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L’immaginario romantico del bambino solo per il mondo

Un approccio transnazionale alla presenza di minori “non accompagnati” a Bologna

4.1. Le rappresentazioni culturali dei minori “non accompagnati”

4.1.2. L’immaginario romantico del bambino solo per il mondo

Alcune ricerche e testi su problematiche legate al fenomeno dei minori “non accompagnati” o al lavoro dei minori, segnalano il comportamento da “adulti precoci” di numerosi di questi ragazzi. La somiglianza con le abitudini degli adulti non giustifica, però, fenomeni come lo sfruttamento o la mancanza di attenzione all’età biologica dei minori migranti. (Godard, 2001, Sbraccia e Scivoletto, 2004) Tra le rappresentazioni e gli stereotipi legati ai minori “non accompagnati” in Italia, con particolare attenzione ai ragazzi rumeni, ne ho ritenuto rilevanti almeno due: il costrutto del “bambino solo per il mondo”, e quello di ragazzi migranti come individui “senza radici”, immagini interconnesse all’interno di numerose ricerche scientifiche o di interventi di natura politica:

I minori stranieri non accompagnati sono tre volte vulnerabili: perché minori, stranieri e soli. Mentre le prime due sono condizioni oggettive su cui non si può intervenire, la terza richiede tutta la nostra attenzione. (Lucidi, 2007)102

Dai paragrafi successivi emergerà la realtà di un’attenzione delle politiche sociali sull’immigrazione, focalizzate in Italia sulla doppia condizione di “minore” e di “straniero” dei ragazzi, evitando proprio il dibattito approfondito sull’immagine dei “minori soli” (intesa sia come “non accompagnati”, sia come “in stato di solitudine”). Nella Prefazione al libro di taglio giuridico di Alvise Sbraccia e Chiara Scivoletto (2004, p. 5)103 sui minori migranti in Italia,il Professore

Giuseppe Mosconi accentua, ancora dalla prima pagina, i tre elementi negativi contenuti nel termine giuridico stesso di “minore non accompagnato”:

il fatto di essere minorenne, quindi non autosufficiente e bisognoso di assistenza, ma anche di una guida adulta; il fatto di essere straniero, e quindi non socializzato alla normativa del vivere nel paese di accoglienza; il fatto di non essere sostenuto, dato tale stato, da nessun adulto che se ne faccia carico, assumendosene la responsabilità, in tutti i sensi. (…) Le retoriche della diffidenza e della disapprovazione sociale, per il fatto di essere esterni ad un nucleo famigliare

102 Marcella Lucidi è Sottosegretario di Stato presso il Ministero dell'Interno italiano.

103 La ricerca, “Diritti e aspettative normative nella società multietnica”, è stata svolta a livello nazionale in

collaborazione con il Dipartimento di Sociologia dell’Università degli Studi di Padova, e con l’Istituto di Sociologia degli Studi di Urbino “Carlo Bo”.

organizzato, perciò del necessario controllo, si mescolano dunque con quelle dell’aiuto umanamente dovuto, della protezione, dell’orientamento.

Sembrerebbe quasi inutile ricordare i problemi che gli italiani affrontavano poco più di un centinaio di anni fa, quando l’ondata di emigrazione colpiva diverse regioni e coinvolgeva nella tratta di persone numerosi bambini, quando i paesi di approdo li emarginavano, paragonandoli agli eterni capri espiatori, “gli zingari”. Il fenomeno della migrazione dei bambini/ragazzi apparentemente da soli, ha una triste storia in Italia, e forse non sarebbe produttivo parlare di casi di cento anni fa, se la loro evocazione non assomigliasse in maniera così evidente, alle storie moderne dei ragazzi rumeni, albanesi o marocchini emigrati in Italia. Una ricostruzione curata delle storie e dei percorsi dei bambini italiani, emigrati da soli o venduti a padroni in paesi allora più ricchi ,è stata realizzata attraverso la ricerca di Giulia di Bello e Vanna Nuti (2001). Un’analisi che usa dei toni più duri è riportata nel libro del giornalista Gian Antonio Stella (2003), un percorso drammatico, tra gli stereotipi che i paesi ospitanti degli immigrati italiani hanno sviluppato su di essi, ed un viaggio crudele tra l’Italia del novecento, luogo considerato dai viaggiatori famosi, come il paese prediletto della “libertà sessuale”.104 Le storie odierne dei ragazzi migranti in Italia

cambiano solo la nazionalità; ma cambia, invece, la diffusione delle problematiche legate al loro vissuto grazie ai mass-media globalizzati.

Una conseguenza rilevante delle rappresentazioni create intorno alla figura del minore “non accompagnato”, e l’adeguamento della legislazione e degli interventi nell’ ambito sociale al costrutto centrato sulla fragilità dell’infanzia, sull’immagine del bambino/ragazzo in situazione di bisogno, abbandonato dalla famiglia. In una prospettiva critica di questa prospettiva riflessa nell’operato sociale, Panter-Brick (2002, p. 245-246) scrive:

Yet the concept of “the child in need” still permeates “the everyday vocabulary” of social work. There are several reasons why this approach is unsatisfactory (Moss et al. 2000). First, the problem to be addressed is defined “as essentially individual and psychological, not social and structural” (p. 244). Second, the child is “classified as coming from an abnormal family and is constructed, through the language used, as deficient (having a need), weak (being needy), and a subject of charity” (...) Portrayals of street children (as victims, villains, dependents, or deviants) also have an impact on types of intervention. Interventions focused on “rescuing” children from the streets by placing them

104 Gian Antonio Stella (2003, p. 12) riassume: “Non c’è stereotipo rinfacciato agli immigrati di oggi che non sia già

stato rinfacciato, un secolo o pochi anni fa, a noi. “Loro” sono clandestini? Lo siamo stati anche noi: a milioni, tanto che i consolati ci raccomandavano di pattugliare meglio i valichi alpini e le coste non per gli arrivi ma per le partenze. “Loro” si accalcano in osceni tuguri in condizioni igieniche rivoltanti? L’abbiamo fatto anche noi, al punto che a New York il prete irlandese Bernard Lynch teorizzava che “gli italiani riescono a stare in uno spazio minore in qualsiasi altro popolo, se si eccettuano, forse, i cinesi.” “Loro’ vendono le donne? Ce le siamo vendute anche noi, perfino ai bordelli di Porto Said o del Maghreb. Sfruttano i bambini? Noi abbiamo trafficato per decenni coi nostri, cedendoli agli sfruttatori più infami o mettendoli all’asta nei mercati d’oltralpe.”

back at school or with the family have generally not provided lasting solutions because they tend to ignore children’s own views and all that they have already accomplished for themselves.

In realtà, i racconti dei ragazzi rumeni “erranti” incontrati a Bologna, fanno emergere la scelta cosciente di emigrare senza i genitori, appoggiandosi ad altre figure utili per il percorso all’estero (sia legale che illegale). Spesso la famiglia viene fatta partecipe al vissuto nel paese straniero, o è addirittura presente sul territorio insieme al ragazzo, ma si trova nell’ impossibilità di esercitare la tutela legale, in quanto considerata clandestina dalle leggi italiane sull’immigrazione.

Prendendo in considerazione la migrazione magrebina maschile degli anni ’70 in Francia, lo scrittore Tahar Ben Jelloun (1977), parla dell’”estrema solitudine” di queste persone, le quali emigravano senza la famiglia, erano avviate subito al lavoro para schiavistico, subendo un vero e proprio sradicamento dal contesto di origine. Le forme di alienamento e la solitudine di questi uomini, si ritrova anche oggi in numerosi racconti di immigrati in Italia. La straordinaria capacità di socializzare dei ragazzi immigrati, invece, li aiuta a superare con più naturalezza il senso di spaesamento ed il confronto con un nuovo contesto. Nei racconti dei ragazzi rumeni intervistati, si legge spesso la nostalgia della patria, della “casa”, ma questo sentimento non sviluppa dei vissuti conflittuali, ma soprattutto la presa di coscienza della situazione transitoria in cui si trovano. Raramente i progetti migratori dei ragazzi vengono fatti senza la progettazione di un ritorno a breve, affinché molti di loro si trasformano in dei “pendolari” tra due, o in alcuni casi, anche tra più paesi.

Un altro luogo comune diffuso sulla condizione dei minori “non accompagnati”, e generalmente sui minori stranieri, è lo sradicamento traumatico, la mancanza di radici, di legami con il mondo lasciato nel paese di origine105.

Il termine “separati”, descriverebbe meglio la loro condizione, in quanto essi sono per l’appunto, separati, allontanati dal loro paese, dalla famiglia, dagli amici, dalla lingua, dalle abitudini e, in genere, dalla loro cultura. (Campani, Lapov, Carchedi, 2002, p. 9)

Il fattore temporale, diventa essenziale per il percorso migratorio dei ragazzi “erranti” e delle ragazze coinvolte nel fenomeno delle prostituzione. Data la breve durata della permanenza dei minori rumeni all’estero, seguita da vari ritorni, e vista la permeabilità dei confini, i ragazzi sviluppano delle strategie transnazionali di sopravvivenza, impegnando, per esempio, una parte dei guadagni illeciti all’estero nel contesto di origine. La prospettiva del minore completamente isolato

105 In un intervento recente (21 febbraio, 2008) all’interno di un’iniziativa del FIERI, Nello stesso cortile”. Migranti e

capitali tra l’Italia , la Romania e l’Europa, dalla caduta del Muro ad oggi, Dana Diminescu a sottolineato le

differenze, sempre più marcate, tra i migranti “sradicati” degli anni passati, e i migranti “connessi” di oggi, collegati al mondo intero e soprattutto al contesto di partenza attraverso le innumerevoli facilità messe a loro disposizione dalla tecnologia. I minori rumeni che ho incontrato, usano spesso gli Internet Point della città, per mettersi in contatto con la famiglia e con amici rimasti in patria e emigrati in altri paesi.

dal suo mondo, dal contesto della famiglia e delle amicizie e dalla lingua, non viene confermata dall’osservazione dei modi di vivere dei ragazzi incontrati a Bologna. La rete famigliare o di amici connazionali, l’uso della lingua romena o romanes, o tutte e due, nel caso dei ragazzi rom, il contatto telefonico o via internet quasi giornaliero con il paese di origine, sono proprio i punti di forza dei percorsi illegali di questi minori. Sia per i giovani rumeni che per quelli rom i rapporti con la città delineano delle forme di auto segregazione e di scelte volontarie di vivere l’esperienza migratoria vicino agli amici, ai connazionali, anche se la lingua italiana non è un ostacolo, in quanto simile al romeno e facile da apprendere per i ragazzi. Scrive Sanda Golopenţia (1995), la sociologa rumena che vive in esilio negli Stati Uniti, commentando un frammento del Profeta biblico Geremia:

“Quello che resta in questa fortezza morirà di spada, o di peste, mentre quello che andrà dai caldei rimarrà vivo, prenderà la sua anima come una preda e sarà vivo.” La prima parte, sì, la conosciamo. Ma la seconda? Cosa intende Geremia per prendere la tua anima come una preda? Prenderla da chi? Da parenti, da amici, da alleati in battaglie sempre insignificanti? Da una tua immagine più mite, più tenera? E poi, prenderla come? Cancellando, annientando l’eventuale possessore? Dando il colpo di grazia a quelli a cui la tua anima si era donata liberamente? Abbandonando, rinunciando, scappando con la preda fresca il più lontano da quello che eri stato prima? E’ vero che una preda è spesso qualcosa di inaspettato, come un’anima. Ma è difficile credere che allontanandola da te, ritirandola dal suo circuito normale tu, quello che hai fatto questo, sei rimasto vivo. (p. 82)

La lontananza geografica del paese di origine, il pensiero dell’impossibile ritorno, giustificano in un individuo che affronta l’esperienza dell’esilio, la metafora dell’anima strappata da un suo mondo naturale, della rottura irreparabile e soprattutto dello sforzo “sisifico” di ricostruire il contesto di partenza, l’habitat di un paese, di una città, di una casa. Una ricerca a parte si potrebbe dedicare alle multiple strategie, che gli immigrati mettono in atto, per superare questa scissione interna, a scopo di recuperare istanti del luogo di origine. Come illustrato nel capitolo 3, nella parola rumena “dor”, tradotta in italiano con “nostalgia” o in portoghese con “soledad” si mescolano due sentimenti contraddittori: il piacere ed il dolore del ricordo (di una persona, di un posto, di una sensazione, ecc.). Il termine rumeno implica una mancanza, ma i racconti dei ragazzi mostrano in maniera chiara, come questo aspetto apparentemente negativo viene superato attraverso la vita all’interno dei gruppi di connazionali, e attraverso il contatto con il contesto di partenza. Il concetto di “resilienza” è suggestivo per descrivere le capacità dei ragazzi rumeni “non accompagnati”, o coinvolti nel fenomeno della prostituzione,che sviluppano durante il percorso migratorio in stretto contatto con il mondo della strada, con varie forme di disagio sociale e di microcriminalità.

Influential research has argued that a helpful counterpart to the risk discourse is to focus attention on the resilience of children who manage to negotiate extremely difficult circumstances. As Rutter explained, resilience is the term used to describe the positive pole of individual differences in responses to stress and adversity. Rutter further emphasized that in the field of psychiatric risk research, there has been a shift of focus not only “from vulnerability to resilience, but also from risk variables to the process of negotiating risk situations” (1987, p. 316). This represents a useful approach—one that is not constrained by categorical thinking but centers on identifying the protective factors that help individuals cope with adversity. (Panter-Brick, 2002, p. 216)

La sfida del sistema di accoglienza italiano rivolto ai minori stranieri “non accompagnati”, o “vittime della tratta”, sta proprio nella presa di coscienza dell’alta capacità di autogestione di questi ragazzi, nonostante i contesti di marginalità e di esclusione in cui vivono rispetto ai loro coetanei autoctoni o, per mantenere i termini di questo testo, “ben accompagnati”.

Una riflessione critica sugli interventi sociali in rapporto con il fenomeno dei minorenni “senzatetto” della regione di Wales, è stata prodotta da due antropologi, Susan Hutson e Mark Liddiard (1993). Lo scopo della ricerca è quello di evidenziare lo scarto tra i vissuti dei ragazzi “erranti” o “senzatetto”, e l’accoglienza ufficiale basata su numerosi stereotipi che non rispecchiano le loro esperienze e le loro aspettative. Il processo dell’osservazione partecipante, si è svolto per quattro mesi all’interno di una comunità di pronta accoglienza a Londra, dove venivano ospitati minori sotto i 17 anni. I due ricercatori attirano l’attenzione sulle limitazioni di operare attraverso stereotipi come l’alcolismo, la pratica della prostituzione, i problemi psichiatrici e l’assunzione di droghe, in quanto il rischio è quello di non prendere in considerazione i problemi di ragazzi e ragazze stranieri che non rientrano in queste categorie, o lo fanno solo per brevi periodi. La conclusione del saggio accentua la strumentalizzazione delle definizioni dei giovani accolti, allo scopo di adattare la loro immagine costruita, ai servizi gestiti da attori del privato sociale. Nel paragrafo successivo analizzerò alcuni aspetti legati alle definizioni ufficiali dei “minori non accompagnati”, per confrontarle, in seguito, con la realtà del campo- sia con l’operato di una struttura di accoglienza, sia con frammenti di racconto dei ragazzi rumeni incontrati a Bologna.

4.2. Problematiche delle politiche sociali europee rivolte ai minori stranieri