III. L’ELABORAZIONE DI UN MODELLO AUTONOMO DI “INVALIDITÀ COMUNITARIA”
3. L’illecito comunitario alla luce del regime della responsabilità extracontrattuale
La rassegna delle possibili categorie di diritto interno idonee a rappresentare la responsabilità delle pubbliche amministrazioni – per illecito provvedimentale o meno – porta a chiedersi se uno o più di questi modelli possano accogliere l’illecito statale per ipotesi di illegittimità comunitaria. Da un lato, i singoli schemi di diritto nazionale si mostrano autonomi e ben caratterizzati, dall’altro però si ripropone la forte incidenza del diritto comunitario sulla ricostruzione di un
sistema di responsabilità “a tutto tondo”, che sappia reagire su più fronti alle violazioni inferte al principio del “primato”, tutelando così i cittadini, veri attori dell’ordinamento comunitario. Ad una più attenta riflessione, sembra anzi di assistere ad un “moto circolare” di reciproca influenza fra diritto comunitario e diritto nazionale.
In prima battuta, l’elaborazione in sede comunitaria di regole e principi in tema di illecito e la loro sovrapponibilità ad analoghi istituti di diritto interno hanno certamente agevolato la giurisprudenza interna nel ricostruire un nuovo e più completo modello di responsabilità dei pubblici poteri, come se l’input lanciato dal diritto comunitario alla realizzazione dei suoi obiettivi, avesse poi imposto ai singoli ordinamenti non solo di attivarsi per concretizzarli, ma anche per porre rimedio a possibili violazioni ed inottemperanze. L’intervento di profonde riforme normative, sollecitato dell’impulso comunitario (ed in particolare dalla Direttiva Ricorsi) ha così “stravolto” ed arricchito il previgente assetto di giustizia amministrativa (316).
316
Sul versante delle innovazioni legislative, si rinvia agli artt. 33-35, D.lgs. 31 marzo 1998, n. 80, “Nuove disposizioni
in materia di organizzazione e di rapporti dì lavoro nelle Amministrazioni pubbliche, di giurisdizione nelle controversie di lavoro e di giurisdizione amministrativa, emanata in attuazione dell'articolo 11, comma 4, delle legge 15 marzo 1997, n. 59”, con una disciplina successivamente ampliata dalla l. n. 205/2000, recante “Disposizioni in materia di processo amministrativo” e novità eclatanti come la devoluzione alla giurisdizione esclusiva del G.A.
delle controversie patrimoniali consequenziali all'azione di annullamento, incluso il risarcimento dei danni ingiusti cagionati da lesione di interessi legittimi, poi estesa alla generale giurisdizione di legittimità. Tutti questi fermenti innovativi, al di là di alcuni effetti deteriori, come la segnalata “perdita di specificità” dei poteri del giudice amministrativo (così Romano A., Giurisdizione ordinaria e giurisdizione amministrativa dopo la L. n. 205 del 2000.
Epitaffio per un sistema, in Dir. Proc. Amm., 2001, 2), nell’estendere la risarcibilità dei danni dalle sole materie di cui
al citato D.Lgs. 80/98, a tutte quelle rientranti nella giurisdizione (anche di mera legittimità) del giudice amministrativo, hanno indotto la giurisprudenza di legittimità a rivedere il suo “pietrificato” orientamento sul punto, e a riconsiderare l’intero sistema della giustizia amministrativa, radicalmente trasformato nei suoi tratti identificativi, sollecitando anche una corposa produzione dottrinale nel tentativo di sistematizzare le nuove previsioni normative.
Si rinvia a Bacosi G., La lesione dell'interesse legittimo risarcita dal giudice amministrativo: il legislatore rende al TAR
quanto la Cassazione gli aveva apparentemente sottratto, in www.giust.it Riv. Internet di dir. pubbl., 2000; Scoca F.G., Risarcibilità e interesse legittimo, in Diritto pubblico, 2000, 1 , 13 ss., e Per un'amministrazione responsabile, in
Giur. Cost., 1999, 6, 4045 ss; Follieri E., La tutela risarcitoria degli interessi legittimi. Profili ricostruttivi, con riferimento al D.L.vo 31 marzo 1998, n. 80, in Le situazioni giuridiche soggettive del diritto amministrativo, vol. II del Trattato di diritto amministrativo, Cedam, Padova, 1999.
Sotto il profilo della caduta dell’irrisarcibilità del danno da lesione di interessi legittimi, la Corte di Cassazione, nelle Sezioni unite n. 500/1999, annovera tra le ragioni che l'hanno indotta a riconsiderare il proprio precedente orientamento “le perplessità più volte espresse dalla Corte costituzionale circa l'adeguatezza della tradizionale soluzione fornita all'arduo problema” (Corte Cost., sent. n. 35 del 1980 e ordinanza n. 165 del 1998), ma soprattutto fa riferimento alla spinta propulsiva dell’ordinamento comunitario ed al superamento di quel carattere occasionale delle previsioni normative introdotte nell'ordinamento nazionale per il recepimento di norme o di generalissimi principi di matrice
Dall’altro lato, il diritto nazionale deve necessariamente dotarsi dei mezzi per offrire tutela alla lesione di posizioni soggettive che nel diritto comunitario trovano la fonte, e che, violate in sede nazionale, in tale ambito devono poi essere rimesse in vita: le fratture prodotte dagli organi di diritto interno devono quindi ricomporsi qui, non avendo il diritto comunitario né paradigmi teorici, né strumenti pratici “autonomi” per farlo.
Si chiude così un cerchio, che va dalla supremazia del diritto comunitario, alla compartecipazione degli Stati membri nel dare voce a tale primato, fino alla posizione del singolo cittadino leso, che vede curare davanti al “suo” giudice naturale la ferita subita dall’ordinamento sovranazionale. In questo moto circolare, è ravvisabile una sorta di punto di arrivo nel privato cittadino, che diventa, singolarmente, il vero e proprio motore dell’effettività del diritto comunitario: è intorno all’esigenza della sua tutela che ruota tutto il meccanismo volto a dare attuazione all’ordinamento comunitario. Questo meccanismo ha un altro volto positivo: riempie di spessore il principio di leale cooperazione, dandogli l’occasione di tramutarsi da principio generale e di sistema a norma concreta, suscettibile di immediati risvolti applicativi nella giurisdizione amministrativa interna. Un sistema unitario di responsabilità della pubblica amministrazione radicato nell’ordinamento interno, che sappia disciplinare anche le ipotesi di inottemperanza conseguenti alla violazione di norme comunitarie, permette quindi di ovviare alla mancanza di una “norma di chiusura” nell’ordinamento comunitario.
In effetti, pur potendosi attivare la procedura di infrazione, questa rimarrebbe un rimedio di ripristino “oggettivo” della legalità comunitaria violata; ad un’eventuale, ulteriore inottemperanza dello Stato agli obblighi nascenti da tale pronuncia potrebbe seguire la condanna dello Stato inadempiente al pagamento di una somma forfetaria o di una penalità, non al risarcimento del danno subito dal singolo, che resterebbe privato di una piena soddisfazione delle proprie ragioni (317).
A ciò si aggiunge il fatto che mancando una giurisdizione di legittimità “comunitaria” sulle giurisdizioni dei singoli Stati membri, non si potrebbe mai interferire con i criteri di legittimità operanti all’interno dei singoli Stati membri; al tempo stesso, una prassi o un diritto vivente interno difformi dalle prescrizioni comunitarie, pur se inattaccabili e validi all’interno,
comunitaria. L'obiettivo è quello di dare attuazione al processo di armonizzazione del nostro sistema di tutela giurisdizionale con quello dell'ordinamento dell'Unione Europea e dei suoi Stati membri. Sul punto, cfr. Contaldi La Grotteria C., Diritti soggettivi ed interessi legittimi nella giurisprudenza della Corte di Giustìzia CE: spunti di
riflessione alla luce della sentenza Cass. SS.UU., n. 500/99, Riv. amm., 1999, I, 725 ss. 317
minerebbero profondamente quello che è il reale obiettivo dei Trattati, ossia la piena integrazione degli ordinamenti (318).
Una volta riconosciuta la necessità di un modello unitario, ricostruibile grazie a coordinate proprie del diritto interno, una delle questioni cruciali nell’ambito della responsabilità per violazione del diritto comunitario, è la possibilità di aderire o meno al modello di responsabilità aquiliano, dunque di inquadrare l’illecito nell’alveo dell’art. 2043 c.c., nota clausola generale e atipica del sistema di responsabilità civile italiana (319).
Invero, tale clausola traccia le coordinate della responsabilità atipica per eccellenza, pronta a recepire anche fattispecie non note o non ancora adeguatamente esplorate: essa si è quindi “offerta” a mo’ di soluzione naturale del problema, offrendo un utilissimo supporto nell’esame della responsabilità dello Stato – amministrazione (320).
L’ampiezza delle garanzie offerte dal modello aquiliano si presta a tutelare le istanze risarcitorie correlate alla violazione di tutte le posizioni soggettive meritevoli di tutela, a prescindere dalla rispettiva qualificazione formale. Ciò rafforza, evidentemente, il senso ed il rispetto della legalità nella pubblica amministrazione, vero stimolo alla ricostruzione di un sistema unitario di responsabilità.
318
Cfr. Lazari A., a cura di, La responsabilità statale in Diritto comunitario e nei singoli diritti nazionali, op. cit.
319
Quest’ultima, quale sanzione emergente per la violazione di obblighi, primari e preesistenti, nei confronti di altri soggetti, s’inquadra nel novero di molteplici situazioni di svantaggio per la Pubblica amministrazione, affiancando ulteriori categorie come la responsabilità contabile, amministrativa, penale, disciplinare e di risultato. È stata suggestivamente definita come un istituto tipico della società mista, che pur rimettendo all’individuo la decisione in ordine alla “desiderabilità dell’azione”, determina invece, attraverso una decisione collettiva per il tramite di leggi e codici, il “costo dovuto per eventuali effetti dannosi dell’azione individuale”, traslando i danni dal danneggiante al danneggiato, ad un prezzo ovviamente non preventivamente concordato dalle parti e secondo un meccanismo di controllo, ordine ed equità nei rapporti interprivatistici (Cfr. CalabresiG., La responsabilità civile come diritto della
società mista, in Interpretazione giuridica e analisi economica, a cura di G. Alpa, F. Pulitini, S. Rodotà e F. Romani,
Giuffré, Milano, 1982, che ne rileva il carattere di “medietà” rispetto ai rimedi offerti dal diritto penale e dal diritto dei contratti, basato sullo “scetticismo” della società mista circa l’abilità dei singoli di negoziare, pertanto la responsabilità si connota per lo “spostamento” del danno e del correlativo rischio, anche come strumento di imputazione e controllo in capo alla pubblica amministrazione ed all’azione amministrativa nel suo complesso).
320
Come rilevato da Calzolaio E., op. cit, p. 83 ss., se ad un primo approccio un modello “tipico” può apparire inidoneo a recepire nuove ipotesi di responsabilità dei soggetti pubblici, ad un secondo esame, proprio il relativo carattere rigido può meglio indirizzare verso l’azione a titolo di responsabilità nei confronti dello Stato, presentando una migliore aderenza al “variegato complesso di ipotesi emerse in sede comunitaria”.
Al contrario, la duttilità di un modello atipico potrebbe scontrarsi con la difficoltà di inquadrare di volta in volta ipotesi diverse e non determinabili a priori, tanto più in un sistema complicato come quello italiano, contraddistinto dalla duplicità delle giurisdizioni.
In secondo luogo, il sistema evidenziato è quello che meglio rispecchia i principi elaborati in tema di responsabilità per le istituzioni comunitarie, considerando che ai sensi dell’art. 288 TCE “in
materia di responsabilità extracontrattuale la Comunità deve risarcire, conformemente ai principi generali comuni ai diritti degli Stati membri, i danni cagionati dalle sue istituzioni o dai suoi agenti nell’esercizio delle loro funzioni”.
La giurisprudenza e la dottrina hanno così proceduto a “saggiare” la resistenza del tradizionale paradigma di responsabilità civile rispetto a nuove ipotesi di illecito, tra cui appunto quello comunitario, aprendosi un varco tra le ampie maglie della clausola generale di cui all’art. 2043 c.c.. Un simile modello - che rispecchia peraltro la tesi dominante della Cassazione circa il “titolo” generale di responsabilità della pubblica amministrazione -, ha posto anche il problema di individuare se vi fossero degli eventuali tratti di “specialità” dell’illecito comunitario rispetto alla responsabilità civile di diritto comune, o se il primo potesse essere ricondotto facilmente e senza sbavature nella seconda.
Ebbene, l’iniziale atteggiamento della Cassazione è stato tiepido, soprattutto per la difficoltà di ammettere anche in Italia un principio di “responsabilità” del potere politico, che avrebbe scalfito dogmi irrinunciabili.
Alcune più risalenti pronunce, anche se isolate, hanno addirittura fatto discendere dal primato del diritto comunitario la necessaria disapplicazione dell’art. 2043 c.c. – al quale sarebbe infatti irriconducibile la responsabilità del legislatore – per configurare un illecito “atipico”, i cui caratteri sarebbero direttamente tratteggiati dal diritto comunitario.
Le prime letture della Suprema Corte hanno in effetto accolto con freddezza gli input provenienti dal caso Francovich, sostenendo l’incompatibilità con il diritto interno dello stesso principio di responsabilità “extracontrattuale” dello Stato.
Seguendo tuttaviaun deciso rêvirement, grazie anche alla decisiva e sempre più solida presa di posizione dei giudici della Consulta, che hanno ammesso la possibilità di sollevare in via principale, nei giudizi di legittimità costituzionale, il contrasto fra diritto interno e diritto comunitario (321), l’orientamento prevalente, proprio in considerazione della c.d. “primauté” ha successivamente incasellato l’illecito di origine comunitaria all’interno della responsabilità aquiliana, riconoscendo il carattere aperto ed atipico della responsabilità extracontrattuale regolata dall’art. 2043 c.c..
321
Cfr. Corte Cost. 10 novembre 1994, n. 384 e 30 marzo 1995, n. 94, cit. Tale lettura risulta recepita anche in tema di controversie per mancato recepimento di una direttiva comunitaria sulla remunerazione degli specializzandi in medicina (Cfr. Dir. CEE 363 del 16 giugno 1975 e 76 del 26 gennaio 1982, analizzate da Cass. sez lav., 11 gennaio 1998, n. 5846).
La distinzione fra la tesi recessiva, relativa alla disapplicazione dell’art. 2043 c.c., e l’impostazione oggi dominante, sotto un profilo squisitamente pratico non penalizzerebbe il danneggiato, che vedrebbe comunque ristorato il suo danno, tuttavia la qualificazione del ristoro in termini indennizzatori (accogliendosi la prima tesi dell’illecito non aquiliano) piuttosto che risarcitori (accogliendosi la tesi dell’illecito extracontrattuale), avrebbe serie implicazioni di ordine sistematico.
Ciò induce la dottrina ad integrare con regole e schemi di diritto interno la disciplina pur “comunitaria” della responsabilità, escludendo che possa disapplicarsi la norma cardine della responsabilità aquiliana.
Del resto, le motivazioni a favore del paradigma aquiliano come modello di riferimento per la ricostruzione dell’illecito per violazione del diritto comunitario, fanno leva sulla seguente considerazioni.
Non ricevendo l’illecito comunitario una compiuta ed autonoma disciplina in sede sovranazionale, lo stesso dovrà trovare adeguata attuazione negli ordinamenti interni, e a ciò non può che dar voce l’unica clausola del sistema giuridico italiano che accoglie l’atipicità dell’illecito, cioè l’art. 2043 c.c..
Un simile, esplicito richiamo alla normativa interna fa del resto eco all’impostazione di base per cui nelle relazioni fra ordinamento comunitario e Paesi membri va accolta la tesi monistica.
Questa avrebbe così modo di operare, significativamente, non a senso unico, ma in duplice direzione: da un lato, per integrare il sistema delle fonti di diritto interno e porre nuove ipotesi di responsabilità a carico dello Stato – apparato, dall’altro, per “completare” il sistema giuridico (in particolare, sotto il profilo dell’illecito civile) dell’ordinamento comunitario, che non essendo autosufficiente e compiutamente definito in via normativa, deve appoggiarsi agli istituti di diritto interno.
Verso il modello della responsabilità aquiliana, ha poi spinto un altro elemento: i confini “elastici” della responsabilità dello Stato per violazione del diritto comunitario, suscettibile di manifestarsi attraverso le varie articolazioni del potere statale, dal legislativo all’amministrativo al giudiziario. Inoltre, è emersa la considerazione della natura casistica della ricostruzione dell’illecito comunitario degli Stati membri, un istituto che si è sviluppato per lo più in sede giurisprudenziale, a seconda delle emergenze via via da affrontare: la gradualità e l’approssimazione di un simile approccio ha così impedito di trovare una sistemazione puntuale per la materia.
La soluzione offerta dal modello extracontrattuale ha invece lusingato gli operatori del diritto, perché grazie al suo carattere onnicomprensivo eviterebbe lacune e vuoti di tutela, soprattutto rispetto a implicazioni o profili ancora inesplorati della materia.
Trattandosi, quindi, di “un’ipotesi di illecito che non riceve disciplina esaustiva in sede
comunitaria, ma che è destinata ad essere recepita ed adattata nei singoli Stati membri, la dottrina e la giurisprudenza dominante ritengono che l’unico modo in cui l’illecito comunitario può trovare ingresso nel nostro ordinamento, che accoglie un sistema di atipicità dell’illecito, è attraverso l’art. 2043 c.c” (322).
4. L’elemento soggettivo nel modello di responsabilità della pubblica amministrazione.