• Non ci sono risultati.

Alcuni spunti di riflessione sul tema dell’autotutela fra diritto comunitario e diritto interno

II. IL REGIME DI TUTELA AVVERSO L’ILLEGITTIMITÀ COMUNITARIA DEGLI ATT

7. Alcuni spunti di riflessione sul tema dell’autotutela fra diritto comunitario e diritto interno

Alla luce degli sviluppi giurisprudenziali, comunitari e interni, e del complessivo quadro normativo di riferimento, l’istituto dell’autotutela sollecita alcune riflessioni.

La recente disciplina sull’invalidità del provvedimento, recepita nel capo IV-bis della l. n. 241/1990, può considerarsi una controprova del fatto che il ritiro di atti amministrativi ha natura pienamente discrezionale, a prescindere dalla “causa” dell’illegittimità del provvedimento (sia essa di matrice nazionale o piuttosto comunitaria).

In ciò si manifesta la chiara volontà del legislatore italiano di risolvere il presunto contrasto fra stabilità dell’agire provvedimentale e affidamento dei soggetti che in buona fede abbiano confidato sulla legittimità dell’atto autoritativo, emesso in contrasto col diritto comunitario. Un’applicazione indiscriminata ed automatica del potere di autotutela potrebbe, in effetti, pregiudicare seriamente tali valori.

Invero, il dibattito dottrinario e giurisprudenziale che si è confrontato sul tema del ritiro di provvedimenti si è sempre articolato intorno a tre soluzioni, astrattamente prospettabili: la circostanza per cui le competenti autorità sono tenute in ogni caso ad annullare atti amministrativi in contrasto con il diritto comunitario, ovvero quella per cui devono solo avviare i relativi procedimenti di riesame, senza dover poi necessariamente annullare l’atto (quindi ci sarebbe una

266

Più precisamente, si dispone che l'indennizzo venga quantificato tenendo conto sia della conoscenza (o della conoscibilità) da parte del privato della contrarietà dell'atto amministrativo oggetto di revoca all'interesse pubblico, sia dell'eventuale concorso del contraente (o di terzi) nell'erronea valutazione in cui è incorsa l'Amministrazione.

discrezionalità sostanziale nei contenuti); infine, la soluzione secondo cui il diritto comunitario non produce alcuna influenza sugli istituti nazionali dell’annullamento d’ufficio.

Le più recenti pronunce della Corte di Giustizia aderiscono senza scrupoli né dilemmi interpretativi a quest’ultima lettura.

Questa, del resto, appare pienamente allineata alle recenti novità normative del panorama amministrativistico italiano, che – come visto - adottano un’impostazione cauta nel risolvere i conflitti fra i diversi valori emergenti, in modo da fare comunque salvo il principio fondante della certezza del diritto.

Ciò ha fatto parlare di impostazione mite (267) del rapporto fra legalità comunitaria e certezza dei rapporti giuridici consolidati, condiviso dallo stesso approccio della Cote di Giustizia, sempre alla ricerca di soluzioni in cui siano debitamente considerati tutti le poste in gioco e le eventuali posizioni di affidamento suscitate dalla decisione di riesame (268).

Un ulteriore aspetto significativo di questa materia è che anche quando, in eccezionali e tassative ipotesi la giurisprudenza comunitaria parla di “obbligatorietà” (269) del riesame da parte delle amministrazioni interne, quest’obbligo deve in realtà deve inquadrarsi nel più cogente principio di leale cooperazione, ed in ogni caso non può mai risolversi nella “doverosità” automatica dell’annullamento, che deve soggiacere a stringenti criteri (in particolare al canone di proporzionalità (270), quale criterio guida nel contemperamento dei diversi interessi in gioco).

Infine, se contestualizzata nel più ampio ambito dell’ordinamento comunitario, l’evoluzione dell’istituto della revoca può costituire una significativa cartina al tornasole del processo di integrazione del diritto sovranazionale in quello degli Stati membri, oltre che della progressiva costruzione di un sistema di diritto amministrativo “europeo”.

267

Cfr. Cerulli Irelli V., Luciani F., cit., part. 879.

268

Corte di Giustizia, causa C-15/85, cit., 7 gennaio 2004, causa C-201/02, in Racc.I-723, 20 marzo 1997, causa C- 24/95, in Racc. I-1591, 24 gennaio 2002, causa C-500/99, in Racc. I-867.

269

Cfr. le condizioni evidenziate nella pronuncia Kühne e Heitz per l’esercizio dell’autotutela in diritto interno, infra.

270

Per un’accurata disamina del principio, cfr. Galetta D.U., La proporzionalità quale principio generale dell’ordinamento, in Giorn. Dir. Amm., 2006, 10, 1106 ss., nota a Cons. Stato, sez. V, 14 aprile 2006, n. 2087, che

tratteggia gli elementi cardine del principio, evidenziando come un simile principio generale dell’ordinamento esiga che la pubblica amministrazione adotti la soluzione più idonea e adeguata, con minor sacrificio possibile per le parti interessate, implicando che le autorità nazionali e comunitarie non possono imporre, né con atti normativi, né amministrativi, obblighi e restrizioni alle libertà del cittadino, tutelate dal diritto comunitario in misura superiore a quella strettamente necessaria nel pubblico interesse per il raggiungimento dello scopo perseguito, in modo che il provvedimento emanato sia idoneo, cioè adeguato all’obiettivo da perseguire, e necessario, nel senso che nessun altro strumento ugualmente efficace, ma meno negativamente incidente, sia disponibile nel caso concreto.

Infatti, in un processo simbiotico e di contaminazione reciproca, la disciplina del potere di riesame delle amministrazioni comunitarie è stata, da un lato, ricostruita dalla giurisprudenza comunitaria ispirandosi ampiamente ai principi radicati negli ordinamenti amministrativi degli Stati membri. Sotto altro profilo, però, non si è trattato di un mero “saccheggio”, cioè di una ricognizione passiva o puramente casistica.

Di volta in volta, infatti, sono state invocate regole che, seppur riconosciute soltanto da un numero minoritario di ordinamenti nazionali, sono state dai giudici del Lussemburgo ritenute più adeguate alla natura del sistema amministrativo comunitario.

A tale interessante processo di osmosi ha fatto perennemente da sfondo il valore della persona umana e la tutela dei diritti quesiti, grazie alla saldissima elaborazione del principio di affidamento. Come osservato in dottrina, la disciplina del potere di revoca delle amministrazioni comunitarie, inizialmente modellata soprattutto sulle figure del rétrait e dell’abrogation proprie dell’ordinamento francese, si è evoluta acquisendo e riadattando, soprattutto dal punto di vista procedimentale, elementi mutuati anche da altri sistemi nazionali(271).

Anche la mancata riproposizione delle distinzioni tra diverse tipologie di atti di ritiro, presenti invece nei sistemi nazionali, può essere vista come indice dell’approccio pragmatico seguito dai giudici comunitari, che hanno privilegiato concrete esigenze di contemperamento della legalità dell’azione amministrativa con la protezione degli interessi individuali: in tal senso, l’autotutela ha rivelato, e continua a rivelare, significative funzioni di armonizzazione dei sistemi giuridici fra Paesi membri e ordinamento comunitario.

Tale costante sforzo di integrazione non deve comunque far perdere di vista il punto di partenza, dato da un contrasto, spesso arduo, fra i diversi interessi interpretati dall’ordinamento comunitario e da quelli nazionali.

Indubbiamente, alla luce della precedente rassegna si può rilevare come il rimedio dell’autotutela relativa ad atti amministrativi anticomunitari ponga sul piatto della bilancia dei valori che da sempre connotano la complessità dei rapporti fra diritto comunitario e ordinamenti interni.

Si tratta infatti di contemperare i principi della certezza del diritto e dell’autonomia procedurale degli Stati membri da un lato; dall’altro, la preminenza e l’effettività del diritto comunitario.

271

Per Esposito A., La revoca degli atti amministrativi comunitari, cit, l’adozione del “two step analysis approach”,

elaborato dalla giurisprudenza inglese, rivela la tendenza al superamento della tradizionale distinzione tra gli ordinamenti di common law e quelli continentali a diritto amministrativo, configurando anzi, una “cross-fertilization” tra ordinamenti.

In quest’opera di bilanciamento spesso desta critiche l’approccio fortemente creativo (272) della giurisprudenza comunitaria, disinvolta nell’utilizzo di principi di cui è contestata la stessa immediata valenza precettiva, come l’art. 10 TCE: è significativo, del resto, come la ricostruzione di una pronuncia –cardine come la Kühne & Heitz ruoti interamente intorno al principio di leale cooperazione.

Volendo giustificare un simile approccio, certamente poco “tecnico” e sistematico, si può pensare che esso risponda ad una precisa strategia, nella quale il primato del diritto comunitario si “propone” quale superiorità condivisa, ma non si “impone” agli Stati membri a costo di stravolgerne le linee fondamentali.

Il richiamo a principi generali, in sostanza, dimostrerebbe che il diritto comunitario è coerente nel rispettare le tradizioni processuali degli Stati membri.

Non è un caso che dalla sentenza Delena Wels alla Kuhne & Heitz, fino alla pronuncia Kempter, (273), il “dovere” di riesame degli atti amministrativi sia affermato sempre solo a condizione che analogo potere sussista in capo alle amministrazioni nazionali, sulla base di espresse attribuzioni di diritto interno.

La certezza del diritto e la stabilità di preesistenti assetti d’interesse nei sistemi nazionali sono quindi particolarmente a cuore al diritto comunitario.

Ecco che allora non imporre un obbligo incondizionato di riesame in capo alle amministrazioni interne non necessariamente deve essere visto come una perdita di “posizione” da parte della Comunità.

Al contrario, si può riflettere sul dato che quanto realmente interessa al diritto comunitario è la sua effettività, e che questa viene garantita assicurando piena tutela in sede giurisdizionale alle posizioni soggettive in esso radicate: il rispetto delle tradizioni giuridiche degli Stati membri è quindi pur sempre asservito alla piena effettività del diritto comunitario e, indirettamente, alla sua supremazia.

272

Fra le critiche alla ricostruzione dei Giudici di Lussemburgo, si segnala il rischio di una eterogenea applicazione del diritto comunitario, dato che il potere di riesame è subordinato dalla Corte ad analogo potere spettante sulla base della normativa nazionale, ma non tutte le autorità amministrative degli Stati membri dispongono di analoga facoltà.

Si è inoltre obiettato come spesso simili elaborazioni pretorie scaturiscono dalle specificità di casi concreti e dovrebbero più opportunamente attenersi ad una visione onnicomprensiva del problema. Come rilevato da Grüner G., op. cit., p. 246, seguendo il tracciato della Kuhne & Heitz, si arriverebbe alla “conclusione, invero un poco paradossale, per cui gli

atti amministrativi nazionali semplicemente definitivi posseggono una forza di resistenza all’efficacia cogente delle pronunce pregiudiziali della Corte di Giustizia perfino maggiore degli atti amministrativi confermati da una sentenza passata in giudicato emessa da un giudice nazionale di ultima istanza”.

273

Rispettivamente, 7 gennaio 2004, causa C-201/02, cit.; 13 gennaio 2004, causa C-453/02, cit.; Grande sez.,12 febbraio 2008, causa C-2/06, Willy Kempter KG e Hauptzollamt Hamburg-Jonas, in Racc.I-411.

Ciò è particolarmente evidente in pronunce come le citate Kempter e Kühne & Heitz, in base alle quali l’autorità amministrativa non è tenuta ad andare al di là del principio di legalità della propria azione, né tanto meno contro l’autorità del giudicato.

Nondimeno, nel bilanciamento fra principio legalità e superiorità del diritto comunitario, il principio di leale cooperazione, strumentale all’effettiva attuazione dell’ordinamento sovranazionale, esplica una fondamentale funzione, imponendo perfino il riesame di atti definitivi, nonostante l’esaurimento dei rimedi giurisdizionali interni.

Nelle amministrazioni nazionali può addirittura ravvisarsi una sorta di longa manus (274) della Corte di Giustizia, laddove le giurisdizioni nazionali non siano in grado, sulla base della normativa nazionale, di assicurare un’interpretazione conforme a quella fornita dalla Corte dopo la conclusione definitiva della vicenda processuale interna.

In capo agli organi amministrativi sembrerebbe quindi riconosciuto un potere più ampio di quello previsto per gli stessi organi giurisdizionali, poiché il giudicato che vincola in via assoluta l’azione dei giudici nazionali, al ricorrere di determinate circostanze di fatto, deve essere messo in discussione dalla pubblica amministrazione, se del caso rettificando anche decisioni divenute definitive a seguito di sentenza passate in giudicato.

Una simile possibilità è, in ogni caso, strettamente subordinata alle peculiarità dei singoli sistemi processuali interni, dal momento che questa potestà di riesame deve sempre trovare un riscontro in analoga potestà riconosciuta dal diritto interno (275). In definitiva, al ricorrere di puntuali condizioni, la pubblica amministrazione è chiamata a svolgere una funzione “tutoria”, di garante della legalità, in un ordinamento che appare pienamente integrato con quelli nazionali, secondo una visione pienamente in linea con la tesi dell’integrazione fra ordinamenti.

L’obbligatorietà del riesame, anche se esplicabile a tassative e spesso infrequenti condizioni, mostra inoltre un innegabile profilo di vantaggio per i soggetti dell’ordinamento.

Esso è infatti foriero di maggiori garanzie in loro favore, nei confronti delle istituzioni, perché consente di sopperire con una tutela di tipo ripristinatorio, specie laddove non sia semplice o

274

Così De Luca P., Sull’obbligo di riesame delle decisioni amministrative contrarie al diritto comunitario”, op. cit., part. 185 ss., argomenta dalla pronuncia che mentre la stabilità del giudicato non è un valore di per sé incomprimibile, il potere di nominatività e tipicità dei poteri amministrativi lo è, quindi il rispetto della normativa procedurale interna rappresenta un limite insuperabile all’esplicazione dei poteri amministrativi.

275

La sentenza Kempter conferma quindi la superiore esigenza di rispettare l’autonomia procedurale di ogni singolo ordinamento, in linea con i principi cardine di un moderno Stato di diritto; esigenza che sarebbe verosimilmente messa in crisi laddove l’obbligo di interpretazione conforme non solo imponesse alle amministrazione nazionali di contravvenire ad un giudicato, ma addirittura di usare poteri non contemplati dall’ordinamento, così agendo perfino “extra ordinem”.

immediato accedere alla tutela risarcitoria (mancando, ad esempio, la prova di uno dei tre elementi costitutivi tradizionalmente associati all’illecito statale).

Infine, un ulteriore profilo merita considerazione nella “spinosa” tematica dell’autotutela avverso gli atti anticomunitari.

Esso riguarda i margini di discrezionalità di cui di fatto dispone l’autorità amministrativa nazionale, una volta determinatasi a ritirare il provvedimento.

Si può osservare, infatti, che nell’ambito del potere di autotutela ricollegabile a posizioni soggettive di fonte comunitaria, nella classica ponderazione fra interessi primari e secondari coinvolti nella singola vicenda, l’interesse primario al rispetto del diritto comunitario assume ben diversa consistenza se paragonato all’interesse al ripristino della legalità violata, riconducibile a posizioni soggettive proprie del diritto interno.

È pur vero che la pubblica amministrazione non è “costretta” a riesaminare i provvedimenti illegittimi dal punto di vista comunitario, ma è altrettanto evidente che, una volta determinatasi liberamente al riesame dell’atto, essa incontrerà pesanti condizionamenti nell’esercizio dell’autotutela decisoria.

I fattori da prendere in considerazione, nell'ipotesi di atti viziati per contrasto con disposizioni comunitarie, sono infatti più numerosi ed incisivi, dato che viene in gioco un ben più pregnante interesse pubblico alla rimozione dell’atto, dipendente dal carattere comunitario dell’invalidità. Questo, in sostanza, appare riconducibile non al mero “orticello nazionale” dell’interesse all’annullamento, ma deve ricondursi al più ampio ambito della Comunità e delle sue esigenze di congruenza interna.

Occorrerà allora valutare la necessità di una sua applicazione coerente e, se del caso, l’opportunità di evitare un ricorso per infrazione nei confronti dello Stato.

Ciò non può non ripercuotersi sulla stessa discrezionalità tipica del potere di autotutela, riducendola considerevolmente: gli interessi in gioco e soprattutto l’ampiezza dell’interesse pubblico alla rimozione di un atto anticomunitario dovrebbero essere tali da non lasciarle margini apprezzabili (276).

276

Cfr.Contaldi G., Atti amministrativi contrastanti con il diritto comunitario, in Il diritto dell’Unione europea, 2007, 4, 747 ss. Per L’A. l'unico limite che potrebbe indurre l'amministrazione a non annullare l'atto illegittimo per contrasto con norme comunitarie è ravvisabile nella creazione di situazioni giuridiche ormai definite nei rispettivi elementi giuridici e fattuali. In questo caso, la stessa amministrazione avrebbe come ostacolo il consolidamento di diritti soggettivi in capo ai singoli, situazione che “in linea di principio, si pone, per la medesima esigenza di certezza del

diritto stabilita all'interno dello stesso ordinamento comunitario, come circostanza che impedisce la revoca dell'atto amministrativo viziato”, p. 766.

III. L’ELABORAZIONE DI UN MODELLO AUTONOMO DI “INVALIDITÀ

Outline

Documenti correlati