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1. I ragazzi di Via Gobett

1.3.4. Il ritorno a casa

Se l’anno 1989 significa, per gli stati dell’Europa dell’Est, una fine ed un inizio, da qualsiasi punto di vista guardiamo, lo stesso discorso vale anche per lo stato della ricerca antropologica e, in generale, per le discipline etno-antropologiche. Prima dell’89, i paesi del blocco dell’Est costituivano un vasto laboratorio etnografico impegnato nello studio delle “ultime tracce della civiltà contadina europea”, o della costruzione di una società socialista, con i suoi meccanismi specifici per ogni stato. L’antropologia dell’Europa dell’Est e nell’Europa dell’Est ha dovuto essere inventata ridimensionando i discorsi etnografici e cominciando a tenere conto delle competenze dei folcloristi autoctoni e delle nuove aree di ricerca, a cui “prima” non si poteva accennare- le politiche del genere, le minoranze etniche, l’ideologia del regime, le vittime della tortura politica o il fenomeno migratorio.

Nel processo d’invenzione di questo discorso antropologico, gli specialisti nativi si sono divisi un tre categorie. Una prima categoria vedeva la collaborazione con i ricercatori vestici un’opportunità di finanziamenti- nel contesto in cui per la ricerca etnografica, i fondi allocati dal governo rumeno erano pressoché inesistenti). Di conseguenza, essi sono passati facilmente dalla prospettiva folclorico-nazionalista a quella cosiddetta antropologica. Un’altra categoria rimane tuttora composta dai professionisti nostalgici che sognano ancora di salvare le tradizioni appartenenti al folclore, e di scrivere una volta per tutte una raccolta esaustiva sulla cultura spirituale rumena; e infine c’è una nuova generazione di ricercatori “in transizione”, formati nell’incertezza delle prime due opzioni, senza un vera - o perlomeno completa - formazione antropologica, ma coscienti dell’inadeguatezza dell’esaltazione dello “specifico nazionale” tramite il folclore.

La prospettiva di una scrittura o di una ricerca antropologica nell’Europa dell’Est non nasce dal campo, ma dall’epistemologia che, in quanto ricercatori, portiamo verso quel territorio. Ci sarebbe probabilmente una quarta categoria di “antropologi”, composta da quelli che cercano di “tornare a casa”. Ma tornare implica prima partire. Sono i ricercatori formati “dopo” la caduta del Muro, nelle Università occidentali, che hanno imposto o guidato anche la morfologia del discorso

antropologico est-europeo. La novità della ricerca non consiste, però, solamente nella possibilità di rivolgere l’attenzione verso il paese di origine, offrendo una visione “dal punto di vista del nativo”: le nuove configurazioni dei “flussi culturali globali”, permettono al ricercatore di studiare la propria “etnia”, il proprio popolo, il proprio gruppo nella società di approdo. Il fenomeno ampio delle migrazioni odierne include degli spostamenti non solo di popolazioni, ma anche di sguardi e di prospettive mai sperimentate in passato.

Il “ritorno a casa” dell’antropologo immigrato diventa soprattutto un ritorno a livello mentale. L’Est europeo si trasforma, da un laboratorio ermetico, diventa uno spazio aperto, continuando a sviluppare una globalizzazione propria che interagisce fortemente con le società occidentali. E’ l’Est che si sposta e richiede un discorso antropologico ridimensionato. È il “locale” che richiede di essere contestualizzato non più lontano, ma molto, molto vicino anche allo sguardo dell’antropologo occidentale, parte di una visione globale delle società e delle interconnessioni possibili tra di esse.

Il Centro di Transito per Bambini Trafficati

Al fine di studiare, all’interno delle relazioni tra Italia e Romania, le questioni attinenti al rimpatrio dei minori rumeni “non accompagnati” e/o trafficati, ho condotto un mese di stage nel nord-ovest della Romania, a Satu Mare. Questa esperienza ha rappresentato per me il contatto diretto con uno dei progetti che possono esemplificare quali siano stati i passi effettivamente compiuti dal Paese nella direzione della prevenzione, della lotta contro il traffico di minori e della protezione delle vittime.

Dopo un periodo caratterizzato dall’aumento del numero di persone trafficate dalla Romania e dai rimpatri assistiti effettuati in base a degli accordi più o meno ufficiali, spesso in mancanza di una strategia comune tra le ONG operanti e i paesi di destinazione, il governo rumeno decide, nel 2004, di dare stabilità e concretezza alla sua politica in materia. Con la Decisione n. 89/2004 stabilisce gli “Standard minimi obbligatori per i Centri di accoglienza in regime di emergenza per il bambino abusato, trascurato e sfruttato”, ovvero le condizioni che devono rappresentare una garanzia di fronte ai commissari europei e ai partner dei paesi di destinazione del flusso migratorio rumeno.

I cinque Programmi di Interesse Nazionale (chiamati nel linguaggio professionale i PIN), nell’ ambito della Protezione dei diritti del bambino (Decisone n. 166/2005), includono il Programma “Servizi di assistenza e integrazione per i bambini vittime del traffico e non accompagnati”, conosciuto come il PIN 415/2004. Alla Fondazione Save the Children Romania, filiale di Mureş

(una città nel centro della Transilvania), viene assegnata l’implementazione ed il coordinamento del Programma che porterà all’apertura di nove Centri di transito per bambini trafficati, abusati e maltrattati situati in alcune città di confine della Romania11. Tutti questi Centri di transito sono

subordinati al Consiglio regionale di ogni città.

Il Rapporto di attività di luglio 2004-febbraio 2005 elenca una serie di azioni di carattere formativo per gli operatori nell’ambito dell’assistenza delle vittime della tratta, della ricerca delle buone prassi e soprattutto in merito all’organizzazione e all’apertura, avvenuta il 21 dicembre 2004, del Centro di Transito di Satu Mare. Questo è uno dei 10 centri di prima accoglienza - incluso quello di Bucarest - che la Romania ha aperto nelle città di confine per i minori rumeni rimpatriati- trafficati e/o non accompagnati. Dal gennaio 2005 questi centri di transito passano sotto l’autorità delle Direzioni generali regionali per la protezione del bambino, e assumono come personale molti assistenti sociali e psicologi.

Il contatto con lo staff del Centro di transito per bambini trafficati, abusati e maltrattati di Satu Mare avviene attraverso i membri della Filiale di Save the Children di Târgu Mureş, permettendomi in seguito di effettuare uno stage nel giugno del 200612. Dalle domande che mi sono state poste da

alcuni educatori, ho notato il fatto che nelle loro rappresentazioni - espresse attraverso dei racconti su amici o parenti emigrati - l’Italia è percepito come il paese del lavoro stagionale o delle badanti, motivo per cui la mia scelta di studiare in Italia, senza avere un lavoro fisso, costituiva per loro una eccezione alla norma. Ho riscontrato, allo stesso tempo, delle difficoltà riguardo al mio essere antropologa, soprattutto quando dovevo relazionarmi con assistenti sociali. Ogni volta che ho intervistato una educatrice o un responsabile ho voluto, per questo, esplicitare l’oggetto della mia ricerca, gli obiettivi e cosa volesse dire utilizzare una metodologia etnografica. Non pochi sono stati i professionisti intervistati che avrebbero preferito ricercatrici specializzate in assistenza sociale o psicologhe.

Durante il periodo dello stage ho avuto il supporto di tutti gli operatori e di tutti gli educatori del Centro, il che mi ha permesso di effettuare un’autentica osservazione partecipata; attraverso

11 Le nove città di confine dove sono stati aperti i Centri di transito sono Satu Mare, Bihor, Timiş, Arad, Suceava,

Botoşani, Neamţ, Iaşi e Galaţi, oltre un Centro pilota a Bucarest. Nel 2006 sono stati aperti altri due Centri di transito a Giurgiu e nella regione di Mehedinţi, in seguito al numero alto di vittime della tratta e minori “non accompagnati” all’ estero provenienti da queste zone. Tali progetti sono stati implementati sia da alcune filiali di “Salvaţi Copiii” che da altre ONG locali come “SOS Copiii Gorjului” o “Fundaţia Română pentru Copil, Comunicate şi famiglie” (FRCCF). (Agenţia Naţională Impotriva Traficului de Persoane, 2006).

12 Le dinamiche dei rapporti di lavoro all’interno dello staff del Centro di transito erano allora molto condizionate dalla

presenza, nella posizione di consulente legale, di M., fratello del Direttore della Direzione generale della protezione del bambino di Satu Mare. La mia ricerca doveva essere supervisionata dalla coordinatrice del Centro, ma è stata più volte sottoposta al giudizio di M.. I privilegi legati alla mia condizione di “antropologa in casa” derivavano anche dal rapporto personale di lunga durata che ho con lo psicologo del Centro, conosciuto durante gli studi universitari. Questo legame, mantenuto nel tempo, ha facilitato il mio inserimento nel Centro, la possibilità di abitare all’interno della struttura e nondimeno lo svolgimento di interviste libere con tutto il personale e con la prima psicologa del Centro, attualmente dipendente del Dipartimento di polizia locale.

numerose discussioni informali, inoltre, ho avuto preziosi informazioni per la ricerca. Anche se non è stato possibile conoscere nessun caso concreto di traffico esterno, mi è stato dato il permesso di accedere alle cartelle personali delle ragazze e dei ragazzi accolti in precedenza, occasione che ha facilitato un confronto con la realtà dei minori non accompagnati, oggetto della mia ricerca a Bologna. La natura confidenziale di questi racconti raccolti nei registri personali del Centro di transito non permetteva di fotocopiare questi report. Le storie ritrovate in quei file sono molto simili a quelle sentite spesso sulle strade di Bologna. Parlano tutte di strategie di sopravvivenza e di presa di coscienza della natura del progetto migratorio, di parenti o genitori che accompagnano, ma ulteriormente costringono il minore a dedicarsi ad attività illegali. Sia i minori rimpatriati sia quelli ancora presenti sui luoghi marginali delle città italiane raccontano di ritorni periodici, del sogno dei “soldi facili”, e della vergogna di ammettere un eventuale fallimento, una volta tornati in patria.

Un ambito di ricerca diverso da quello rappresentato dal contatto con il “campo” è costituito dalla ricostruzione, per quanto sia stato possibile, dei rapporti di cooperazione tra l’Italia e la Romania riguardo la migrazione – e traffico- dei minori “non accompagnati”.

Le fonti per risalire alla natura degli accordi ufficiali rumeno-italiani sono soprattutto in formato elettronico, reperibili sui siti dei due governi. Ho trovato numerose informazioni al riguardo nella stampa rumena e italiana, articoli e réportage relativi agli incontri ufficiali. In questa direzione ho scelto di svolgere una ricerca su come la stampa dei due paesi rifletta questo rapporto, concentrando lo sguardo sui motivi che fino ad ora non hanno permesso una politica comune per quanto concerne il fenomeno dei minori “non accompagnati”. Alla base di ciò emerge, leggendo articoli e réportage, una diffidenza reciproca basata su una serie di stereotipi tra i due paesi. Nonostante le varie tensioni o gli avvicinamenti, ad oggi, tra la Romania e l’Italia, non esiste ancora un accordo bilaterale sul tema specifico dei minori rumeni “non accompagnati” presenti sul territorio italiano.

Craiova

Un’attenzione particolare viene data alla prospettiva antropologica su cui si basa l’osservazione delle dinamiche del progetto rivolto ai minori a Craiova, metodologia di lavoro che evidenzia la “complessità del campo” (Pazzagli, 2004, p. 158) - la mappatura degli attori (rumeni e italiani) e delle motivazioni specifiche messe insieme in un tentativo di concertazione coordinato dai rappresentanti del Comune di Bologna e dell’Organizzazione Internazionale delle Migrazioni (OIM). Il mio approccio ha voluto dare spazio ad un campo plurivocale, il cui centro ruotava

intorno al progetto in sé, ma che sicuramente coinvolgeva relazioni di potere ed interessi diversi. Questi partner in competizione trasmettono vitalità al progetto, dal dibattito e dal dialogo nascono nuove idee, ma la domanda che mi sono posta come osservatrice esterna di questo mosaico è stata ispirata dalla riflessione di Susan Wright (1994): “Who is empowered by empowerment?” La constatazione del fallimento di ridurre il ruolo, e di conseguenza il potere delle istituzioni statali, ha dato una parte della risposta a questa domanda. Ma, come nota Ralph Grillo (1997) lo sviluppo è comunque il campo della produzione di una diversità di “discorsi”:

(…) development is not always the oppressive, ‘top-down’, monolithic ‘industry’ depicted in some accounts, but rather a multi-faceted, multi-vocal process, and a complex site of contestation. (Grillo e Stirrat, 1997, p. Vii).

In una frase significativa, l’antropologo Rial W. Nollan (2002) considera il contatto che avviene grazie ai progetti di cooperazione allo sviluppo tra due mondi un incontro “in the real world”, di conseguenza su un campo che deve fare i conti con varie ideologie ottimiste del progresso e della modernità occidentale eterogenea, che assume i suoi aspetti locali durante questo incontro.13 La prospettiva antropologica della mia ricerca è stata utile nel cercare di cogliere le

particolarità della cooperazione italiana in Romania, e nell’individuare il contesto senza applicare esclusivamente la letteratura dedicata ai paesi “in via di sviluppo”, ad un paese che, nonostante le difficoltà emerse dopo la caduta di un regime dittatoriale, è oggi membro dell’Unione Europea. L’ultimo decennio della storia rumena ha conosciuto dei cambiamenti accelerati, adattando nuovi modelli occidentali alle sue strutture soprattutto ai suoi “modi operandi”. Riprendendo un termine eloquente di “multiple modernities” usato da Carmaroff & Carmaroff (1993:1) i sociologi Alberto Arce e Norman Long (2000) sono interessati proprio alle modalità in cui

The ideas and practices of modernity are themselves appropriated and re-embedded in locally-situated practices, thus accelerating the fragmentation and dispersal of modernity into constantly proliferatine modernities. These (...) generate powerful countertendencies to what is conceived of as Western modernisation, exibiting so-called ‘distorted’ or ‘divergent’ patterns of development, and re-assembling what is often naively designated as ‘tradition’. (p. 1)

Il bisogno di “riqualificare la nostra visione” (Rossetti, 2004), mi è stato facilitato durante la ricerca a Craiova proprio dai miei preconcetti riguardanti l’alterità rappresentata degli abitanti di questa città e dei dintorni. La consapevolezza delle similitudini, ma soprattutto quella delle

13 Nel linguaggio usato dal pedagogista Andrea Canevaro (1999, p. 221, 223) l’incontrarsi – tra un uomo e una donna,

tra una cultura ed un’altra- si trasforma in relazione quando ogni parte viene ammessa dall’altra con la sua propria verità, atto essenziale che permette ulteriormente la gestione comune della dipendenza e dell’autonomia.

differenze, hanno contribuito allo sguardo antropologico attraverso il quale ho cercato di interpretare la mia permanenza a Craiova.

Native anthropology, in which people who were formerly the subjects of ethnography become authors of studies of their own groups either as professional anthropologists or indigenous ethnographers (is considered one of the) three proeminent genres of writing (that) have influenced thinking about the relationship between ethnography and the self of both the ethnographer and the ‘native’ informant. (Reed-Danahay, 2001, p. 407)14

La possibilità di trasformare quello che nella letteratura anglo-sassone viene definito come “home” in un’esperienza di tipo “field”, cioè in campo d’ osservazione, ha decostruito soprattutto a partire dall’esperienza della Scuola di Chicago, i presupposti intoccabili della natura della ricerca etnografica/antropologica. La scelta del campo lontano dalla propria società, il contatto prolungato con la realtà osservata, l’osservazione partecipante, l’elaborazione di una monografia esaustiva sulla popolazione frequentata sono state rielaborate attraverso delle esperienze di ricerca assai diversificate. Tra queste, “il ritorno a casa” dello sguardo antropologico si rivela come fonte di punti di vista inediti sul fenomeno dell’immigrazione, per esempio, come nel caso del gruppo di Craiova di cui ho inseguito il percorso oltre i confini nazionali.

Mettendo al centro del mio periodo di ricerca a Craiova la plurivocalità degli attori e le modalità della loro “partecipazione”, non ho osservato lo svolgimento del progetto in sé, ma ho ricostruito in parte, il processo che ha influenzato la morfologia ulteriore degli interventi realizzati o rimasti in fase di progettazione.

Indeed, as a descriptive metaphor for development initiatives, ‘process’ is increasingly used as an alternative to the machine metaphor. Like other commonly used metaphors (including ‘development’ itself) the concept of ‘process’ provides a device for thinking and talking about a complex social reality in new ways. (...) First, in relation to planning, viewing a project as a ‘process’ means having a design which is flexible and changes as a result of learning from implementation experience. (...) Second, ‘process’ refers to the relationship and contextual elements in all projects. (Mosse, David, 1998, p. 4-5)

La presa di coscienza del carattere costruito di questi discorsi, ha costituito un elemento importante della mia ricerca, un aspetto significativo anche per altri tipi d’ interventi di cooperazione, in cui gli attori cercano di usare il potere in loro possesso per modellare a loro favore la natura delle azioni collettive. La giusta domanda di Susan Wright (1994, p. 1): “Who is empowered?” è rimasta, durante l’intero percorso della ricerca, una questione suggestiva nell’analisi dei giochi di potere all’interno di qualsiasi proposta che arrivasse da parte delle istituzioni. Come metodologia di lavoro, l’incrociarsi di

14 Le altre due modalità di osservazione e di scrittura emergenti sono “the ethnic autobiography” e “the autobiographical

sguardi diversi dei partner, potrebbe portare a delle soluzioni innovative, che vanno anche al di là della programmazione di un progetto. La tendenza delle istituzioni di assumersi il ruolo egemonico che lo stato ha svolto durante il periodo della dittatura comunista significa, per la giovane democrazia rumena, un passo problematico. La giustificazione di un tale atteggiamento, oltre all’accesso alle risorse, sta nel bisogno di visibilità di carattere politico della giunta in carico presso il Comune di Craiova. Rispetto alle politiche sull’immigrazione, questa affermazione definisce anche alcune iniziative della giunta bolognese, ma non è sicuramente questo lo spazio adatto per una discussione su aspetti di questo tipo.

Il rischio di una ricerca multilocale, sottolinea Bruno Riccio (2007),

consiste nell’indebolire l’approfondita ed intensa analisi di una località garantita dalla ricerca di terreno tradizionale. Quest’ultimo tipo di strategia di ricerca, nonostante nel passato si sia basata su una visione della cultura come un insieme naturale dai confini immutabili, tendeva a fornire una conoscenza dettagliata e approfondita delle relazioni sociali e del contesto storico. (p. 44)

La moltitudine di voci, gli spostamenti fisici e mentali tra due paesi - l’Italia e la Romania- hanno cercato di guardare i minori rumeni migranti da angolature diverse, attraverso le loro prospettive, espresse o dedotte in base alla mia osservazione, e attraverso le ricerche effettuate da specialisti nel campo in precedenza. La premessa è quella di poter rendere visibili parti ignorate, meno approfondite, meno sperimentate. Siccome ci troviamo davanti ad un fenomeno di una mobilità straordinaria e tutt’altro che in diminuzione, l’argomento di questo lavoro rimane un terreno aperto per la ricerca.

Capitolo 2