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La democrazia dei partiti

della cittadinanza sociale

3 La democrazia dei partiti

La democrazia postbellica è stata definita anche come democrazia dei partiti. Anche in questo caso la definizione allude ad un mutamento di paradigma. Le istituzioni rappresentative ottocentesche di stampo liberale non conoscevano infatti nulla di simile a ciò che diventano i partiti nella democrazia novecentesca. Per come era immaginata dal liberalismo clas-sico, la funzione rappresentativa dei parlamenti si esplicava nell’elezione di deputati che agissero al posto del popolo, un popolo che non poteva né voleva prendere direttamente l’iniziativa politica.10 Diversamente da quan-to accadrà nella democrazia dei partiti, i deputati dei parlamenti liberali ot-tocenteschi non erano considerati istituzionalmente come i rappresentanti di particolari gruppi sociali o politici, ma – come aveva insegnato Sièyes (Sièyes 1789) – del popolo nella sua unità. Come tali essi dovevano essere protetti nella libertà e indipendenza delle proprie decisioni dall’influenza

9 È ciò a cui allude, come è noto, l’articolo 3 della nostra Costituzione, che dopo aver ri-cordato il principio di eguaglianza ci tiene a precisare che questo principio non deve essere inteso in senso soltanto formale: «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese».

10 Come aveva insegnato esemplarmente Benjamin Constant, la moderna democrazia rappresentativa nasce dalla consapevolezza che la democrazia di stampo antico, diretta e partecipata, non solo è impossibile – per una questione essenzialmente di dimensioni del corpo politico, come già aveva capito Rousseau (Rousseau 1762) – ma anche indesiderabile. Il carattere rappresentativo delle istituzioni politiche è in questo senso espressione del fatto che i cittadini delle moderne nazioni sono felici di liberarsi dei pesanti oneri legati ad un’attiva partecipazione politica, delegando la funzione politica ad un certo numero di rappresentanti. La moderna politica rappresentativa non si fonda dunque per Constant sulla partecipazione, ma proprio sul tendenziale disinteresse dei ‘moderni’ per la vita pubblica. Ciò conferisce loro la libertà – che assume in questo contesto un significato radicalmente differente da quello che aveva avuto nel mondo classico che ne legava il concetto proprio alla attiva partecipazione alla vita pubblica – di poter tornare ad occuparsi attivamente di ciò che solo davvero conta, le proprie faccende private (Constant 1819). L’intuizione qui sottesa al ragionamento di Constant è dunque che una delle caratteristiche più tipiche della democrazia dei moderni sia proprio quell’apatia politica che viene oggi diagnosticata come una delle sue più pericolose patologie. Ad una simile concezione classicamente liberale si rifà Jones (Jones 1954), nella sua celebre difesa delle virtù dell’apatia.

di qualsivoglia corpo sociale intermedio.11 In una simile visione l’esistenza di partiti capaci di condizionare le decisioni politiche dei propri membri non solo era inconcepibile ma era attivamente contrastata. Secondo Carl Schmitt, uno dei più feroci critici della democrazia partitica, i partiti politi-ci avrebbero infatti surrettiziamente introdotto all’interno dei meccanismi rappresentativi del parlamentarismo importanti elementi di democrazia diretta, elementi capaci di minare il fondamentale principio dell’unità della nazione (Schmitt 1923, 1928) che le istituzioni parlamentari erano chiama-te a garantire. In una società di massa, infatti, i partiti riceverebbero dai propri elettori una sorta di mandato plebiscitario che, oltre ad imbrigliare la libertà dei rappresentanti, introdurrebbe nel contempo all’interno della politica parlamentare elementi di conflittualità tendenzialmente insanabili poiché derivanti da contrapposizioni prepolitiche.

La diagnosi di Schmitt, per quanto corrosiva, ha il limite di essere con-dotta tutta dal punto di vista del paradigma liberale della rappresentanza. L’avvento della democrazia dei partiti implica invece, come abbiamo detto, un completo cambio di paradigma, ovvero una sostanziale innovazione nel concetto stesso di rappresentanza politica. Diversamente da quanto avveniva nel quadro della concezione liberale della rappresentanza po-litica, nella democrazia dei partiti il rappresentante non è più «colui che agisce liberamente al posto di» (act for, secondo la terminologia di Pitkin: Pitkin 1967). Egli è piuttosto colui che, assomigliando o appartenendo di-rettamente a una precisa parte della popolazione, si incarica di «rendere presenti delle istanze» (stand for) che preesistono alla sua elezione come esigenze prepolitiche diffuse nella società. In questo modo, secondo Hans Kelsen, la rappresentanza può superare tramite la mediazione dei partiti il proprio carattere fittizio: una democrazia nella quale la rappresentanza non sia ridotta a crassa finzione potrà esistere «soltanto se gli individui si raggruppano secondo le loro affinità politiche» (Kelsen 1929, tr. it. p. 63) riunendosi in quelle formazioni collettive che si chiamano partiti. Per Kel-sen, che sta qui ribaltando consapevolmente il paradigma liberale classico, la democrazia è dunque autentica (e la rappresentanza legittima) solo a patto che tra l’individuo e lo Stato fioriscano quei corpi intermedi contro i quali Sièyes aveva scagliato le proprie invettive.

Questa trasformazione del significato della rappresentanza è

fonda-11 Le maggiori democrazie liberali si dotarono così di regole atte a escludere che i rap-presentanti potessero ricevere dai propri elettori qualsiasi vincolo di mandato. Il mandato obbligatorio fu descritto come un residuo del passato feudale, adatto quando i Parlamenti erano convocati a cadenze irregolari, ma inadeguato alle esigenze deliberative delle ben più continuative istituzioni parlamentari moderne che presupponevano un’ampia libertà di azione dei rappresentanti. L’idea era che un deputato costretto nei limiti di un mandato obbligatorio non avrebbe avuto più la libertà, l’autonomia e dunque anche la dignità neces-sarie a rappresentare in Parlamento la nazione nella sua unità – ovverosia a decidere in sua

Trasformazioni e crisi della cittadinanza sociale

64 Costantini. Cittadinanza sociale e postdemocrazia

mentale. Pur se l’affermazione dei partiti non comporta la reintroduzione di un mandato imperativo propriamente detto (come quello che che era stato tipico dei Parlamenti premoderni, e che durante la Comune di Pari-gi viene recuperato per essere incensato da Marx: 1871), essa comporta nondimeno un controllo permanente dell’attività dei deputati da parte della ‘società’: da parte cioè dei gruppi di elettori organizzati e costituitisi in partiti politici. Il controllo esercitato da questi gruppi modifica l’intera relazione rappresentanti/rappresentati e dunque anche la relazione tra istituzioni e pubblica opinione. Certo, le divisioni della pubblica opinione avevano anche in età liberale un’influenza politica: essa tuttavia era rigi-damente indiretta, confinata com’era al di fuori del gioco parlamentare (Habermas 1962). Con l’avvento dei partiti i Parlamenti si aprono diretta-mente alle pubbliche opinioni e ai loro conflitti che iniziano a premere con inaudita efficacia sul gioco parlamentare, modificandone la natura.12 La rappresentatività di un Parlamento si comincia a calcolare qui sulla base di un principio nuovo: il principio di somiglianza tra rappresentanti e rap-presentati. Un tale principio non ha alcuna continuità con il principio della libera rappresentanza liberale: il Parlamento liberale non sentiva di dover essere lo specchio di alcuna società a sé esterna, né di dover rappresentare i suoi molteplici e conflittuali interessi. Esso rappresentava il popolo solo in quanto agiva in sua vece, non in quanto forniva ad esso la possibilità di un’espressione mimetica della sua interna pluralità.

La storia politica europea del XIX secolo era stata segnata in profondità da una vera e propria lotta dei parlamenti borghesi contro il riconosci-mento e la legalizzazione dei partiti, in particolare di quelli di ispirazione socialista . Ed in effetti fino agli inizi del XX secolo le costituzioni, i regola-menti parlamentari e le leggi dei maggiori Paesi europei non riconobbero ai partiti alcun ruolo (Leibholz 1973). È solo con l’avvento della società di massa e con la parallela emancipazione politica delle classi popolari che i partiti cominciano ad assumere il ruolo fondamentale che la demo-crazia postbellica ha poi tributato loro. Superata l’ebbrezza plebiscitaria dei fascismi,13 nelle moderne liberal-democrazie di massa fondate sul

suf-12 Secondo Rosanvallon, la diffidenza nei confronti degli organi rappresentativi li ac-compagna sin dalla loro origine. Il sorgere di poteri contro-istituzionali di controllo, ed in particolare del potere della pubblica opinione, sarebbe frutto di questo originario deficit di fiducia. Il carattere strutturale di questo deficit rende necessario per Rosanvallon integrare nella nostra comprensione operativa delle istituzioni democratiche anche queste forze, che egli definisce «contro-democratiche» (Rosanvallon 2006).

13 Marx aveva capito bene – e in questo la lezione del bonapartismo era stata illuminante (Marx 1852) – che la stessa concessione dei diritti politici alla totalità del popolo poteva essere sfruttata in senso conservatore, trasformandola in uno strumento di rafforzamento dei rapporti di potere e dunque delle diseguaglianze esistenti. Il bonapartismo – questa evoluzione del cesarismo adatta al contesto di una società di massa che è stata uno dei principali incubatori politici del fascismo (Gramsci 1981) – è capace di superare di un balzo

fragio universale i partiti sono divenuti così gli organi che mediano tra le diverse componenti del popolo e le istituzioni, permettendo agli interessi delle sue diverse parti di trovare nella rappresentanza politica una forma di espressione non distruttiva della propria intrinseca conflittualità (cfr. Mouffe 2000). Da questo punto di vista la riorganizzazione postbellica delle istituzioni democratiche – e dunque anche la nascita del welfare

state e della cittadinanza sociale – è stata il frutto di un nuovo equilibrio o

compromesso tra quelle forze sociali che attraverso i partiti avevano tro-vato rappresentanza parlamentare, un equilibrio all’interno del quale, per dirla con Claus Offe, «il deficit di potenza sociale del proletariato sarebbe stato compensato da un vantaggio di potenza politica» (Offe 1981, p. 77), barattando la regolazione della società e la conservazione dell’ordine con il progressivo ampliamento dei confini della cittadinanza sociale.14