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Il saggio di Marshall nel suo contesto storico

della cittadinanza sociale

2 Il saggio di Marshall nel suo contesto storico

Il lungo e contrastato processo dell’istituzione del mercato del lavoro viene presentato da Marshall – facendo anche riferimento a The Great

Transformation di Karl Polanyi (1944), che egli cita con il titolo

dell’edizio-ne inglese del 1945, Origins of our Time – come tipico e fondamentale ri-guardo al costituirsi della società capitalistica. Egli collega tale processo alla questione dei diritti di cittadinanza, rilevando che la decisiva riforma della Poor Law nel 1834 comporta la distinzione fra lavoratore-cittadino e povero-escluso. Solo il primo è pieno titolare dei diritti civili: capace, in primo luogo, di contrattare liberamente la vendita della propria forza lavoro, che è indubbiamente una delle libertà moderne dell’individuo. La corrispondenza con Polanyi si ritrova nell’importanza data da entrambi ai parecchi decenni intercorsi prima della conquista dei diritti politici. La lunghezza dell’intervallo rivela il peso del conflitto di classe. Infatti, mentre il lavoratore libero era elemento essenziale dello sviluppo del ca-pitalismo, il suffragio universale diventa causa di crisi della democrazia liberale ottocentesca. Dopo la grande paura della rivoluzione proleta-ria intorno alla Prima guerra mondiale, anche un «governo popolare» (Polanyi) insediato con procedure democratiche resta una prospettiva tanto preoccupante da giustificare, ove occorra, reazioni tutt’altro che democratiche.

Di questo va tenuto conto per comprendere la rilevanza storica del Go-verno laburista della seconda metà degli anni Quaranta, dopo le esperienze in vario modo prematuramente stroncate del 1924 e del 1929. Nel Regno Unito, dopo la guerra, si viveva una situazione politica nuova. Vi era una minoranza convinta di essere sulla via del socialismo. E comunque le ri-forme – grandi riri-forme, si può ben dire, nonostante la difficile situazione finanziaria – realizzavano uno sviluppo dei diritti, tale da implicare un ampliamento, un rinnovamento, della stessa concezione di cittadinanza. Lo spirito del New Deal, sopraffatto in patria dalla reazione, sembrava tra-sferito di là dall’Atlantico, inserendosi d’altronde nella tradizione secolare del movimento operaio britannico. È noto il messaggio in cui Franklin D. Roosevelt (1944) parla di un «secondo Bill of Rights», con implicito riferi-mento a quello del 1789, che comprende i primi dieci Emendamenti della Costituzione americana ed è immediatamente successivo alla Déclaration

des droits de l’homme et du citoyen. Allora, sostiene Roosevelt, furono

proclamati i fondamentali diritti di libertà; ora, con lo sviluppo dell’econo-mia industriale, ci rendiamo conto che «una vera libertà individuale non può esistere senza sicurezza economica». Egli enumera quindi una serie di diritti da garantire senza discriminazioni: il diritto al lavoro e a tutte le condizioni del benessere, quali un reddito adeguato, l’assistenza medica, la previdenza sociale, l’istruzione. Dopo la guerra, egli conclude, occorre-rà rendere effettivi questi diritti, «verso nuove mete di felicità umana e benessere». Viene menzionata anche «la libertà dalla concorrenza sleale e dal dominio dei monopoli». Evidentemente si tratta, per Roosevelt, di restare in un’economia di mercato; fin dall’inizio, tuttavia, la sua politica si era scontrata con interessi monopolistici. In un messaggio sull’esigenza di «reprimere» i monopoli (Roosevelt 1938), egli scrive che la «libertà in una democrazia» non si salva «se il sistema del business non procura occupazione e non produce e distribuisce beni in modo da consentire un livello di vita accettabile». E propone «una crescente concentrazione di potere pubblico nel governo», capace di contrastare la concentrazione del «potere privato» e il controllo che, quindi, «business e finanza» possono avere sul governo.

In Gran Bretagna, durante la Grande crisi, una politica ben più conser-vatrice di quella rooseveltiana si era limitata ad alcune riforme orientate verso un corporativismo moderato. Il clima di collaborazione nelle relazioni industriali aveva favorito la ristrutturazione di interi comparti produttivi (il tessile, il metallurgico) ad opera degli industriali stessi con l’appoggio delle Trade Unions e del Governo. Non mancavano però posizioni politi-che e teoripoliti-che alternative. John Hobson, politi-che si autodefiniva «economista eretico», aveva precocemente previsto la trasformazione istituzionale del capitalismo in senso corporativo. Il controllo e l’intervento da parte del Governo e il «management dell’opinione pubblica» si sarebbero sviluppati «coerentemente con il massimo grado di libertà e possibilità effettiva di

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fare privatamente profitto». Hobson contrapponeva questa trasformazione all’altra possibile, cioè alla realizzazione piena della democrazia mediante «l’intelligente cooperazione» dei cittadini in vista di «ben delineate finalità sociali» (Hobson 1919, pp. 143, 200 e 87). Condizioni e caratteri di questa seconda tendenza vengono ampiamente analizzati, per esempio, da G.D.H. Cole (1920) a proposito della prospettiva socialista, di quella del Guild Socialism in particolare. Subito dopo la Seconda guerra mondiale Polanyi auspica in questo senso «una società autenticamente democratica», in cui l’economia sia adattata nel modo migliore alle esigenze dei cittadini mediante «l’intervento programmato dei produttori e dei consumatori stessi». Egli sa bene, tuttavia, che è possibile anzi probabile che prevalga la tendenza opposta, sostenuta da coloro che «credono nelle élites e nelle aristocrazie, nel managerialismo e nella grande impresa», insomma in una società «adattata più intimamente al sistema economico, che vorrebbero conservare immutato» (Polanyi 1947, pp. 74-75). Le due opposte tenden-ze continuano a venir rilevate in termini simili, per esempio da James O’Connor (1973) e C.B. Macpherson (1987) riguardo alla crisi degli anni Settanta. Il conflitto fra di esse caratterizza tutto il corso del secolo; è un conflitto di classe, in cui è in gioco la democrazia, cioè il modo in cui la cittadinanza esiste, sulla base di determinate istituzioni sociali.

Del vasto dibattito in Gran Bretagna, entro il quale si forma il pensiero di Marshall, posso qui solo ricordare la riflessione sulla «crisi della de-mocrazia» di Harold Laski (1933) e, naturalmente, la svolta radicale nella teoria economica operata da John M. Keynes. L’idea della necessità dell’in-tervento pubblico per migliorare il benessere sociale si rintraccia lungo tutta la storia dell’utilitarismo inglese, a partire da Jeremy Bentham fino a John Stuart Mill e Henry Sidgwick. L’influenza di quest’ultimo sulla Scuola di Cambridge di economia arriva a Keynes, attraverso Alfred Marshall e Arthur Pigou (1920). I Reports di William Beveridge, pubblicati durante la guerra (1942 e 1944) e direttamente rilevanti per le politiche di rifor-ma del Governo laburista, traggono ispirazione da Keynes, a cominciare dall’ipotesi della «possibilità di assicurare il pieno impiego mediante la socializzazione della domanda, senza socializzazione della produzione» (Beveridge 1944, p. 29). Le difficoltà che tale possibilità incontra – almeno nel lungo periodo, come ha dimostrato la crisi degli anni Settanta – non diminuiscono l’importanza dell’ipotesi di Beveridge riguardo allo sviluppo dei tre decenni successivi alla guerra. Durante la quale erano tuttavia presenti in Gran Bretagna posizioni più radicali. Michal Kalecki (1943) so-stiene brillantemente che, di là dalle contraddizioni economiche dell’accu-mulazione capitalistica, la piena occupazione è politicamente impossibile, poiché priva i capitalisti della potente leva del ricatto occupazionale, quindi del loro potere, in particolare della loro influenza sulle politiche governa-tive. Le posizioni radicali di Kalecki e di Joan Robinson vengono tenute in considerazione dalla tendenza ‘post-keynesiana’ (cfr. Burchardt et al. 1944;

Robinson 1965), per la quale lo Stato, accanto al ruolo di garante e atti-vo artefice della piena occupazione, deve assumere quello di controllare l’economia e, in particolare, di indirizzare gli investimenti e attuare una politica fiscale redistributiva. Questa è, in effetti, la base di una politica che intenda promuovere i diritti sociali.

Keynes ([1926] 1968) aveva spiegato «la fine del laissez faire» e le con-seguenze che occorreva trarne. Edward H. Carr scrive diversi anni dopo, ben individuando la centralità della questione, nel passato e per il futuro: La rivoluzione contemporanea è una rivolta contro il laissez faire econo-mico. […] Ma la Gran Bretagna è ancora trattenuta dal suo indugiare in rimpianti per il periodo del laissez faire, quello della sua massima prospe-rità, e deve ancora adeguare la sua politica, consapevolmente e delibe-ratamente, alle esigenze della rivoluzione economica (Carr 1942, p. 13). Intellettuali transfughi dall’Europa centrale contribuivano al dibattito in Gran Bretagna, dopo aver partecipato a quello del primo dopoguerra nei loro Paesi. Karl Mannheim (1943) che, come Marshall, insegnava alla London School of Economics (LSE), sostiene anch’egli la tendenza anti-liberista. Più radicale è la proposta di una «pianificazione per la libertà» di Otto Neurath (1942). Polanyi pubblica, nello stesso periodico inglese in cui scriveva Neurath, l’articolo Capitalismo universale o pianificazione

regionale? (Polanyi 1945), in cui vede chiaramente l’indirizzo divergente

che stavano prendendo il Regno Unito e gli Stati Uniti d’America. Questi ultimi, assumendo coscientemente la leadership mondiale, adottavano e diffondevano «universalisticamente», secondo Polanyi, un’antiquata ide-ologia liberista.

Fra coloro che sostenevano un rinnovato liberismo, va citato almeno Friedrich Hayek (1944), che riproponeva, per dopo la guerra, il libero mer-cato, quale garanzia di efficienza economica e di libertà politica. In The

Great Transformation, che pubblica nello stesso anno, Polanyi sostiene la

tesi opposta. Anche Hayek si trovava alla LSE. Nel 1947 egli fondò la Mont Pelerin Society (MPS), con lo scopo di promuovere la concezione e la poli-tica liberali, confidando che le tendenze socialdemocratiche, keynesiane e neocorporative allora dominanti sarebbero state sconfitte. Così è avvenuto, con il contributo di think tanks come la MPS e il suo ramo britannico, l’In-stitute of Economic A ffairs (IEA), che appoggiò Margaret Thatcher e il suo Governo, insediato nel 1979. L’ironia è che il neoliberismo, al cui avvio quel Governo diede un decisivo contributo, è, in realtà, radicalmente diverso dall’utopia liberale immaginata da Hayek.

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36 Cangiani. Ragioni, sviluppo e declino della cittadinanza sociale 3 Diritti sociali e sviluppo capitalistico

Il saggio di Marshall presuppone, dunque, una determinata situazione sto-rica: un particolare clima sociale, una congiuntura politica e un complesso dibattito. La Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 10 dicem-bre 1948 è un segno dei tempi; la Costituzione della Repubblica italiana era stata promulgata un anno prima. Marshall intende intervenire in quella situazione, spiegandola, anzitutto, in rapporto con la storia trascorsa e con un possibile futuro. I diritti civili, all’inizio, non sono in contrasto con la disuguaglianza di classe, egli scrive: essi, anzi, «sono necessari per la sussistenza di tale particolare forma di diseguaglianza» e per il funziona-mento dell’economia di mercato che ad essa corrisponde. Il contrasto si presenterà e andrà crescendo in seguito, con l’istituzione e la diffusione di nuovi diritti. Abbiamo visto come lo sviluppo dei diritti politici – prima ritardato, poi fattore di crisi del capitalismo liberale – riveli la natura con-traddittoria della democrazia liberale e, più in generale, della cittadinanza borghese. I diritti sociali, a loro volta, secondo Marshall, presentano una dinamica contraddittoria: sono ammissibili se servono per attenuare la diseguaglianza e quindi il conflitto sociale, ma non devono superare la soglia oltre la quale possano costituire una minaccia per «la permanente efficienza della macchina sociale» (Marshall [1950] 1992, p. 20), cioè per «il sistema di classe» e l’accumulazione capitalistica. Dunque, i critici che rimproverano a Marshall di ridurre la questione dei diritti a quella di una politica di welfare per mantenere la pace sociale, non considerano che egli stesso è criticamente consapevole di tale riduzione. Un’istruzione di base, egli osserva ad esempio, poteva andar bene in quanto «accresceva il valore del lavoratore senza renderlo eccessivamente colto rispetto al suo rango» (Marshall [1950] 1992, p. 21).

Le classi lavoratrici si affrancano dapprima con la liberazione dai vincoli premoderni, poi con il diritto di voto, e assumono man mano da protago-niste, come scrive Polanyi, il ruolo di «difendere» gli individui e la società stessa dal meccanismo distruttivo del mercato. Già nel XIX secolo c’è una connessione tra questo ruolo e i diritti, non solo civili e politici, ma anche sociali. Marshall cita in proposito la legislazione sulle fabbriche e il diritto all’istruzione, affermando che questo diritto è «requisito necessario della libertà civile» (Marshall [1950] 1992, p. 16). E come sarebbe altrimenti concepibile, egli aggiunge, la «democrazia politica»? Come è altrimenti possibile perseguire «la salute sociale della società»?

Partendo da questi interrogativi di Marshall e interpretando quella che sembra anche una sua tesi, si può dire che la moderna società ca-pitalistica produce oggettivamente con il suo stesso sviluppo l’esigenza di affermare, rinnovare ed estendere diritti economici e sociali. Solo in questo modo è possibile perseguire la libertà e la democrazia, e, nello stesso tempo, un’organizzazione economica efficiente dal punto di vista

del benessere umano e del migliore adattamento all’evoluzione tecnica e all’ambiente naturale. Sarebbe, in realtà, possibile. È difficile sapere se l’umanità riuscirà mai ad arrivarci. Quel che si sa è che occorrerebbe intanto superare l’ostacolo del contrasto messo in luce da Marshall fra cittadinanza e struttura di classe, per cui lo sviluppo della prima risulta vincolato all’esigenza che la seconda permanga. Egli sostiene, infatti, che proprio nel XX secolo, quando lo status del cittadino tende a perfezionarsi con lo sviluppo dei diritti sociali, «la cittadinanza e il sistema di classe capitalistico si fanno guerra» (Marshall [1950] 1992, p. 18).

La radicalità con la quale Marshall pone la questione del «sistema di classe» e la sua sensibilità per le contraddizioni dello sviluppo della società capitalistica sono, a mio avviso, buoni argomenti contro la critica, che gli è stata rivolta, di essere evoluzionista. La tesi dell’emergere dell’esigenza dei diritti sociali non è evoluzionista, nella misura in cui si basa su una teoria ‘falsificabile’ della società capitalistica e della sua dinamica. La successione temporale dei diritti civili, politici e sociali va riferita a tale di-namica. Inoltre, essa è in Marshall solo un’indicazione di massima, che non esclude sfasamenti e inversioni, e che, soprattutto, invita a riconsiderare di volta in volta il rapporto fra i diritti, per comprendere il significato e la consistenza di ognuno di essi nei diversi contesti storici. Quanto vale, egli si chiede per esempio (Marshall [1950] 1992, p. 18), la libertà di parola senza il diritto all’istruzione e all’informazione? D’altra parte, l’estensione no-vecentesca dei diritti civili dagli individui alle associazioni o corporazioni, e alla sfera economica, ha consentito ai lavoratori, per esempio mediante la contrattazione collettiva, di elevare il loro status sociale ed economico: di ottenere il riconoscimento di diritti sociali che spettano loro in quanto cittadini (Marshall [1950] 1992, p. 26).

Arriviamo così al tema del divario sistematico fra l’universalità formale dei diritti e l’effettivo godimento di essi, che dipende invece dalla condizio-ne sociale di ognuno. I diritti moderni implicano tipicamente eguaglianza, creando una netta frattura rispetto alla gerarchia premoderna. Ma una diseguaglianza di altro tipo, riguardante la ricchezza e il potere dei singoli, è insita nei rapporti di produzione capitalistici; essa viene preservata ad ogni costo e impedisce un’eguale fruizione dei diritti, anche dopo la loro formale generalizzazione. Il divario crea tensione, e quindi conflitti e rifor-me. Il diritto di voto dovette gradualmente diventare universale. Il diritto di sedere nella Camera dei Comuni dovette essere aperto a prescindere dal censo e, anzi, garantito pagando (dal 1911) gli eletti. Ma la conquista di questo riequilibrio formale non bastava; essa, anzi, ha posto in eviden-za la questione ulteriore della diseguaglianeviden-za sociale e quindi dei diritti sociali. È in questo senso che Marshall menziona la difficoltà di eliminare il monopolio di classe sia nel campo dei diritti politici e del loro effettivo esercizio sia in quello dei diritti civili, per esempio nell’amministrazione della giustizia. Anche quando i premoderni vantaggi di status siano

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ti, resta l’ostacolo dell’ineguale distribuzione della ricchezza e in generale della diversa condizione di vita degli individui, delle loro diverse capacità: di quelle che dipendono dalla loro situazione sociale, non dalle loro qualità personali. Tale diversità condiziona anche le effettive possibilità di ottenere giustizia e in generale l’eguaglianza della legge per tutti. I diritti sociali sono il rimedio che la società, dato il modo in cui è organizzata e funziona, rende necessario: imponendo, però, che esso rimanga parziale, provvisorio, illusorio. E se Marshall constata la tendenza alla progressiva affermazio-ne di tali diritti, tocca a noi, ai nostri giorni, subire la controtendenza, la controriforma.

La lotta di classe – insieme ai profondi cambiamenti della tecnica e dell’organizzazione della produzione, nel loro rapporto con gli altri aspetti della vita sociale – ha trasformato la società. I ‘poveri’, divenuti lavoratori, hanno gradualmente ottenuto con le loro lotte il passaggio dal soccorso caritatevole – che consentiva loro di vivere, ma ai margini della società – ai diritti, che configurano la loro cittadinanza e, poi, danno loro qualche mez-zo per renderla effettiva, almeno tendenzialmente. Robert Castel (1995) ricostruisce magistralmente la storia della conquista di diritti e sicurezza. Il ruolo del salariato implica formalmente la sua libertà e un posto nella società, ma inizialmente la sua condizione resta quella del povero, di fatto se non di diritto. Il passaggio alla società moderna, di mercato e industriale, ha privato masse sempre più ampie di individui dell’identità culturale e dei mezzi di sussistenza, che erano loro garantiti nelle società precedenti, le quali, certo, non erano né libere né egualitarie. Lo sviluppo capitalistico, mediante indispensabili lotte popolari, approda infine a quella che Castel chiama «società salariale», una società «di simili» (Castel 2004), se non di eguali, in cui si generalizzano i diritti civili e politici e si affermano man mano quelli sociali. Si estendono così a tutti – ma, occorre ribadire, poten-zialmente: di fatto entro i limiti sopra menzionati – la sicurezza, la dignità e la possibilità di partecipare a pieno titolo alla vita sociale, che, in origine, erano garantite solo ai ceti privilegiati e/o possidenti.

Negli anni Settanta del Novecento, secondo Castel, quella tendenza s’inverte, benché l’esigenza a cui essa corrisponde non sia meno reale, anzi sia più forte. Cadono, nell’epoca neoliberale, i limiti posti dalla rego-lazione politica all’autonomia dell’economia e la «condizione salariale» si frammenta; si ricreano frange d’insicurezza e di esclusione, che lo Stato sociale, attaccato e impoverito, non riesce più a ridurre. Ci troviamo tut-tora in questa fase; anzi, con la crisi economica degli ultimi anni, appare sempre più vittoriosa la reazione, l’inversione della tendenza, insomma la lotta di classe condotta, unilateralmente o quasi, dalla classe dominante: quella che Luciano Gallino (2012) ha chiamato «lotta di classe dopo la lotta di classe».