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Il lavoro: via d’uscita dalla povertà?

trasformazioni globali, crisi, prospettive

2 Il lavoro: via d’uscita dalla povertà?

Nei cosiddetti ‘Trenta gloriosi’ successivi alla Seconda guerra mondiale, la povertà dei lavoratori era ritenuta essere un problema quasi esclusi-vamente del Sud del mondo. Nel Nord, essa era un fenomeno tipico del periodo della rivoluzione industriale, ma all’epoca – si affermava – il lavoro proteggeva dalla povertà. La ricerca sociale riportava di una crescente mobilità verticale. La povertà estrema era diminuita, i consumi aumenta-vano, i diritti di cittadinanza erano ‘universalmente’ riconosciuti, lo Stato interveniva come pianificatore della direzione economica, la democrazia era in espansione. La povertà materiale e psichica dei lavoratori salariati non andava ricollegata allo sviluppo dei rapporti economici e sociali ca-pitalistici, ma era un residuo del passato, destinato a essere spazzato via dall’espansione del mercato. Sulla scia del processo di decolonizzazione, i teorici della modernizzazione generalizzarono quest’ottimismo – basato

su un’analisi parziale di una specifica fase dello sviluppo capitalistico nei Paesi occidentali – a tutto il mondo.

Nei saggi Esortazioni e profezie, scritti durante la grande crisi del 1929, John Maynard Keynes aveva rappresentato la crisi come un periodo tran-sitorio, che preludeva a una fase di crescente benessere: «Il problema del bisogno e della miseria, e la lotta economica tra le classi e i Paesi, non è che un terribile pasticcio, un pasticcio contingente e non necessario» (Keynes 1968, p. 12). Il mondo occidentale aveva tutte le risorse per supe-rare il problema della povertà, doveva solo trovare l’organizzazione politica adeguata per utilizzarle. «Mi sentirei di affermare che di qui a cento anni il livello di vita dei Paesi in progresso sarà da quattro a otto volte superio-re a quello odierno» (Keynes 1968, p. 277). La csuperio-rescita della produttività avrebbe permesso una riduzione dell’orario e del carico lavorativo ponendo le basi per realizzare una vera e propria ‘beatitudine economica’. Questa ‘profezia’ si basava su due principali premesse: che l’incremento della produttività porti alla riduzione della giornata lavorativa (si veda anche Samuelson 1973, p. 81) e che i ‘Paesi in progresso’ siano delle economie nazionali chiuse.1 Essa presupponeva, in ultima istanza, la visione armo-nica dello sviluppo capitalistico esposta, seppur contraddittoriamente, dall’economia politica classica, secondo cui la produzione era destinata a soddisfare i bisogni della popolazione sia al livello nazionale che a quello internazionale: due piani intesi come separati, escludendo dal modello teorico investimenti esteri e migrazioni internazionali. Le conseguenze negative dello sviluppo capitalistico sulla condizione operaia non erano da considerarsi l’espressione di un antagonismo strutturale tra capitale e lavoro salariato, ma sacrifici necessari a raggiungere la ‘ricchezza della nazione’ e il ‘benessere generale’.

Messe tra parentesi le devastazioni della Grande Crisi e della Seconda guerra mondiale, nei cosiddetti ‘Trenta gloriosi’ questa ‘profezia’ sembrava finalmente in procinto di realizzarsi. Per Thomas Marshall, la direzione del mutamento sociale nei primi cinquant’anni del Novecento, «quasi esclu-sivamente in Europa e negli Stati Uniti» (Marshall 1956, p. 98), era quella della progressiva universalizzazione dei diritti dalla sfera giuridica e politi-ca a quella sociale; era in corso l’ultima fase di un processo evolutivo della cittadinanza nella direzione della realizzazione dell’uguaglianza sociale. Il welfare state nato dopo la Seconda guerra mondiale in Gran Bretagna si basava sul principio della distribuzione del reddito nazionale. In campo sanitario e scolastico «lo Stato si accingeva a rispondere integralmente ai bisogni del cittadino, indipendentemente dal suo status economico» (p. 224). Si stava realizzando una «fusione costante della civiltà di classe

1 Nelle sue lezioni del 1910-14 a Cambridge, Keynes sostiene la validità della legge della po-polazione di Malthus nei Paesi ‘sovrappopolati’ del Sud del mondo (Toye 2005, pp. 133-134).

Trasformazioni e crisi della cittadinanza sociale

192 Pradella.  in Europa Occidentale

in un’unica civiltà nazionale», che rendeva antiquato il concetto stesso di ‘classe sociale’. Per Marshall, tuttavia, il movimento egualitario della cittadinanza era un risultato di circostanze storiche determinate e non avrebbe mai potuto portare a una piena uguaglianza tra i cittadini perché esso trovava un limite strutturale nei rapporti sociali diseguali propri del capitalismo che implicavano necessariamente un certo grado di disegua-glianza (p. 65). Marshall non individuava le forze sociali trainanti di tale movimento, il quale sembra derivare dalla ‘struttura della cittadinanza’, non dalla lotta organizzata dei lavoratori. Come Keynes, egli presentava la riduzione dell’orario di lavoro e l’aumento dei salari come ‘gli effetti gemelli’, quasi spontanei, del progresso economico (p. 189). Egli indicava inoltre i metodi di cooperazione con cui sarebbe stato possibile creare una specie di ‘cittadinanza’ anche nel ‘microcosmo’ della fabbrica cointeres-sando gli operai alle necessità dell’impresa: una proposta, per il mondo anglosassone, del principio tedesco della cogestione.

Nello stesso periodo, in Germania Ovest, la società sembrava ormai essersi incamminata su un percorso di completa integrazione. Per Ralf Dahrendorf ([1959] 1971, p. 106), la diffusione dell’‘uguaglianza sociale’ rendeva impossibile la lotta di classe e smentiva in pieno la tesi marxiana secondo cui le condizioni della classe borghese e della classe proletaria sono tendenzialmente caratterizzate dai due estremi della ricchezza e della povertà. Ludwig Erhard, il cancelliere della Repubblica Federale, presentava la società tedesca come immunizzata dai conflitti sociali, dalla contrapposizione e dall’esistenza stessa delle classi. L’integrazione sociale mirava alla costituzione della «formierte Gesellschaft», di una società equi-librata fondata sulla collaborazione di tutti i suoi membri. Tale stabilizza-zione interna era la condistabilizza-zione per l’espansione internazionale del capitale tedesco (Collotti 1968, pp. 718-719). Il governo cristiano-democratico stava cercando di realizzare la «soziale Marktwirtschaft» («economia sociale di mercato») teorizzata negli anni Venti da Walter Rathenau. Secondo Rathe-nau ([1919] 1976, p. 21), il rilancio dell’economia tedesca era possibile solo ampliando la sfera d’intervento dello Stato e assicurando la collaborazione delle classi ‘inferiori’ attraverso l’aumento dei salari reali e del tenore di vita: trasformazioni che erano possibili, a suo dire, solo incrementando al massimo la produttività.

Una critica pratica alla tesi, allora imperante, dell’integrazione venne dalla classe operaia stessa, con il risveglio della sua lotta – soprattutto in Francia, in Italia, in Germania e in Belgio – dopo il 1968. Le conquiste operaie di quegli anni finirono però col rafforzare l’ottimismo nella società capitalistica: per Paolo Sylos Labini (1975), essa stava evolvendo verso una sempre maggiore eguaglianza economica e sociale; la classe operaia era in ascesa e quelle medie in espansione. Fu proprio la lotta operaia a porre le premesse perché il concetto stesso di classe sociale, dalla fine degli anni Settanta, fosse messo nel cassetto per lasciare il posto a quello di

«indivi-duo sovrano». Nelle società ‘postindustriali’, non solo la contrapposizione ma le classi stesse erano definitivamente scomparse; centrali erano ormai i flussi immateriali, la comunicazione, le idee. Le nuove tecnologie permet-tevano la completa sostituzione dell’uomo nel processo produttivo: iniziava l’epoca della «fine del lavoro».