza, democrazia, libertà

della cittadinanza sociale

5 Cittadinanza, democrazia, libertà

Il fondamentale rapporto tra democrazia e diritti sociali ed economici viene messo in rilievo in un saggio di Stefano Rodotà. Il XX secolo è stato caratterizzato da tesi contrapposte e da conflitti sociali riguardo alla de-mocrazia, e da Costituzioni e Dichiarazioni che hanno contemplato quei diritti. E la tensione continua, secondo Rodotà: la democrazia resta un ideale – essa dice «più del traducibile»; correlativamente, la cittadinanza è una «frontiera mobile» (Rodotà 1994, pp. 293 e 318). Lo stesso vale per i diritti (all’istruzione, al lavoro, alla salute, all’informazione), che

sostanziano la democrazia e la cittadinanza: tanto che c’è chi dubita che possano essere pienamente considerati diritti. Eppure, l’ambito riguardo al quale si parla di diritti si va ampliando, osserva Rodotà, fino a includere il patrimonio genetico o la tutela dell’ambiente e della varietà biologica. Si ha a che fare, a questo punto, con problemi che «riguardano la stessa sopravvivenza della specie», oltrepassando l’orizzonte marshalliano dei diritti economici e sociali (Rodotà 1994, p. 313).

Se la democrazia non dev’essere ridotta alla forma, ben descritta da Joseph Schumpeter (1942), di una competizione oligopolistica per ottene-re voti, essa deve includeottene-re vecchi e nuovi diritti sociali. Tali diritti sono condizioni e strumenti della democrazia, perché mettono la più vasta pos-sibile massa di persone in grado di essere cittadini, cioè di partecipare consapevolmente e responsabilmente all’organizzazione della società e al rinnovamento delle sue istituzioni. A questa concezione della cittadinanza si riferisce Rodotà, affermando che

le lunghe Costituzioni di questo secolo trovano proprio nell’irrompere dei diritti economici e sociali il loro vero tratto di novità, quando accanto alle libertà da si pongono con altrettanta forza le libertà di, nel gioco tra libertà negativa e positiva (Rodotà 1994, p. 295).

Anche il saggio di Marshall va in questa direzione. Si tratta di una tendenza che corrisponde a una necessità oggettiva espressa dallo sviluppo della so-cietà moderna, come sopra accennato, e che ha una lunga storia di contributi teorici e lotte sociali, specialmente nel XX secolo. Una radice di essa si trova nel concetto di «società umana», che Marx, nella Decima delle Tesi su

Feuer-bach, contrappone a quella «civile» ovvero «borghese» (bürgerliche): dove

ogni individuo fa i propri affari, mentre la società come tale non è affar suo. Nell’ultimo capitolo della Grande trasformazione, intitolato «La libertà in una società complessa», Polanyi scrive che i diritti di libertà del singolo cittadino, che originariamente lo difendevano dall’arbitrio della tirannia, vanno ribaditi. Ma in una «società complessa» – modernamente costituita da individui, e tecnologicamente e amministrativamente sviluppata – oc-corre anche garantire attivamente una vita libera da indigenza, ignoranza e insicurezza. Non solo: la libertà nel suo significato ‘positivo’ implica, oltre a tali garanzie, che gli individui siano messi in grado di essere il più possibile consapevoli e responsabili riguardo alla loro società, divenendo, così, capaci di partecipare all’organizzazione e riorganizzazione di essa.

Pochi anni prima Keynes affermava – in un’intervista significativamente intitolata Democracy and Efficiency – che «il capitalismo privato è al suo declino quale mezzo per risolvere il problema dell’economia» e che occor-re faoccor-re ciò che sembra necessario senza timooccor-re di metteoccor-re in pericolo le nostre libertà personali e le istituzioni democratiche (Keynes [1939] 1972, pp. 492 e 497).

Trasformazioni e crisi della cittadinanza sociale

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Nello stesso anno dell’intervista di Keynes, Robert Lynd pubblica

Knowl-edge for What?, in cui la crescita della complessità sociale viene

rappre-sentata sinteticamente come «allungarsi delle catene di causalità» (Lynd [1939] 1964, p. 212). Una società di questo tipo non può più basarsi sulla tradizione né sull’utopia dell’autonomo, automatico e ottimo funziona-mento del mercato. Essa deve invece essere organizzata consapevolmen-te, individuando le finalità e i modi di conseguirle, tenendo conto dello sviluppo delle diverse scienze e conferendo alla scienza sociale un ruolo fondamentale nella «realizzazione dell’innovazione», quello di analizza-re il «processo di cambiamento» e anzitutto le sue «opzioni effettive» (Lynd [1939] 1964, pp. 180-181). La società complessa elabora, o dovreb-be elaborare, informazione a un livello non solo quantitativamente, ma qualitativamente più elevato, in relazione al continuo cambiamento e alla consapevolezza maggiore che esso implica.

La società industriale di massa – secondo Karl Mannheim ([1940] 1959, p. 55) – non promuove a sufficienza «la ‘razionalità sostanziale’, cioè la capacità di agire intelligentemente in una data situazione, basandosi sulla propria comprensione della correlazione degli eventi». Inoltre, «la co-noscenza sociale e il potere di prendere decisioni» risultano sempre più concentrati, soprattutto nelle mani di coloro che controllano l’economia (Mannheim [1940] 1959, p. 43). Ne consegue che la stessa sopravvivenza della società sia a rischio (Mannheim [1940] 1959, p. 39). Una parteci-pazione diffusa alle scelte socialmente rilevanti consentirebbe, invece, un efficace controllo del funzionamento della società e del suo rapporto con l’ambiente (umano e naturale). Mannheim sostiene che una società più equa e meglio organizzata, consapevolmente regolata mediante una pianificazione democratica, realizzerebbe il più elevato livello di libertà. A questo punto dello sviluppo della società moderna, a suo avviso, la libertà non può più essere semplicemente quella di «sfuggire a un tiranno» o, a un livello già superiore, quella di «prendere la propria strada» traendo vantaggio dalle istituzioni sociali e dal controllo che esse esercitano una sull’altra. Ora la libertà «può esistere soltanto se assicurata dalla pianifi-cazione», se è istituita da essa mediante il controllo democratico (Mann-heim [1940] 1959, p. 342). Conviene sottolineare il rapporto stabilito da Mannheim fra la capacità della società di organizzarsi ai fini di un buon adattamento alle condizioni ambientali e del benessere degli individui, da una parte, e, dall’altra, la diffusione della «razionalità sostanziale». Quest’ultima implica, evidentemente, una cittadinanza sostenuta da diritti sociali tali da consentire non solo un buon livello di benessere materiale, ma anche l’istruzione, l’informazione e le forme organizzative che consen-tano agli individui di esercitare efficacemente la nuova libertà sociale. La «società complessa», che ha bisogno di tale libertà, dovrebbe anche mette-re a disposizione degl’individui le condizioni che consentano di esercitarla effettivamente.

Vecchie idee? Esse tuttavia ritornano in tempi più vicini a noi. Amartya Sen, ad esempio, interpreta la cittadinanza collegandola, come aveva fat-to Polanyi, alla questione della libertà. Gli individui sono liberi, secondo Sen, nella misura in cui sono «capaci», cioè effettivamente in grado di soddisfare i propri bisogni, di mettere in atto le proprie potenzialità, di partecipare consapevolmente ed efficacemente alla vita sociale e ai pro-cessi politici. Il punto cruciale è che tali «capacità» (capabilities), e quindi le «libertà sostanziali» di cui godono gli individui, dipendono dal contesto istituzionale, dall’organizzazione sociale, che deve garantire anzitutto, e al massimo livello per tutti, istruzione e cure sanitarie. Le capacità sono una questione pubblica, politica. Si tratta di diritti, che implicano scelte e azioni sociali per essere positivamente resi possibili, e non solo di libertà individuali da garantire negativamente rispetto a indebite interferenze. Si tratta di un benessere da costruire socialmente in modo consapevole, proprio perché la libera iniziativa dei singoli e la libera concorrenza tra loro – più precisamente l’illusoria libertà di mercato – non sono in grado di realizzarlo. «Nonostante l’aumento inaudito della ricchezza – scrive Sen (1999, pp. 3-4) – il mondo contemporaneo nega libertà elementari a un gran numero, alla maggioranza probabilmente, delle persone». E se lo sviluppo, egli aggiunge, va misurato nei termini dell’incremento di libertà «sostan-ziale» di cui gli individui possono godere, lo sviluppo dipende a sua volta dalla loro libera capacità d’intervento.

Löwe scriveva alcuni anni prima che «un livello superiore di emancipa-zione» può essere conseguito mediante una «intelligente» pianificazione democratica (Löwe 1988, p. 14). La libertà – nell’accezione positiva, irri-nunciabile nella società contemporanea – consiste per lui nel «potere di autodeterminazione rispetto a tutto ciò che è aperto alle decisioni umane» (p. 5). Egli distingue, poi, tra libertà privata e pubblica. La prima riguarda la parte della nostra esistenza che è libera da qualsiasi imposizione o vin-colo. La seconda, che Löwe chiama anche «autogoverno», consiste nella possibilità di determinare, insieme con gli altri membri della società, sia i limiti della libertà privata sia i vincoli e le finalità riguardanti gli aspetti non privati dell’esistenza individuale. Comprendiamo meglio in che cosa consista la libertà sociale grazie alla definizione di due tipi di vincoli pro-spettata da Löwe. La libertà sta, da una parte, nel conoscere meglio pos-sibile i vincoli delle leggi del mondo naturale, che possono servire per gli scopi sociali, ma vanno rispettate, per evitare danni largamente eccedenti i vantaggi. D’altra parte, si è liberi di modificare i vincoli storicamente determinati, cioè le istituzioni, nel nostro caso quelle della società capi-talistica. Si potrebbe, si dovrebbe essere liberi: ma lotte secolari hanno ottenuto solo modificazioni parziali, soggette a regredire e anche a subire tragiche reazioni. Il sistema sociale resta chiuso rispetto all’evidente ne-cessità di «riconsiderare completamente» i tratti fondamentali della sua organizzazione, economica in particolare, «per accrescere la nostra libertà

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di adattamento creativo, e in tal modo aumentare le nostre possibilità di sopravvivenza» (Polanyi 1983, p. 7). Quest’affermazione di Polanyi risale a oltre mezzo secolo fa; qualche via d’uscita sembrava allora ancora aperta, in direzione della «libertà sociale», che egli, insieme a molti altri, conside-rava un’esigenza espressa dallo sviluppo della società moderna.

Quelli che potremmo chiamare diritti della libertà sociale, e il tipo di cittadinanza che si configura sulla loro base, sono direttamente rilevanti riguardo all’eguaglianza; quei diritti e l’eguaglianza, poi, sono la condizio-ne condizio-necessaria per un’organizzaziocondizio-ne sociale efficiente dal punto di vista dell’utilità sociale. Questo è un tema fondamentale degli studi di Charles Lindblom, il quale sostiene che, invece, una «intelligente» gestione della nostra vita sociale risulta indebolita, deformata e talvolta senz’altro impe-dita dal ruolo che il «grande business» ha nella politica (Lindblom 2001). Nel libro da lui scritto con Edward Woodhouse, la conclusione alla quale gli autori giungono è che la posizione privilegiata del mondo degli affari, la diseguaglianza sociale e l’inadeguatezza del pensiero sono «strettamente interconnesse», si rinforzano a vicenda e «costituiscono ostacoli deter-minanti per un’attività più intelligente di soluzione dei problemi sociali» (Lindblom, Woodhouse 1993, pp. 143 e 141).

Questa tendenza si è sviluppata senza freni nell’epoca del neoliberismo e della crisi alla quale esso ha condotto; invertirla, appare tanto più neces-sario quanto più difficile.