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La Corte di giustizia e l’esercizio del potere di riesame di atti amministrativi nazionali definitivi

II. IL REGIME DI TUTELA AVVERSO L’ILLEGITTIMITÀ COMUNITARIA DEGLI ATT

3. La Corte di giustizia e l’esercizio del potere di riesame di atti amministrativi nazionali definitivi

La tematica sull’autotutela si è complicata, nella giurisprudenza comunitaria, in relazione all’eventualità che si potesse riesaminare una decisione amministrativa nazionale, divenuta inoppugnabile e definitivamente esaminata anche dal competente giudice nazionale.

La Corte di Giustizia esclude, in linea di principio, che un organo amministrativo debba riesaminare una decisione amministrativa che abbia acquisito il carattere della definitività, ciononostante riconosce che la tutela della legalità deve sottostare a precise ragioni e condizioni, poiché l’amministrazione resta padrona di un potere di scelta sul da farsi, sempre che non siano lesi gli interessi di terzi.

Nel celebre caso Kühne & Heitz (249), la Corte ha ritenuto configurabile un potere di riesame in autotutela di atti amministrativi anticomunitari divenuti definitivi a seguito di una sentenza nazionale di ultima istanza, ma in presenza di quattro e stringenti condizioni.

248

In CGCE, 17 aprile 1997, in causa C-90/95, cit., De Compte, in causa T-90/95, la Corte di Lussemburgo ha ritenuto

sufficiente l’accertamento della violazione del principio della tutela del legittimo affidamento per annullare le decisioni del Parlamento europeo impugnate dal ricorrente (par. 439; la pronuncia si segnala per il mutato approccio ai canoni di valutazione del legittimo affidamento del beneficiario di un atto revocato, considerando l’assenza di scorrettezze da parte di quest’ultimo quale elemento unico e sufficiente a stabilire la legittimità del relativo affidamento.

249

De Pretis D., Illegittimità comunitaria dell’atto amministrativo definitivo, certezza del diritto e potere di riesame, nota a CGCE 13 gennaio 2004, causa C-453/2000, in Giornale di diritto amministrativo (di seguito, Giorn. Dir. Amm.), 2004, 7. 723 ss.; per una ricostruzione delle problematiche sottese a tale decisione, inoltre, Galetta D.U., Autotutela

La questione verteva sulla sussistenza dell’obbligo per l’organo amministrativo interno, alla luce del principio di collaborazione statuito dall’art. 10 TCE, di rivedere una decisione divenuta definitiva anche a seguito di pronuncia giurisdizionale, al fine di garantire la completa efficacia del diritto comunitario così come interpretato a seguito di una successiva domanda di pronuncia pregiudiziale.

Il giudice del rinvio, nella fattispecie, rilevava che una regola secondo cui decisioni divenute definitive devono essere modificate per conformarsi ad una giurisprudenza successiva, nel caso specifico comunitaria, avrebbe creato una situazione di confusione amministrativa, compromettendo gravemente la certezza del diritto.

Nondimeno, l’opposto principio per cui una giurisprudenza successiva ad una decisione amministrativa definitiva non può di per sé incidere sul carattere definitivo di quest’ultima, aveva trovato una deroga relativamente alle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo sui procedimenti penali, e probabilmente doveva essere derogata anche nel caso in esame, stante la contrarietà all’ordinamento comunitario e l’esaurimento dei mezzi di tutela a disposizione del ricorrente.

La Corte, nel ricordare che la certezza del diritto va annoverata fra i principi fondanti del diritto comunitario e che il carattere definitivo di una decisione amministrativa, acquisito alla scadenza di termini ragionevoli di ricorso o in seguito all’esaurimento dei mezzi di tutela giurisdizionale, contribuisce a tale certezza, ha escluso la sussistenza, in via generale, di un obbligo di riesame: questo infatti potrà essere riconosciuto in circostanze eccezionali, subordinate alla concomitante ricorrenza di dettagliate e precise condizioni.

L’obbligatorietà del riesame non è, pertanto, automaticamente implicata dalla violazione del diritto comunitario, ma è subordinata al puntuale riscontro di univoche condizioni ed alla ponderazione di altri principi del pari rilevanti a livello comunitario, quale è la tutela del legittimo affidamento. Si conclude così che il principio di cooperazione derivante dal Trattato impone ad un organo amministrativo, investito di richiesta in tal senso, di riesaminare una decisione amministrativa definitiva per tener conto dell’interpretazione della medesima più pertinente nel frattempo accolta dalla Corte di Giustizia, solamente quando: a) l’organo amministrativo interno disponga, secondo il diritto nazionale, del potere di ritornare su tale decisione; b) la decisione in questione sia divenuta definitiva in seguito a sentenza di un giudice nazionale che statuisca in ultima istanza; c) tale sentenza, alla luce di una giurisprudenza delle Corte successiva alla prima, risulti fondata su un’interpretazione errata del diritto comunitario, adottata senza che la Corte fosse adita a titolo

amministrazioni nazionali alla luce della sentenza Kuhne & Heitz in Diritto comunitario e degli scambi internazionali,

pregiudiziale alle condizioni previste dal Trattato; d), infine, l’interessato si sia rivolto all’organo amministrativo immediatamente dopo avere avuto conoscenza della suddetta giurisprudenza.

Si aggiunge a tutto ciò, naturalmente, la circostanza che l’organo amministrativo abbia tenuto in considerazione eventuali interessi confliggenti dei terzi.

Da tale ricostruzione si può evincere che, in ipotesi di violazione del diritto comunitario derivante da una decisione amministrativa, il principio di certezza del diritto trova una salvaguardia nella rigorosa, stringente definizione dei presupposti di riesercizio del potere di riesame da parte di un organo amministrativo: di fatto, la Corte di Lussemburgo pur mostrando di avere a cuore il principio di legalità come “valore condiviso” in tutti i sistemi nazionali, si sforza comunque di ricondurre a tale valore tutte le particolarità del regime giuridico proprio degli atti amministrativi nazionali.

L’imperativo più immediato rinvenibile nella pronuncia è che il contemperamento fra principi ed esigenze opposti va fatto sempre nel senso di presidiare la certezza dei valori giuridici e la stabilità del diritto e delle posizioni giuridiche perfette, pur tenendo ben presenti le ragioni della supremazia del diritto comunitario.

Sullo sfondo di tali considerazioni, opera il principio di leale collaborazione sancito dall’art. 10 TCE che, di fatto, pone l’obbligo, non già una facoltà discrezionale, di attivarsi in autotutela, laddove ricorrano le condizioni riconosciute da una pronuncia così innovativa.

Da ultimo, vale la pena fare una considerazione su quanto emerge complessivamente dalla pronuncia, con riguardo ai rapporti fra diritto amministrativo interno e diritto comunitario.

Quest’ultimo sembra agganciarsi ai sistemi amministrativi dei Paesi membri come a diritti “speciali”, non solo nell’ottica di rispettare puntualmente le diverse tradizioni nazionali, ma anche per “esigenze in qualche modo coessenziali alla migliore definizione dei rapporti fra cittadino e

potere pubblico” (250), fissando dei limi temporali all’esercizio della tutela e consentendo, pur in presenza di un potere discrezionale, che il riesame venga disposto sulla base di un sano contemperamento dei vari interessi in gioco.

In altri termini, un’eventuale obbligatorietà (251) del riesame non implica affatto la doverosità dell’annullamento, restando fermo il potere discrezionale dell’amministrazione di valutare, con

250

Cfr. De Pretis D., op. cit., p. 729.

251

Si può agevolmente osservare che nell’ordinamento italiano una simile obbligatorietà si registra solo a fronte di attività vincolata nell’an, oltre che nelle modalità di riesercizio del potere. In queste ipotesi, infatti, l’individuazione dell’interesse pubblico ed il modo di soddisfarlo sono predeterminati per legge, quindi il vizio del provvedimento si risolverà nel dar vita ad effetti contrastanti con la disciplina giuridica dettata dalla norma.

Simili casi di doverosità nell’autotutela (o annullamento d’ufficio) sono riscontrabili in ipotesi in cui il provvedimento sia stato dichiarato invalido con sentenza del Giudice Ordinario (art. 4 LAC) o a seguito di annullamento in sede

ragionevolezza e secondo canoni di proporzionalità, se l’applicazione della norma comunitaria, una volta interpretata dalla corte di Giustizia, possa giustificare o meno il ritiro mediante annullamento di una sua precedente decisione, addirittura già coperta da giudicato (252).

Se certezza e stabilità giuridica normalmente prevalgono sulla supremazia del diritto comunitario, che si ritrae davanti a concetti come autorità di cosa giudicata ed inoppugnabilità di decisioni definitive, si mostra quindi il tendenziale rispetto della sovranità statale pur di fronte alla primauté dell’ordinamento sovranazionale.

Nondimeno, ci sono casi eccezionali, subordinati a tassative condizioni, in cui il rapporto si inverte e sono i primi due principi a recedere rispetto al terzo, sia pure negli stretti limiti in cui ciò serva ad imporre il riesame della decisione, il cui annullamento è comunque da intendersi come discrezionale e non dovuto.

Il dibattito sui poteri di riesame della pubblica amministrazione e le sue implicazioni nei rapporti col diritto comunitario si è di recente arricchito di alcune considerazioni sui possibili punti di contatto con il principio nazionale del giudicato.

La Grande sezione della Corte di Giustizia, con sentenza del 18 luglio 2007 (253) si è pronunciata su una domanda pregiudiziale del Consiglio di Stato, relativa ai principi di diritto comunitario

giurisdizionale o amministrativa di atti-presupposti rispetto a quello per cui è causa, o in ipotesi di rilevazione dell’invalidità, in sede di procedimento di controllo c.d. successivo.

Possono inoltre venire in rilievo le ipotesi dell’ottemperanza ad una decisione del giudice ordinario, passata in giudicato, in cui un atto amministrativo sia stato ritenuto illegittimo, oppure l’annullamento di un atto consequenziale come necessaria conseguenza dell’annullamento – giurisdizionale o amministrativo – dell’atto presupposto. Fra le ipotesi di più recente conio, sia dottrinale sia giurisprudenziale, vengono in rilievo l’illegittimo esborso di denaro pubblico ed il mancato decorso di un apprezzabile lasso di tempo dall’emanazione del provvedimento. Cfr. sull’ipotesi di invalidità dell’atto presupposto Cerulli Irelli V., Principi del diritto amministrativo, Giappichelli, Torino, 2005.

252

Sulla possibilità di disapplicare le norme nazionali sull’autorità di giudicato, cfr. infra, inoltre Corte di Giustizia in causa C – 118/00 (“Larsy”, cit.), sulla necessità di tutelare posizioni giuridiche di derivazione comunitaria. Il principio di intangibilità del giudicato, anche a fronte di un’assunta violazione del diritto comunitario, si rinviene già in CGCE,

Ecoswiss, 1° giugno 1999, causa C-126/97, in Racc. I-3055, cui infatti la Corte in tale occasione rinvia, trattandosi di un

lodo arbitrale ritenuto nullo per contrasto con l’art. 81 TCE.

253

Cfr. sentenza “Lucchini”, CGCE Grande sezione, 18 luglio 2007, causa C-119/05 in Racc. I-6199, con nota di Consolo G., La sentenza Lucchini della Corte di Giustizia: quale possibile adattamento degli ordinamenti processuali

interni e in specie del nostro?, in Rivista di Diritto processuale (di seguito, Riv. Dir. Proc, 2008, 1, 225 ss.), che si

riallaccia alla tematica della possibile caducità del giudicato rispetto al diritto comunitario, rilevando come “da alcuni

anni a questa parte, ed in modo sempre più visibile a decorrere quanto meno dalla sentenza del Plenum della Corte di giustizia europea del 30 settembre 2003 nel famoso caso Köbler, serpeggia già lo spettro - ché tale può parere quanto meno agli occhi dei processualisti (appena un poco) tradizionalisti - del carattere cedevole del giudicato sostanziale nazionale allorché esso sia stato pronunciato in spregio di norme inderogabili di diritto comunitario” , p. 225.

applicabili alla revoca di un atto nazionale di concessione di aiuti di Stato incompatibili con il diritto comunitario, adottato in applicazione di una pronuncia giurisdizionale nazionale che aveva già acquistato autorità di cosa giudicata.

La questione, vertente sulla legittimità comunitaria dell’art. 2909 c.c., ha sottoposto quindi al vaglio della Corte il rapporto fra supremazia del diritto comunitario e principio interno dell’autorità del giudicato, nella misura in cui l’applicazione di quest’ultimo possa impedire, di fatto, il recupero di un aiuto di Stato erogato in contrasto con il diritto comunitario.

Nel caso in esame viene quindi in rilievo sempre un atto amministrativo difforme dalla norma comunitaria, tuttavia applicativo non di una norma, bensì di una pronuncia giurisdizionale passata in giudicato.

La vicenda processuale ha visto contrapposti due provvedimenti definitivi e confliggenti: da un lato, la sentenza del giudice italiano aveva accertato il diritto del beneficiario all'erogazione dell'intero ammontare del contributo richiesto; dall'altro, la decisione della Commissione aveva dichiarato l’incompatibilità di tale aiuto, con conseguente obbligo in capo all'autorità italiana di provvedere al suo recupero (254).

Contro la revoca dell’atto di concessione del contributo finanziario, l'impresa italiana ricorreva quindi innanzi al giudice amministrativo.

Il Consiglio di Stato, in sede di giudizio di appello contro la sentenza di primo grado pronunziata dal TAR, chiedeva l'intervento della Corte di Giustizia ex art. 234 TCE, chiedendole di valutare se il principio dell'autorità di cosa giudicata ex art. 2909 cod. civ. contrasti con il diritto comunitario, nei limiti in cui l'applicazione di tale principio impedisca il recupero di aiuto di Stato illegale e incompatibile.

Nel dettaglio, secondo la prospettazione fornita dal giudice a quo, la norma in esame impedisce al giudice di conoscere sia le questioni in precedenza decise da un organo giurisdizionale in via definitiva, sia le questioni deducibili ma non dedotte in giudizio.

Il rischio paventato è che l'art. 2909 c.c. renda impossibile il recupero di un aiuto dichiarato incompatibile dalla Commissione, con conseguente ostacolo alla corretta attuazione del diritto comunitario in tema di aiuti di Stato.

Di fatto, la Corte circoscrive l’ambito di cognizione dei giudici nazionali, chiarendo che la loro competenza in tema di aiuti di Stato concerne solamente controversie nelle quali essi siano tenuti ad

254

In particolare, si era verificato che una società italiana, avendo richiesto la concessione di un sostegno finanziario sulla base della legge per l'intervento straordinario sul Mezzogiorno, aveva ottenuto dal giudice italiano dalla stessa adito sentenza definitiva di Condanna dell'Agensud all'erogazione del contributo, pure ritenuto incompatibile con il diritto comunitario con provvedimento della Commissione europea, mai impugnato.

interpretare ed applicare la nozione di “aiuto di Stato”, e solo al fine di valutare se un provvedimento statale debba essere o meno soggetto a procedimento di controllo.

Diverso il discorso riguardo alla “compatibilità di un aiuto di Stato con il mercato comune”, valutazione che è devoluta esclusivamente alla competenza della Commissione europea, operante sotto il controllo stretto del giudice comunitario; stessa riserva di competenza spetta ai giudici di Lussemburgo in materia di analisi della validità di un atto comunitario.

Ne emerge la declaratoria di incompatibilità del giudice amministrativo italiano a pronunciarsi tanto sulla compatibilità con il mercato comune degli aiuti di Stato, quanto sulla validità di una decisione della Commissione.

Per la Corte di Giustizia, la norma processuale in esame osta alla possibilità di dedurre in una seconda controversia motivi sui quali un organo giurisdizionale si sia già pronunciato esplicitamente e in via definitiva; essa preclude inoltre la disamina di questioni che avrebbero potuto essere sollevate in un precedente giudizio, senza che ciò sia avvenuto.

Una simile interpretazione potrebbe implicare una “supercompetenza” del giudice italiano, oltre a inibire, come nel caso specifico, l’applicazione del diritto comunitario, rendendosi di fatto impossibile il recupero di un aiuto di Stato concesso in violazione del diritto comunitario.

Ne deriva che, sia pure in un caso del tutto peculiare, l’effettività del diritto comunitario osta all’applicazione di una norma italiana posta a baluardo dell’autorità di cosa giudicata, laddove, in via mediata attraverso la sua applicazione, si possa inibire il recupero di un aiuto di Stato illegittimo, perché erogato in contrasto con il diritto comunitario e la cui incompatibilità con il mercato comune sia già stata dichiarata in virtù di decisione definitiva della Commissione europea. Sul tema è di recente tornata la Corte di Giustizia, con sentenza del 12 febbraio 2008, in causa C – 2/06, sia pure in un contesto applicativo differente.

La pronuncia, resa in materia doganale su un rinvio pregiudiziale inerente la corretta interpretazione dell’art. 10 TCE, appare riepilogativa e confermativa degli orientamenti già cristallizzati nel caso

Kühne & Heitz.

Più precisamente, la Corte si pronuncia sulla quarta condizione individuata dalla suddetta sentenza, in materia di limiti temporali richiesti per presentare una domanda di riesame, constatando che il diritto comunitario non impone alcun termine perentorio: in assenza di espressa previsione in tal senso, non sussiste quindi un obbligo stringente di presentare la domanda entro un preciso lasso di tempo, una volta che il richiedente sia venuto a conoscenza della giurisprudenza della Corte su cui la domanda stessa si fondava.

Nel caso di specie, al passaggio in giudicato di una sentenza emessa da un’autorità giudiziaria nazionale in tema di rimborsi comunitari, era sopraggiunta la pronuncia della Corte di Giustizia, che sia pure con riguardo ad altra fattispecie aveva posto rilevanti principi in materia.

Una parte processuale aveva conseguentemente chiesto all’autorità amministrativa nazionale di riesaminare la precedente decisione, adeguandosi al nuovo indirizzo formulato dai giudici di Lussemburgo, in conflitto con quello condiviso invece dai giudici nazionali.

La Corte conferma tutti gli assunti della Kühne & Heitz, ritenendo non doveroso, in via generale, il riesame di una decisione amministrativa definitiva, volto a tener conto delle disposizioni medio tempore adottate in sede interpretativa dai giudici comunitari.

Ciò non toglie che, in osservanza dell’art. 10 TCE, a ben tassative condizioni un simile obbligo sussista, sempre che gli organi nazionali siano dotati di un simile potere di revisione per corrispondenti fattispecie di diritto interno.

Pur non essendo quindi previsto a livello comunitario un preciso termine entro cui chiedere il riesame, gli Stati membri possono richiedere, in nome del principio di certezza del diritto, che una domanda di riesame e rettifica di una decisione amministrativa divenuta definitiva e contraria al diritto comunitario, così come successivamente interpretato dalla Corte, debba essere presentata all’amministrazione competente entro un termine “ragionevole”.

La Corte ha così confermato in pieno i precedenti giurisprudenziali su cui si innesta, sottolineando che spetta alle autorità degli Stati membri garantire l’effettività del diritto comunitario, anche in relazione a fatti o rapporti antecedenti a nuove letture ermeneutiche della Corte di Giustizia.

4. I principi guida nella giurisprudenza della Corte di Giustizia sul potere di ritiro degli atti

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