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L’eredità comunista e la situazione economica

Il contesto rumeno – un quadro favorevole ai flussi migrator

2.2. Il processo di transizione nella Romania postcomunista

2.2.1. L’eredità comunista e la situazione economica

Numerose teorie e analisi hanno parlato di un “prima” e un “dopo” il comunismo, ma poche prospettive critiche sono state capaci di cogliere i fattori interni ed esterni che hanno portato ai cambiamenti nell’Europa dell’Est durante il 1989. Tra le prospettive più attendibili su questi argomenti, quella dell’antropologa Katherine Verdery (1996) è rimarcabile, oltre all’erudizione, soprattutto per la profonda capacità di riprodurre, in maniera critica, il contesto rumeno (e non solo) dal suo interno, avvicinandosi alla visione critica di chi ha vissuto di persona questo periodo. Secondo la sua analisi, il crollo del socialismo sud-est europeo avviene, in grande parte, a causa dell’impatto dei mercati di questi paesi con il ritmo diverso dei mercati occidentali verso cui, negli ultimi decenni, si era aperto anche Ceauşescu in termini di esportazioni.

Un altro aspetto che ha contribuito al collasso dei sistemi socialisti in questa parte dell’Europa, sostiene l’antropologa statunitense, è la differenza che si era creata tra “stato” e “nazione”, per cui l’uso, nell’analisi del fenomeno, della parola “etatizare” – “the process of statizing” al posto di “nazionalizzare” (p. 40). L’assenza di isomorfismo tra le due entità, stato e nazione, ha lasciato anche lo spazio per le manifestazioni reazionarie, che hanno disintegrato il sistema dal interno:

Communist Party states were non all-powerful: they were comparatively weak. Because socialism’s leaders managed only partially and fitfully to win a positive and supporting attitude from their citizens –that is, to be seen as legittimate – the regimes were constantly undermined by internal resistance and hidden forms of sabotage at all system levels.25 This

contributed much to their final collapse. (p. 20)

Il dicembre del 1989 rappresenta, per i rumeni, la fine formale della dittatura comunista ma solo l’inizio del lungo processo di elaborazione e distacco dall’eredità del regime. Nel capitolo 6 (paragrafo 6.1) ho ripreso la discussione sul significato simbolico dell’anno 1989 come “anno zero”, in realtà solo una tappa nella transizione del Paese, non un “turningpoint” radicale, nonostante la sparizione fisica della coppia dei leader Ceauşescu. Per una serie di motivazioni argomentata nell’ultimo capitolo, personalmente aderisco alla versione degli storici rumeni sulla interpretazione degli eventi del 1989 come un “colpo di stato” a livello politico e come spontanea manifestazione della popolazione che riempie le strade delle principali città, la cosiddetta “Rivoluzione”.

Come nella breve analisi del periodo comunista in Romania, questo paragrafo accenna solamente ad alcuni aspetti della “transizione”, in quanto un fenomeno estremamente complesso, ancora indecifrabile per intero. A scopo di costruire una cornice del contesto rumeno da cui nascono, dal inizio degli anni Novanta, diversi flussi migratori verso paesi europei e verso altri continenti, alcune riflessioni verranno fatte sulla situazione economico-sociale del Paese, soprattutto legate all’ impoverimento delle donne, alla condizione dell’infanzia e alle riforme riguardanti vari livelli. I primi anni dopo il crollo del Muro di Berlino hanno portato dei cambiamenti radicali sulla “carta mentale” degli stati del ex-blocco sovietico, avviando questi paesi sulla strada delle riforme sviluppate con ritmi e caratteristiche diverse, ma unite dal progetto di progressivo distacco dall’eredità del sistema comunista.

La violenza con la quale è stata accolta la manifestazione della popolazione rumena sulle strade in quell’“inverno del nostro scontento” del 1989 - per parafrasare il titolo del romanzo di Jonh Steinbeck (1962) – è stata interpretata come una continuazione evidente della politica del terrore che ha favorito, in parte, il mantenimento del potere da parte del sistema dittatoriale. Oprea (2006, p. 28) sostiene che la violenza e la segretizzazione fanno parte dell’eredità che il governo filo-comunista istallato dopo il 1989 ha proliferato – attraverso la diffusione della paura legata al terrorismo di stato, colpevole delle morti della “rivoluzione”, attraverso le distruzione e le minacce operate durante le due manifestazioni dei “minatori” – a scopo di continuare ad esercitare il controllo sulla popolazione. All’interno di questo quadro si possono leggere anche i numerosi conflitti di carattere “etnico” avvenuti soprattutto durante il primo decennio postcomunista. La politica di uniformità etnica condotta dal partito comunista non è stata capace, quindi, di cancellare vecchie antinomie. La strumentalizzazione del nazionalismo rumeno, il pluripartitismo che ha permesso l’apparizione di gruppi politici estremisti (come, ad esempio, il partito “România Mare” – “Romania Grande”) e di partiti “etnici” (come UDMR – l’Unione Democratica dei Magiari della Romania o “Partida rromilor”) possono essere considerati fattori che hanno favorito il confronto diretto tra le “etnie” conviventi sul territorio rumeno. Inoltre, come evidenzia anche Katherine Verdery (1996), i partiti rumeni estremisti

also adopeted the time-honored language of opposition to Europe, used since the mid-nineteenth century all over the region to resist both penetration by Western capital and the dislocatine introduction of Western political reforms. In its 1990s forms, this discourse inveights against the “return to Europe” proposed by those favoring market reform, privatization, and democracy. (p. 90)

Fino ai giorni di oggi, i mass-media e l’opinione pubblica identificano i partiti nazionalisti con la vecchia “Securitate” e con l’orientazione comunista. Il vecchio nemico, costruito nell’ipostasi dei “capitalisti”, cerca un sostituto nel “nemico interno”:

These argue that the former Securitate and its successor organization are sowing discord among Romania’s national groups, blaming Gypsies, jews, and Hungarians for all the country’s woes instead of acknowledging that Party rule itself, in which they so signally collaborated, is responsible for present problems. (...) Anti-European and nationalist rethoric has been associated with the old elite elsewere as well, such as in Hungary, Poland, and Slovakia. (Verdery, 1996, p. 90)

Un simile processo contenente degli elementi di xenofobia sarebbe diffuso, nei paesi del ex blocco sovietico, anche tra stati nazionali, in una prova di autoaffermazione costruita sulla diminuzione delle virtù dei vicini. Nel suo libro del 1993 Klaus Offe, usando il termine di “tunnel” per definire il periodo che l’Europa dell’Est ha passato dopo il crollo del comunismo, sostiene che un fattore che accomuna i processi di transizione di questi paesi è

un modello che consiste da un lato in un grado di <colonizzazione mista>, etnica, religiosa e linguistica del tutto insolita per l’Europa occidentale, dall’altro nella comune tendenza di questi paesi a inserirsi nel processo di modernizzazione che va da Occidente verso Oriente. L’<Est> - con tutte le tradizionali connotazioni negative di questo concetto, quali arretratezza culturale, politica ed economica – comincia sempre al confine orientale del proprio territorio. Marcati sentimenti di superiorità compaiono, senza eccezioni, nel rapporto con i vicini orientali – per i baltici nei confronti dei russi, per questi nei confronti degli abitanti delle Repubbliche asiatiche dell’Urss, per i croati nei confronti dei serbi, per i serbi nei confronti dei bulgari, e per questi nei confronti dei turchi, per gli ungheresi nei confronti dei rumeni – e, caso più palese, per i tedeschi (da parte loro <orientali>) nei confronti delle nazioni facenti parte del Comecon. (p. 171)

Ogni paese dell’Est troverebbe, quindi, il suo proprio “est”.

Il processo di “transizione” da un mercato dominato dallo stato come unico proprietario, alla fase di un mercato internazionale in competizione, coinvolgendo attori sia privati che statali ha rappresentato, anche per la mentalità dei cittadini comuni, un salto problematico. All’impatto dell’economia rumena con la concorrenza, arrivata soprattutto tramite la privatizzazione, le zone del Paese hanno reagito in maniera propria, in base alla già esistente disparità regionale. Non a caso, il ritmo più rallentato dello sviluppo economico e sociale di zone come la Moldavia rumena, nel nord- est, e l’Oltenia, nel sud, ha innescato la formazione di maggiori flussi migratori rispetto ad altre regioni come la Transilvania e il Banat, dove la migrazione ha coinvolto soprattutto i cittadini di origine ungherese e tedesca, motivati da ragioni “etniche”.

Il processo di trasformazione dell’economia rumena, la privatizzazione, le riforme, le ristrutturazioni, sono aspetti che hanno agito in maniera differenziata sulla popolazione, accentuando molto di più, rispetto al periodo comunista, la divisione delle classi in base al possesso del denaro. La visione di Poznanski (2006) sulle tre tappe di crisi della transizione dei paesi dell’Est europeo attira l’attenzione sull’eredità comunista che diventa una base in negativo dei primi anni del processo di trasformazione di queste società. La corruzione generalizzata e istituzionalizzata del sistema comunista non viene combattuta, ma utilizzata come opportunità di arricchimento personale, sul modello della vecchia nomenclatura di partito. La sua influenza è talmente forte da continuare a manipolare anche nei giorni di oggi la classe dirigente (sia politica sia imprenditoriale, che in realtà spesso coincidono).

Nel 2003, in un momento abbastanza avanzato della “transizione” del Paese, già attento al adeguare le sue politiche economiche e sociali agli standard dell’”acquis” comunitario in vista dell’adesione all’Unione Europea, il Report realizzato dalla “Societatea Academică din România” usa toni estremamente negativi nella valutazione della situazione del Paese. Realizzato nel quadro del Progetto “Policy Warning Report”, il documento evidenzia, ancora dall’inizio, l’autonomia delle opinioni dei ricercatori coinvolti rispetto alla visione del Programma della Nazioni Unite per lo Sviluppo, la quale ha coordinato il progetto.

Nella sezione dedicata all’economia, Sorin Ioniţă (2003) parla di un “ritardo”, di un “deficit di sviluppo” manifestato attraverso alcune conseguenze come il reddito pro capite basso (75 euro per lo stipendio minimo e 135 euro per lo stipendio medio), l’assenza di una competitività seria, il livello basso della tecnologia e la migrazione della popolazione giovane. La situazione economica del paese, considera l’autore dello studio, è attribuibile alla “organizzazione invecchiata e rigida, alle sovvenzioni e al controllo dello stato, alla mancanza di stimoli e al clientelismo. (p. 12) L’incapacità del governo di progettare e di implementare le politiche sociali sono un altro aspetto che contribuisce al “sentimento di smarrimento e di insicurezza nella società rumena” (idem). Secondo le statistiche presentate in questo Report il Paese si situa, nel 2003, all’ultimo posto in Europa per quanto riguarda la competenza dei servizi pubblici, le riforme amministrative e la capacità del Parlamento di esercitare un controllo sulle istituzioni. Lo stesso posto è occupato dalla Romania anche sull’aspetto del riciclaggio di denaro attraverso canali non bancari.

L’analisi presentata dal Report coglie, inoltre, un aspetto visibile legato alla scarsità dei servizi e dei beni offerti dalle istituzioni statali quali l’imparzialità del sistema giuridico, l’ordine pubblico, la protezione dei diritti di proprietà, la stabilità del mercato degli affari, fattori che portano alla conclusione di uno stato percepito come un ostacolo, non come uno strumento di riforma.

Il regresso economico del Paese durante i primi anni Novanta avviene sullo sfondo di un apparato amministrativo, legislativo e di marketing influenzato dal modello centralizzato del sistema comunista, dalla “pianificazione centralizzata” e dalle poche risorse economiche rimaste in seguito all’estinzione del debito esterno. A questo proposito, nella prefazione del volume coordinato insieme ad Anna Krasteva (2006, p. 12), Francesco Privitera parla di un periodo di transizione realizzato, nei paesi dell’ex blocco sovietico, sul vecchio modello interbellico,

an a chaotic way, moving between big spurt and neo-conservatism within a very fragile institutional framework. The weakness of the political institutions made the wild access to the market economic system possible, following with the shock therapy a truly liberalist approach. (...) The more the market system was implemented, the more the institutions were becoming fragile. Like in the inter-war period new but narraw westernized elite and middle classes were acting as predator social groups, instead of promoters of stability and growth.

A questa immagine della debolezza dello stato si aggiungono, anche dopo quasi due decenni di cambiamenti, di ricerche, di prove, di crisi, le “eredità dell’eredità” comunista come il culto diffuso della corruzione, del furto, l’evasione fiscale incontrollata, i processi di privatizzazione poco trasparenti26, le attività della criminalità organizzata a vari livelli, ecc. Nella loro analisi sull’eredità

dei sistemi comunisti nei paesi dell’Europa dell’Est, James Millar e Sharon Wolchir (1994) ricordano le “reminiscenze” – “ the aftermath”, elementi dominanti anche a distanza di tempo a causa della loro influenza negativa sui processi di trasformazione del Paese, di ripresa economica e di riformulazione delle politiche sociali:

Technically, the term “aftermath” refers to the condition of a field after the harvest. For grain, for example, it would consist of stubble, chaff, weeds, and gleanings; conceptually, these leftovers are usually thought of as transient and possibly negative features. (...) Centralized control of economic planning and production, ambitious plans for rapid industrialization and the neglect of the consumer sector and agriculture, isolation from the world market, lack of consideration of the social, environmental, and medical impact of economic policies – these toghether shaped the social legacies of communist rule in the region.27 (p. 3)

Il processo della transizione, lontano da rappresentare un percorso tra un punto di partenza ed uno di arrivo, implica in realtà varie tappe e può essere interpretato più come un costrutto della visione occidentale dello sviluppo (Sacchetto, 2004, p. 109), che un fenomeno uniforme, con dei risultati scontati.

26 Un’analisi complessa del fenomeno della privatizzazione nei paesi del ex blocco sovietico è contenuta nel saggio di

Catherine Verdery (2006).

27 Informazioni sulla politica economica rumena durante i tre governi che si sono succeduti al potere tra il 1990 e il