II. LA PATOLOGIA DELL’ATTO AMMINISTRATIVO NAZIONALE PER VIOLAZIONE DEL DIRITTO
2. Le possibili fattispecie degli atti amministrativi “anticomunitari”
ordinamenti alla disponibilità della legge ordinaria e dando quindi piena forza all’accoglimento della tesi monistica.
È alla luce dei rapporti fra sistemi giuridici, così delineati, che la giurisprudenza amministrativa ricostruisce l’illegittimità comunitaria degli atti amministrativi interni.
2. Le possibili fattispecie degli atti amministrativi “anticomunitari”.
Si possono prospettare diverse ipotesi di invalidità dell’atto amministrativo per contrasto con la norma europea, rilevabili e sanzionabili dal giudice nazionale attraverso distinte discipline. Tuttavia, le “macroaree” in cui convogliare le possibili situazioni di conflitto sono due: da un lato, il contrasto diretto con normativa comunitaria self-executing, dall’altro il contrasto mediato, attraverso l’attuazione in via amministrativa di una norma italiana difforme dal diritto comunitario, e come tale disapplicabile.
Nell’ambito della prima categoria, la prima e macroscopica ipotesi consiste nella violazione diretta, non mediata da fonti interne, ravvisabile quando l’amministrazione adotti un atto in diretto contrasto con la norma sovraordinata e auto-esecutiva.
Tale può essere il caso della violazione di un regolamento comunitario, parametro diretto di legalità per l’atto amministrativo, perché direttamente applicabile e vincolante in ogni suo elemento, oppure il contrasto immediato con direttive auto-esecutive, da considerare come parametri, sia pure mediati, di legalità dell’atto amministrativo interno.
II problema del rapporto tra atti amministrativi nazionali e diritto comunitario si è inoltre posto per contrasto diretto rispetto a norme comunitarie non self-executing, quali direttive non direttamente applicabili o non ancora attuate: l’autorità amministrativa potrebbe infatti operare a prescindere da una direttiva non tempestivamente attuata, assumendo atti che ad essa non fanno alcun riferimento, o che da essa si discostano.
Giurisprudenza e dottrina sono tuttavia concordi nel ritenere che le direttive, pur se non “auto- esecutive”, vincolano pienamente le autorità chiamate ad attuarle sotto un duplice profilo: da un lato, ponendosi in positivo quale parametro di legittimità per l’attività diretta alla loro esecuzione, dall’altro, in negativo, precludendo qualsiasi iniziativa amministrativa da esse difforme.
unico strumento per risolvere le antinomie tra diritto interno e diritto comunitario, ritenendos, al contrario, che il riconoscimento del sindacato diffuso ponga un vincolo di stretta derivazione comunitaria, secondo la stessa giurisprudenza della Corte di Giustizia.
In base al fondamentale principio dell'estoppel enucleato dalla Corte di Giustizia, del resto, lo Stato non può opporre ai singoli l'inadempimento degli obblighi derivanti dalle direttive, ed anche a fronte di autorità diverse da quelle preposte a darvi attuazione, si impone quanto meno un vincolo di interpretazione conforme.
Ne deriva un duplice ordine di conseguenze.
Innanzitutto, nell’ambito del contrasto “diretto” fra atti amministrativi e norme comunitarie, si azzerano le distinzioni fra direttive immediatamente applicabili (o auto-esecutive, o self –
executing) e direttive non auto-esecutive (109).
In secondo luogo, pur essendo inidonee le direttive non immediatamente applicabili ad integrare la fattispecie normativa dell’atto amministrativo, esse devono ritenersi dei parametri di riferimento diretto per l’esercizio della discrezionalità, sempre che un simile potere faccia capo all’amministrazione nel caso specifico.
Una loro ipotetica violazione, pertanto, pur non integrando il vizio di violazione di legge, potrà rilevare in termini di eccesso di potere, e in tale conclusione potrà leggersi un’ulteriore conferma della tesi predominante, relativa all’integrazione degli ordinamenti.
Analoghe considerazioni si pongono per ulteriori atti di derivazione comunitaria non vincolanti, quali raccomandazioni, pareri e comunicazioni, da valutare per la prevalente dottrina secondo lo stesso valore attribuito ai pareri non vincolanti previsti nell’ordinamento interno, quali criteri di “indirizzo” della discrezionalità amministrativa.
In particolare, sono le comunicazioni della Commissione destinate ad incidere spesso sull’azione amministrativa dei Paesi membri, in virtù del loro carattere di atti atipici a contenuto eterogeneo, ora interpretativo o ricognitivo, ora esplicativo ed ampliativo della normativa comunitaria di riferimento. In ambiti di salda matrice comunitaria, come la libertà di circolazione delle merci, la sicurezza alimentare, gli aiuti di Stato, tali indicazioni della Commissione, spesso con spiccata valenza “additiva”, hanno confezionato veri e propri iter procedurali valevoli per i singoli Stati membri .
109
In quest’ultimo ambito, una correlazione potrebbe porsi nell’emanazione di fonti regolamentari o altri atti amministrativi generali, chiamati ad operare in materie già toccate dalle fonti sovranazionali non immediatamente esecutive. Invece, in relazione ai singoli provvedimenti amministrativi – singolari e concreti, poiché configuranti “precetti compiuti e incondizionati” – autorevole dottrina (cfr. Chiti M. P. – Greco G., Diritto comunitario e atti
amministrativi comunitari, in Trattato di Diritto amministrativo europeo, - di seguito, “Tr. Dir. Amm. Eur”.-, Giuffré,
Milano, 1997, p. 568), esclude una correlazione di tipo diretto, trattandosi di norme inidonee, di per sé, a disciplinare fattispecie concrete: l’inattitudine “tipica” di simili norme comunitarie a “scavalcare” preesistenti o successivi precetti nazionali fa sì che questi ultimi pongano un limite anche all’attuazione con regolamenti o atti amministrativi generali, sempre che la c.d. “legge comunitaria” non proceda preventivamente ad una loro delegificazione.
Con riguardo invece a raccomandazioni e pareri – non vincolanti per definizione, e come tali non impugnabili -, essi evidenziano in ogni caso un “effetto utile” nell’ambito dell’ordinamento comunitario, garantendo senz’altro la liceità dei comportamenti ad esse conformi, ed obbligando le autorità giurisdizionali degli Stati membri a tenerne conto nell’attività ermeneutica ed applicativa degli atti comunitari vincolanti.
Le linee guida tracciate da tali atti, se sono stringenti per i giudici nazionali, lo sono a maggior ragione per l’azione prettamente amministrativa, tracciando delle linee-guida per porla al riparo da possibili censure, quanto meno sotto il profilo degli aspetti sintomatici dell’eccesso di potere (110).
Altro profilo di possibile contrasto attiene inoltre al rapporto tra atti amministrativi nazionali e decisioni comunitarie.
La dottrina prevalente, sulla base del rilievo secondo cui la “decisione è obbligatoria in tutti i suoi elementi per i destinatari da essa designati” (art. 249 Trattato CE), ritiene che essa vincoli i suoi destinatari anche a livello di successiva attività amministrativa: l'atto da essa difforme dovrà quindi considerarsi illegittimo, non diversamente da quanto accade per l'atto amministrativo adottato in violazione di un regolamento (111).
Rispetto alle decisioni, la causa più frequente di conflitti è riconducibile alla dichiarata incompatibilità di alcuni aiuti di Stato con il mercato comune, con specifico riguardo alle misure esecutive di diritto interno (112): queste sono state ritenute annullabili dalla più rigorosa giurisprudenza, che ha fatto leva sul carattere vincolante e sulla diretta applicabilità delle decisioni di cui recavano attuazione (113).
110
Un simile influsso sulla discrezionalità potrebbe apprezzarsi, ad esempio, in sede di motivazione, inducendo a meglio esplicitare le ragioni per le quali la singola Amministrazione reputi eventualmente di discostarsene (cfr. Chiti M.P. – Greco G., Tr. Dir. Amm. Eur., op. cit., p. 575 ss).
111
Cfr. TAR Lazio, sez. III, sent. 6 dicembre 1988, n. 1746 e sez. III, sent. 12 novembre 1988, n. 1340, secondo cui “le
decisioni devono ritenersi obbligatorie in tutti i propri elementi, sicché, per esse, può parlarsi come di strumenti dotati d un’efficacia diretta negli Stati membri quando siano suscettibili di operatività immediata”.
112
Cfr. Gallo F., L’inosservanza delle norme comunitarie sugli aiuti di Stato e sue conseguenze nell’ordinamento
fiscale interno, Relazione al Convegno “Aiuti di Stato nel Diritto comunitario e misure fiscali” (Roma, Corte Cass., 1
settembre 2003), in Rassegna tributaria, 2003, 6, sulla procedura di verifica della compatibilità degli aiuti di Stato con il mercato comune, distingue fra aiuti esistenti, perché istituiti prima dell’entrata in vigore del Trattato ed aiuti nuovi, perché istituiti successivamente a tale data o all’adesione dello Stato membro all’UE, con un accento sull’efficacia in diritto interno dell’obbligo di sospensione della concessione degli aiuti nuovi, e delle possibili conseguenze sanzionatorie derivanti dall’inosservanza dell’obbligo di sospensione delle agevolazioni fiscali autoliquidabili.
113
Per CGCE, ord. 21 maggio 1977, cause riunite C-31-53/77, in Racc.1977, p.923, in tema di aiuti di Stato la circostanza che uno Stato membro ritenesse il provvedimento d’aiuto “compatibile con il mercato comune e la
decisione negativa della Commissione incompatibile con le norme del Trattato, non poteva autorizzare lo Stato membro a tenere in non cale il chiaro disposto dell’art. 93 ed agire come se tale decisione fosse giuridicamente inesistente”.
In senso contrario, sono stati ritenuti legittimi atti amministrativi che, a prescindere dalla formale abrogazione di una legge interna difforme dal dettato delle decisioni, se ne fossero in concreto discostate, così dando indiretta attuazione al provvedimento comunitario (114).
Passando alla seconda “macroarea” di possibili violazioni, propria del contrasto mediato, essa ricomprende le ipotesi in cui l’amministrazione emani un atto sulla base, quindi conforme ad una norma interna contrastante con una norma comunitaria, direttamente applicabile.
Rispetto all’invalidità comunitaria c.d. “diretta”, quest’ultima tipologia non implica una violazione né un autonomo vizio dell’atto, presupponendo anzi il rispetto del parametro di legittimità statale: il contenuto lesivo deve ricondursi quindi alla fonte normativa interna, e l’illegittimità può qualificarsi come “derivata”o indiretta.
A ben guardare, l’illegittimità indiretta potrebbe ravvisarsi nel vizio di un atto amministrativo difforme da una norma statale, applicativa di una norma comunitaria. Tuttavia quest'ipotesi sembra riconducibile allo schema proprio della illegittimità “diretta”, con la mera differenza che nel parametro di legalità si accorpano la fonte interna e quella comunitaria.
Un’ulteriore ipotesi, forse di più difficile inquadramento, consta nella violazione, mediata anch’essa, per il tramite di una norma nazionale contrastante ma con norma comunitaria non direttamente applicabile nell’ordinamento.
In senso analogo, la mancata disapplicazione della norma interna, che avrebbe dovuto essere “ignorata” dato il contrasto con la fonte sovraordinata, porta in via automatica all’invalidità del provvedimento amministrativo che si sia ad essa conformato.
114
Sempre in tema di aiuti di Stato, TAR Lazio (II, 16 dicembre 2004, n. 16262, in Servizi pubblici e appalti, 2005), ha ritenuto che il provvedimento nazionale di revoca di un aiuto di Stato, conforme ad una decisione della Commissione, non fosse sindacabile dal giudice interno, perché relativo all’attuazione di vincoli di matrice comunitaria, “rispetto ai quali è da
escludersi la possibilità di una difforme valutazione da parte di organi nazionali”. Accanto al rimedio dell’impugnazione
diretta della decisione, è stata riconosciuta al limite la possibilità di un rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia in qualità di “unico organo competente a verificare la legittimità di un atto amministrativo comunitario, dotato di esecutività e vincolante
non solo per gli Stati membri, ma anche per i soggetti destinatari degli aiuti”.
Nella singolare materia degli aiuti di Stato si è inoltre posto il problema dell’affidamento dei singoli beneficiari dei provvedimenti di aiuto, riconosciuto meritevole di tutela sempre che l’erogazione degli aiuti si fosse strettamente conformata alla procedura, “stante il carattere imperativo della vigilanza sugli aiuti statali operata dalla
Commissione”. Pertanto, un’eventuale negligenza dello Stato nell’erogazione dell’aiuto o nel successivo procedimento
d’infrazione, instaurato innanzi alla Commissione, può fungere da presupposto per un’azione risarcitoria, mentre l’annullamento della misura determina una situazione di indebito oggettivo, non d’inadempimento, “per la quale
sussiste l’obbligo della restituzione, unitamente alla sorte capitale, dei soli interessi maturati, restando quindi priva di ogni ragione giustificativa la maggiorazione derivante dalla rivalutazione monetaria”.
3. La categoria dell’invalidità del provvedimento anticomunitario. Introduzione ai modelli