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Alcuni aspetti della Romania del regime comunista

Il contesto rumeno – un quadro favorevole ai flussi migrator

2.1. Alcuni aspetti della Romania del regime comunista

Sto solo e mi chiedo/ Perché sono andato via di casa Sarà la maledizione secolare che ci opprime? Perché nulla ho sbagliato, ma tanto ho sofferto, Sono stato denigrato da quelli che ho amato. (…)16

Ho aspettato, con tanta ansia, di tornare

Mi avete giudicato, condannato, ma chi siete voi?

Il vostro tempo è passato nell’ombra del grande U.R.S.S.17

Ma gli unghioni vi sono rimasti e fa male anche oggi Qualsiasi bacio sulla guancia.18

Datemi indietro la vita, quello che ho sprecato per voi! Le foglie sono cadute, le tempesta le ha disperse,

Dove sono le speranze? Non ne è rimasta una, Un pensiero stupido, muto, mi pietrifica:

16 Ho scelto di inserire questa canzone del gruppo rumeno “Phoenix” perché la storia dei suoi membri è significativa per

il periodo del comunismo in Romania. Negli anni ’70 il gruppo rappresenta un modello di vita per numerosi giovani, promuovendo nel Paese la musica rock nata dalla valorizzazione di numerosi testi folcloristici. Il successo della loro musica, lo stile di vita che introducono tra la generazione dei jeans importati e dei capelli lunghi hanno costituito subito una minaccia per il regime ostile a qualsiasi modello occidentale. L’apice del loro messaggio musicale è raggiunta attraverso una serie di canzoni in cui i rumeni riconoscono allusioni più o meno velate al regime e al dittatore Ceauşescu. Una di queste canzoni, “Il matto con gli occhi chiusi”, è rimasto un manifesto chiaro contro il regime, e viene vietata insieme a tutte le altre produzioni del gruppo. Un'altra loro canzone parla del sogno di un piccolo canarino di fuggire dalla gabbia, ma la realtà cruda lo fa solo sbattere contro le sbarre.

17 In rumeno la frase è un gioco di parole tra l’abbreviazione dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche e la

parola “urs”, significante “orso”. L’allusione è fatta alla nomenclatura comunista, cresciuta sotto la dominazione dell’Unione Sovietica, dipinta nell’immagine dell’animale enorme, minaccioso.

18 Il bacio sulla guancia era un’abitudine ricorrente tra i capi di stato del blocco sovietico, riprodotta spesso durante i

Cosa ho aspettato? Cosa ho sognato, se nulla è cambiato?19

Ma datemi indietro la vita, quello che ho sprecato per voi! (Phoenix, In umbra marelui urs)

La storia della Romania moderna non comincia con l’istallazione del regime comunista, dopo la seconda guerra mondiale, ma ho scelto di cercare in questo periodo le radici di fenomeni che influenzano oggi la vita del Paese a causa della sua durata di quasi mezzo secolo e dell’enorme impatto che ha registrato sulla popolazione e sulla configurazione dello stato rumeno attuale.

Sono molti i rumeni che, attraverso un esercizio di immaginazione, cercano di ipotizzare una Romania con un destino diverso, provando a ipotizzare cosa sarebbe accaduto se la casa reale tedesca di Hohenzollern-Sigmaringen, che tra il 1866 ed il 1947 ha portato il paese all’indipendenza prima, ed alla “grande unione” con la Transilvania più tardi, nel 1918, avesse proseguito la sua azione di governo. Probabilmente il fatto che l’ultimo re dei rumeni, Mihai I20, sia ancora in vita,

mantiene nella coscienza dei rumeni la nostalgia di un destino diverso. Incoronato nel 1940, forzato ad abdicare nel 1947, in seguito alla sua evidente opposizione alla politica di sovietizzazione nell’Europa dell’Est, e di conseguenza contrario all’emergente ideologia del partito comunista rumeno, il Re Mihai I rimane una figura molto carismatica nel paesaggio della Romania del post 1989. Nelle poche apparizioni televisive, il Re continua a stupire con le rivelazioni su un periodo ancora poco chiaro della storia dei rumeni, che fu la seconda guerra mondiale e l’ulteriore ascesa al potere del partito comunista. Contrario a quanto accaduto in Bulgaria, il Re Mihai I non ha mai formato o sostenuto un partito pro- monarchico.

Per tanti aspetti, la Romania deve ancora fare conti con il periodo del regime comunista, sia per l’eredità inevitabile sia per la mancanza di volontà politica di svelare il ruolo di quella che fu l’attività della polizia segreta di stato, la “Securitate”.

Un aspetto costante del periodo del regime comunista, continuato anche dopo il 1989, è il forte nazionalismo diffuso sia a livello di istituzioni che a livello dell’opinione pubblica rumena. La storia di questo costrutto ha radici lontane, legate alle idee herderiene che evidenziano il legame profondo tra il “popolo” la lingua che accomuna i suoi memebri, e conosce metamorfosi e costanti durante tutte le epoche storiche delle Province rumene, ancora prima della unione in un unico paese, nel 1918. I discorsi ufficiali, ma anche la percezione dei rumeni, oscillano tra esaltazione

19 Il gruppo “Phoenix”, forzato all’esilio, ha avuto grande successo nella Germania di Ovest. Nel 1992 alcuni membri

del gruppo sono tornati in Romania e hanno ripreso una serie di concerto che hanno attirato l’interesse sia del pubblico della loro generazione, che quello dei giovani che non li avevano mai sentito prima.

20 La Regina Vittoria dell’Inghilterra è la bis-bisnonna di Re Mihai I di Romania, mentre la Regina Elisabetta II è sua

dell’identità nazionale e la sua profonda negazione. Come in tutti i casi di affermazione di uno stato nazionale, le basi di una formazione politica sono state cercate in uno “specifico autoctono” capace di individuare e di delimitare l’unicità di un popolo rispetto ad altri.

In maniera rimarcabile, inventando la nazione, gli intellettuali la cercavano da altre parti: nella cultura popolare e nel passato lontano. In altre parole, pretendevano che non la stessero inventando, ma solo scoprendo. Si spiega quindi il loro interesse per il folclore, l’entusiasmo con cui i patrioti eruditi hanno raccolto (e, generalmente, hanno “modificato” senza tanti scrupoli) la poesia, le tradizioni e le credenze popolari. Creazione della modernità, creazione di una elite, la nazione rifiuta le sue origini recenti ancorandosi nel passato e nelle profondità della cultura, portatrice di un fondo perenne. (Boia, 2002a, p. 42)

Il periodo interbellico ha costituito, per uno stato nuovo come la Romania, un laboratorio di preparazione e di selezione di elementi e di eventi storici capaci di sostenere l’identità nazionale dei rumeni, vista soprattutto la “riconquista” della Transilvania, nel 1945, dove la popolazione ungherese era diventata una minoranza. Nascono così le basi per la futura manipolazione del folclore, per la sua trasformazione in spettacolo durante il periodo comunista, ma anche durante la transizione, fino ai giorni nostri, in cui le televisioni rumene sono ancora dominate dalle trasmissioni “folcloristiche”. In realtà, la selezione e la trasformazione della produzione folcloristica in strumento per celebrare il regime ha motivazioni e ruoli multipli, portando ad un processo di progressiva perdita del valore artistico delle produzioni:

Dobbiamo ricordarci che le scuole del regime nazional- comuniste non erano molto diverse da quello interbelliche, nel senso della ripresa della propaganda intorno ai valori culturali rurali. Il risultato è stato il l’eccesso di folclore durante gli anni della dittatura di Ceauşescu, uno di quegli elementi che mostrano oggi i suoi effetti nel rifiuto di adattarsi di vasti segmenti sociali al comportamento specifico urbano e nella dinamica modesta del movimento sociale. (Neumann, 2001, p. 107)

L’affermazione dello storico Victor Neumann conferma la mia supposizione legata alla formazione, durante il regime comunista, di un’ampia fascia di popolazione sottoposta in maniera più o meno forzata all’urbanizzazione, ma incapace di rinunciare alle abitudini e al modo di pensare caratteristico dell’ambiente rurale. Questa identità ibrida, sradicata dal suo ambiente e dai valori (o non valori) dei villaggi rumeni dopo la seconda guerra mondiale, fino alla fine della dittatura di Ceauşescu, ha cominciato a popolare le città comuniste industrializzate. La sovrabbondanza di trasmissioni che esaltavano il folclore, la musica “tradizionale”, la vita nei villaggi ecc., erano in evidente contraddizione con il piano di urbanizzazione del Paese, e riuscivano a tenere la popolazione sradicata in una sorta di “limbo” tra campagna e città, legati ad uno stile di vita in via

di estinzione. Questa inadattabilità si svolgeva sullo sfondo della collettivizzazione delle terre, avvenuta nel 1949, della distruzione di interi villaggi e del mito della costruzione del socialismo a cui erano chiamati tutti i cittadini. Per i contadini trasformati in breve tempo in abitanti delle città, spesso l’offerta di lavoro si trovava esclusivamente nelle grandi fabbriche, mentre l’alloggio veniva garantito nei “quartieri ghetto” costruiti per accoglierli, intorno alle zone industriali.

A mio avviso, l’incompatibilità di questa fascia della popolazione con il nuovo ambiente urbano si è sempre tradotta attraverso alcuni segni visibili, espressi nel continuare a realizzare attività e abitudini legate al mondo rurale da dove provenivano: l’arredamento degli appartamenti, la coltivazione di un piccolo pezzo di terra nel quartiere (sicuramente utile anche alla sussistenza), l’attaccamento alle produzioni folcloristiche, la cucina “tradizionale”, alimentata dall’uccisione di maiali anche davanti ai palazzi intorno al periodo di Natale, tutti i fine settimana trascorsi in campagna (se nel villaggio erano rimasti i genitori o una casa), la socializzazione all’aperto, senza frequentare luoghi della cultura, l’allevamento di galline e maiali vicino al palazzo, se lo spazio lo permetteva, ecc. Nella mia visione, queste persone diventano quasi a-culturate, vivendo tra due mondi in continua trasformazione sotto l’influsso delle ideologie del momento, incapaci di riconoscersi nel nuovo aspetto delle campagne, dove la terra apparteneva ormai al “partito-stato” e non più alle persone, nell’impossibilità di adattarsi ai ritmi urbani. Proprio questa ampia fascia di popolazione “ibrida” ha optato, dopo la caduta del regime, per la migrazione all’estero, in quanto già profondamente sradicata.21 Alcuni tra di loro, invece, dopo la legge del 1991 che permette la

restituzione delle terre ai vecchi proprietari, scelgono di ritornare nel villaggio, affittando o vendendo gli appartamenti in cui vivevano in città. Il processo di ri-ruralizzazione si manifesta in tutto il Paese, costituendo un lo sfondo per i flussi migratori a partire dagli anni Novanta. Sulle trasformazioni che avvengono nel Paese in seguito a questa politica del regime, Lucian Boia (2002) commenta:

L’elite, poco numerosa e formando in un certo senso un corpo a parte, era stata polverizzata (alcuni membri avevano lasciato il Paese, altri sono passati per le carceri o sono arretrati sulla scala sociale, mentre altri ancora si sono mischiati, si sono persi nella “nuova società”). I contadini, d’altra parte, sono quasi spariti come contadini, se definiamo il contadino attraverso il suo rapporto – materiale e sentimentale – con la terra. La collettivizzazione lo ha trasformato in proletario agricolo. In più, l’industrializzazione forzata ha assorbito una fascia rurale importante, riversandola nelle città. Si è così creata una categoria di abitanti, sradicati dal villaggio ma non ancora integrati realmente nella civiltà urbana. Tutte le strutture sono state confuse. Tantissimi rumeni si sono trovati in una posizione sociale completamente

21 In grande misura, le abitudini che queste persone portano con se dal ambiente rurale vengono messe in atto anche

all’estero, alimentando le reazioni di sfondo razzista verso “i rumeni”, proprio in base all’osservazione di atteggiamenti incompatibili con l’idea di “civiltà”: il consumo di alcolici sui mezzi di trasporto, il consumo di semi di girasole, buttando le bucce per terra, il lavaggio dei piatti senza detersivo, per citare solo alcuni.

diversa da quella da cui erano partiti. Si è formata, da operai, da contadini, quasi da un giorno all’altro, una nuova classe politica e una nuova intellettualità.22 (p. 100)

Gli effetti del piano di urbanizzazione che riguardava tutte le zone rurali della Romania ha portato, oltre alle influenze scontate sulla riconfigurazione delle classi sociali e dell’industria, una serie di mutamenti nello stile di vita delle persone. Nell’opinione del sociologo Alexandru-Florin Platon (2004), una delle conseguenze evidenti consiste nella

diminuzione drastica dello spazio privato (e, ovviamente, dell’intimità), imputabile sia alla crescita della popolazione urbana sia alla crisi di alloggi del primo decennio postbellico (che ha costretto molte famiglie di vivere insieme in uno spazio insufficiente) e, allo stesso tempo, imputabile alla politica sistematica di distruzione delle solidarietà tradizionale, nello spirito del piano di atomizzare sociale applicato dal nuovo regime. Quindi, proprio l’analisi di questo nuovo stile di vita in connessione con le forme di loisir (anche queste nuove o riciclate: la radio, il teatro, le visite, poi il cinema e la televisione) sarebbe molto interessante, in quanto lascia intravedere non solo quello che era diventata la vita quotidiana durante il regime comunista, ma anche la maniera (e la misura) in cui si riflette, a questo livello, il discorso ideologico ufficiale. (p. 32)

Nella prefazione al volume coordinato da Dobrincu e Iordache (2005), Gail Klingman e Katherine Verdery considerano la collettivizzazione delle terre un aspetto essenziale nella formazione del “partito-stato” in Romania, e non solo come un semplice elemento all’interno del processo di industrializzazione e di urbanizzazione. Il lavoro sulle proprie terre, ma per conto della nuova nomenclatura del villaggio e della città capoluogo, ha provocato delle trasformazioni profonde nella mentalità dei contadini, nella loro percezione della proprietà e, inevitabilmente, nel loro rapporto con lo stato23. Un vero e proprio sistema dei furti si è istallato nelle nuove Cooperative

di produzione agricola (le CAP, create su modello della collettivizzazione russa): i contadini si consideravano giustificati a rubare dalla produzione in quanto in sostanza erano i veri proprietari delle terre, ma anche grazie alla presa di coscienza del fatto che i beni prodotti sostenevano, prima di tutto, l’aumento della ricchezza dei leader di partito locali e regionali, in base al sistema di corruzione che cominciava a colpire tutti i livelli della vita nel Paese. Il possesso di un secondo

22 Un libro di alto valore artistico, Cel mai iubit dintre pamînteni, di Marin Preda, ed il film omonimo, del regista

Şerban Marinescu, raccontano l’apparizione dell’”uomo nuovo”, accolita del partito, e la distruzione dei valori intellettuali del Paese – illustrata dal destino del filosofo incarcerato per le sue idee metafisiche e diventato, dopo la scarcerazione, un addetto alle derattizzazioni. “Dove non c’è amore, non c’è nulla”, è la frase suggestiva attraverso di cui il protagonista del film esprime un giudizio sulle atrocità del regime comunista sintetizzando, in maniera metaforica, la distruzione istituzionalizzata di tutti i valori della società rumena.

23 Secondo i dati a disposizione fino ad ora, entro il 1952 oltre 80.000 contadini sono stati incarcerati per aver rifiutato

la collettivizzazione, di cui 30.000 sono stati condannati. L’opposizione all’ideologia del partito unico trasformava il contadino in “nemico di classe”, oppressore di quelli che non possedevano la terra, immagine di un capitalista individualista che doveva essere soppresso, cancellato.

giardino, solitamente nei pressi della casa, fa parte di un’economia secondaria, destinata a colmare una parte delle carenze del mercato ufficiale:

Also part of the second economy was the so-called “private plot” of collective farm peasants, who held it legally and in theory could do what they wanted with it – grow food for their own table or to sell in the market at state-controlled prices. But although the plot itself was legal, people obtained high outputs from it not just by virtue of hard work but also by stealing from the collective farm: fertilizer and herbicides, fodder for their pigs or cows, work time for their own weeding or harvesting, tractor time and fuel for plowing their plot, and so on. (Verdery, 1996, p. 27)

Anche nel periodo di crisi degli anni Ottanta, quando Ceauşescu, a scopo di affermare la sua indipendenza da Mosca, ma anche per portare al colmo il culto della personalità, ormai opprimente, salda tutti i debiti esterni del Paese, gli attivisti nel partito comunista sono le uniche ad avere accesso ai beni materiali, soprattutto a quelli alimentari.

Come accennavo prima, Ceauşescu e l’intero sistema istituito da lui, hanno utilizzato il costrutto dell’identità nazionale come strumento polifunzionale. La “storia simbolica” (Pippidi, 2000) serviva, da una parte, per affermare la specificità del popolo rumeno nel contesto dei paesi dell’Europa dell’Est, motivo per cui l’immagine dell’”isola di latinità”, ad esempio, è stata accentuata, insieme al “fondo autoctono” tracico. Nei suoi tentativi di arrivare ad una situazione di autonomia rispetto al “colonialismo” russo, Ceauşescu aveva bisogno di questo discorso identitario, impegnato nella sua opposizione aperta al regime di Mosca, soprattutto a partire dal 1968, quando la Romania si dichiara contraria all’invasione della Cecoslovacchia da parte delle truppe russe. Come dimostrano, però, la situazione delle esportazioni massicce, ma anche il colpo di stato del 1989, la dominazione sovietica non è cessata, ma ha solo lasciato al dittatore lo spazio per sviluppare il culto della personalità.

Ceauşescu ha riconosciuto l’utilità del nazionalismo nella presentazione della sua piattaforma ideologica, facendo in modo che il nazionalismo diventasse l’ingrediente principale nella ricetta del comunismo rumeno. Le motivazioni sono semplici: la Romania era un paese che per un lungo periodo è stato dominato dalla dominazione imperialista, con un comunismo di importazione, quindi non accettato dai rumeni. Mettendo insieme le idee del socialismo umanista e progressista con quelle del nazionalismo rumeno e della tradizione folcloristica, Ceauşescu a presentato il comunismo non come un’importazione sovietica moderna, ma come una caratteristica spirituale rumena – risultato di secoli di sofferenza, resistenza e perseveranza. (Massino, 2004)

Un altro scopo dell’esaltazione, durante il comunismo in Romania, dell’unicità del popolo rumeno è quello di giustificare l’ideologia della cancellazione, almeno a livello di politiche ufficiali, dell’esistenza delle minorità come gli ungheresi, i tedeschi, i rom, i turchi, ecc. Il processo di

“rumenizzazione”, afferma Neumann (2001), è cominciato ancora prima dell’arrivo al potere del regime comunista, ed

era accompagnato dalla paura delle rivendicazioni delle minorità linguistiche, culturali e religiose. A volte condotti con abilità, altre volte con la forza, i rapporti con le minorità hanno fatto parte di una strategia che sembrava essere formulata per medio e lungo termine e attraverso di cui si mirava all’assimilazione o all’incentivazione dell’emigrazione.

L’ideologia con tendenze di uniformità a livello di “etnie” presenti sul territorio rumeno è ampliata da Ceauşescu, ma non rappresenta il campo delle maggiori repressioni, in quanto sia la chiesa riformata ungherese, sia le scuole con lingue di insegnamento diverse dal rumeno, ecc., diminuiscono come presenza, ma non spariscono. La chiesa cattolica – greco-cattolica, specifica della Romania, viene invece proibita, i preti obbligati a passare al rito ortodosso o, nel caso di un rifiuto, incarcerati e considerati prigionieri politici refrattari all’ideologia dominante.

La questione delle differenze religiose è stata problematica per il regime da vari punti di vista. L’ortodossia veniva considerato, durante il periodo interbellico, uno degli elementi fondatori dell’identità nazionale, fonte di “purezza” e di “eternità” del popolo. Il regime comunista non ha vietato la chiesa ortodossa, ma il discorso pubblico sulla fede. In più, l’ideologia dell’uomo nuovo, impegnato nella costruzione dell’”epoca d’oro” della Romania, promuoveva un individuo ateo, a cui veniva però tollerata la frequentazione della chiesa di stato. O, meglio dire, la chiesa ortodossa era diventata la chiesa “dello stato”, istituzione monopolizzata dal partito a scopo di controllare meglio la popolazione. La collaborazione di una parte dei capi e dei preti della chiesa ortodossa rumena con la “Securitate” (la polizia segreta di stato) ha permesso al sistema dittatoriale di invadere la sfera privata delle persone, fatto che avveniva già tramite la rete di informatori non appartenenti al clero.

La sovrapposizione dei concetti di stato, Chiesa e nazione – con tutte le conseguenze ideologiche derivanti – a potuto funzionare sullo sfondo del disinteresse intellettuale, coltivato non solo dai politici e dai rappresentanti della Chiesa, ma prima di tutto dall’intellighenzia laica. E da qui le confusioni: la rivendicazione da parte del culto del diritto di esprimersi nel nome della nazione; l’uso della formula “la Chiesa del popolo”; le decisioni in questioni riguardanti