II. LA PATOLOGIA DELL’ATTO AMMINISTRATIVO NAZIONALE PER VIOLAZIONE DEL DIRITTO
1. La responsabilità dello Stato amministrazione: premesse generali
Un'ampia letteratura giuridica ha indagato i rapporti fra ordinamento statale e comunitario, guardando soprattutto alle antinomie intercorrenti fra le norme dei rispettivi sistemi.
In realtà la violazione del diritto comunitario può prodursi anche attraverso atti statali individuali e concreti, potendo risultare affetto da “incompatibilità comunitaria” anche l’esercizio dell’attività amministrativa.
Del resto, la giurisprudenza dell’effetto diretto e della supremazia del diritto comunitario hanno portato a ricostruire la responsabilità degli Stati membri per violazione delle fonti sovraordinate come un’entità unitaria, in modo da colmare ogni possibile lacuna nella tutela giurisdizionale spettante ai privati.
Dall’analisi delle inottemperanze del legislatore statale, la materia della responsabilità statale si è così irradiata in modo “tentacolare” su tutte le manifestazioni del potere statale, coinvolgendo anche lo Stato-amministrazione e lo Stato-giurisdizione (99).
Il riconoscimento costituzionale della disapplicazione delle norme anticomunitarie e del sindacato “diffuso” del giudice nazionale, per quanto innovativo, ha insinuato tuttavia il dubbio di aver risolto solo una parte dei problemi legati ai conflitti fra ordinamenti.
Per certi aspetti, infatti, la questione reale sarebbe solo “migrata” verso altri lidi: pur avendo sottratto il sindacato diffuso alla Consulta, almeno in parte, l’esame di tali antinomie, questo sarebbe in realtà ricaduto nella sfera di cognizione di tutti gli altri giudici (100).
99
Per CGCE, sentenza Faccini Dori, 14 luglio 1994, causa C-91/92, in Racc.I-3325 “l’obbligo degli Stati membri,
derivante da una Direttiva, di conseguire il risultato da questa contemplato, come pure l’obbligo loro imposto dall’art. 5 del Trattato di adottare tutti i provvedimenti generali o particolari atti a garantire l’adempimento di tale obbligo, valgono per tutti gli organi degli Stati membri ivi compresi, nell’ambito di loro competenza, quelli giurisdizionali”;
nello stesso senso, nell’ambito della più specifica giurisprudenza sul c.d. obbligo di interpretazione conforme, cfr.
Adelaner, cit., p.to 117, secondo cui “l’obbligo di uno Stato membro, ai sensi dell’art. 10, secondo comma, CE, e 249, terzo comma, CE nonché della stessa direttiva considerata, di adottare tutti i provvedimenti necessari per raggiungere il risultato prescritto da quest’ultima si impone a tutti gli organi nazionali”.
100
Cfr. Cocco G., Incompatibilità comunitaria degli atti amministrativi. Coordinate teoriche ed applicazioni pratiche, in Riv. It. Dir. Pubbl. Com. 2001, 3-4. 447 ss.
Alla giurisdizione amministrativa è così passato, in via naturale, il compito di valutare la compatibilità degli atti amministrativi rispetto al diritto comunitario.
Sin dalla “Fratelli Costanzo” (101) si è imposta con chiarezza la natura pervasiva del diritto comunitario, le cui norme, qualora attribuiscano diritti direttamente azionabili in capo ai cittadini dei Paesi membri, vanno attuate in misura diretta ed immediata anche dalle Amministrazioni pubbliche nazionali, autorizzate se del caso a disapplicare norme di rango legislativo o regolamentari interne.
Da qui è stato breve il passo per affermare l’inedita figura di Stato responsabile anche in veste di “amministratore”, in relazione ad atti o provvedimenti posti in essere nell’esercizio delle funzioni pubbliche, in difformità dal dettato comunitario.
La ricognizione delle tematiche via via emergenti ha consentito di isolare una serie di principi. Innanzitutto, è stata individuata anche a fronte dell’azione amministrativa l’esigenza di garantire ai singoli una tutela piena ed effettiva delle posizioni fondate sul diritto comunitario, quale corollario del principio di leale cooperazione.
L’“impunità” degli organi amministrativi, in caso di violazione delle fonti comunitarie, non garantirebbe la tenuta di un sistema che vede proprio nell’effettività il suo fulcro: come più volte osservato dalla Corte di Giustizia, sarebbe del resto messa a repentaglio la piena efficacia delle norme comunitarie e risulterebbe infirmata la tutela dei diritti da essa riconosciuti se i singoli non potessero essere risarciti, a prescindere dalla fonte e dal mezzo della violazione.
Un secondo principio evidenziato fa invece leva sulla sussidiarietà: il principio in base al quale “la
responsabilità gravante su un ente di diritto pubblico di risarcire i danni provocati ai singoli dai provvedimenti da esso adottati in violazione del diritto comunitario può sorgere in concomitanza e in aggiunta a quella dello Stato membro stesso (102)”, si colloca per sua natura proprio al guado fra attività normativa ed attività amministrativa dello Stato.
101
Fratelli Costanzo, sentenza 22 giugno 1989, causa C-103/88, cit.
102
Cfr. CGCE, sentenza Haim, 4 luglio 2000, causa C – 424/97, in racc.I- 5123, sul tema della responsabilità “concorrente” dello Stato per comportamento tenuto da altri soggetti pubblici, o privati equiparati: “Il diritto
comunitario non osta a che la responsabilità gravante su un ente di diritto pubblico di risarcire i danni provocati ai singoli da provvedimenti da esso adottati in violazione del diritto comunitario possa sorgere oltre a quello dello Stato membro stesso, derivandone una possibile articolazione del sistema di responsabilità secondo le competenze di volta in
vlta emergenti, salvo il problema della responsabilità sussidiaria dello Stato. Per una definizione di “sussidiarietà”nella sfera comunitaria, cfr. Cassese S., “L’aquila e le mosche. Principio di sussidiarietà e diritti amministrativi nell’area
europea”, in Foro it. 1995, V, 373; Strozzi G., Il ruolo del principio di sussidiarietà nel sistema dell'Unione europea,
Di più, esso rappresenta il contraltare della natura unitaria della responsabilità dello Stato verso l’Unione europea per infrazione del diritto comunitario (103), dal momento che a livello interno tale responsabilità andrà poi redistribuita sulla base di precise competenze.
1.1.Il rapporto fra diritto amministrativo nazionale e diritto comunitario fra tesi monistica e tesi dualistica
L’intreccio indissolubile fra ordinamento interno e comunitario, e soprattutto la spinta di accelerazione che il primo ha impresso allo sviluppo del sistema di responsabilità civile della pubblica amministrazione nel nostro sistema, impone che il complesso tema dell’“invalidità comunitaria” degli atti amministrativi sia ricostruito proprio alla luce dei rapporti intercorrenti fra i sistemi giuridici interessati.
È proprio sulla falsariga di tali rapporti, improntati alla supremazia e alla diretta applicabilità del diritto comunitario nei Paesi membri, che la giurisprudenza nazionale tenta di tracciare le coordinate dell’illegittimità comunitaria, restando peraltro il più possibile fedele alla collocazione che le fonti comunitarie hanno nell’alveo dell’ordinamento interno.
Il presente lavoro si prefigge di esaminare il carattere vincolante delle singole fonti di derivazione comunitaria nei confronti dell’attività amministrativa italiana, sotto il profilo della difformità degli atti interni e del correlato, possibile regime di tutela.
È noto come sulla ricostruzione dei rapporti fra i due ordinamenti (nazionale e sovranazionale) si siano tradizionalmente contesi il campo una concezione monistica ed una dualistica: le due letture,
103
In tal senso, per CGCE sentenza 13 dicembre 1991, causa C-33/90 (Commissione c. Italia), in Racc. 1991, I-5987 “uno Stato membro non può richiamarsi a situazioni del proprio ordinamento interno per giustificare l’inosservanza
degli obblighi e dei termini stabiliti dalle direttive comunitarie. Esso resta il solo responsabile, nei confronti della Comunità, del rispetto degli obblighi derivanti dal diritto comunitario, quale che sia l’uso che esso ha fatto della libertà di ripartire le competenze normative sul piano interno”. Secondo due successive ordinanze (21 marzo 1997, C-
95/97, Vallonia c. Commissione, in Racc. I-1787 e 1° ottobre 1997, Toscana c. Commissione C-180/97, in Racc. I- 5245), “emerge con chiarezza dal sistema generale dei Trattati che la nozione di Stato membro, ai sensi delle norme
istituzionali ed in particolare di quelle relative ai ricorsi giurisdizionali, comprende le sole Autorità di governo degli Stati membri delle Comunità europee e non può estendersi agli esecutivi di Regioni o di comunità autonome, indipendentemente dalla portata delle competenze attribuite a questi ultimi. Ammettere il contrario equivarrebbe a mettere in pericolo l’equilibrio istituzionale voluto dai Trattati, i quali determinano in particolare le condizioni alle quali gli Stati membri, vale a dire gli Stati firmatari dei Trattati istitutivi e di quelli di adesione, partecipano al funzionamento delle istituzioni comunitarie. Le comunità europee non possono infatti comprendere un numero di Stati membri superiore a quello degli Stati membri che le hanno costituite.”
pur pervenendo egualmente alla conclusione della primauté del diritto comunitario, ricostruiscono in termini antitetici le relazioni fra i rispettivi sistemi giuridici.
Tale divergenza ha una serie di implicazioni: muovendo dall’indirizzo che postula la separatezza degli ordinamenti, si deve coerentemente concludere che le norme comunitarie non s’inseriscono in quanto tali nell'ordinamento interno, e che un eventuale conflitto tra esse e le norme nazionali non inficia la validità di queste ultime, comportandone esclusivamente la disapplicazione, in modo tale da salvaguardare sempre e comunque la supremazia del diritto sovranazionale.
Ciò, per altri aspetti, fa sì che la norma comunitaria, per la sua “estraneità”, non sia suscettibile di porsi né come parametro di legalità e legittimità dell’azione amministrativa, né come fonte del potere esternato dall’autorità amministrativa interna nell’emanare l’atto.
A sfavore di tale teorica ha giocato soprattutto il rischio che essa possa neutralizzare sul piano della disciplina dell’azione amministrativa il principio del primato del diritto comunitario, inducendo a “negare alle norme comunitarie direttamente applicabili qualsiasi efficacia diretta sull’operato
amministrativo, non potendo le stesse costituire né il presupposto normativo fondante la potestà amministrativa di adozione dell’atto, né il parametro alla cui stregua valutarne l’eventuale illegittimità, o, per converso, la legittimità di un provvedimento, nonostante la sua contrarietà rispetto alla norma interna incompatibile con il dettato comunitario e quindi disapplicabile” (104) . Un celebre, ma isolato precedente giurisprudenziale in cui si evidenzia un simile rischio, è dato da TAR Piemonte II, 8 febbraio 1998, n. 34, che disconosce l’efficacia invalidante di un eventuale conflitto fra le due tipologie di norme, anche rispetto ad atti interni di natura amministrativa.
La pronuncia citata, da un lato fa discendere la nullità dell’atto amministrativo quale piana conseguenza della mera constatazione dell’inesistenza un parametro di legittimità (105), dall’altro segnala il rischio di vanificare la supremazia dell’ordinamento comunitario, e porta la tesi dualistica della “separazione” alle sue estreme conseguenze.
104
Garofoli R., Annullamento di atto amministrativo contrastante con norme CE self – executing, in Urbanistica e Appalti (di seguito, “Urb. App.”), 1997, 338 ss; per PignatelliN., L'illegittimità comunitaria dell'atto amministrativo, in
Giur. cost., 2008, 4, 3635 ss., la teoria della separatezza degli ordinamenti giuridici, portata alle sue estreme
conseguenze, è in grado di mortificare la primazia del diritto comunitario sul piano dell’attività amministrativa, negando alle norme comunitarie, in quanto appartenenti ad un altro ordinamento, sia la funzione attributiva di un potere amministrativo sia la funzione di regolamentazione del quomodo di esercizio del potere”.
105
“Se la norma che l’amministrazione pretende di applicare non esiste o per qualunque motivo non produce effetti
all’interno dell’ordinamento nel quale è destinata ad operare la pronuncia giurisdizionale, il giudice non può che accertare l’inesistenza del necessario parametro per la valutazione della legalità amministrativa, e siccome non esiste attività amministrativa legibus soluta, egli non può che dare atto della radicale nullità dell’atto medesimo”, sentenza in
Del resto, si osserva che la logica di “separatezza” può arrivare, paradossalmente, ad escludere la stessa configurabilità teorica di tale vizio. Ad accogliere tale impostazione, l’atto emanato sulla base di una norma comunitaria dovrebbe sempre qualificarsi come inesistente per carenza assoluta di potere, che non risulterebbe infatti radicato in una fonte riconosciuta dall'ordinamento.
Così ragionando, non sarebbe neppure ammissibile, a rigore, un'invalidità di tipo comunitario, mancando il "referente" di tale illegittimità, dato che le uniche norme fondative del potere amministrativo potrebbero essere quelle nazionali.
Diversamente, la tesi monistica - che pare ormai imporsi come ricostruzione dominante - aderendo alla formula degli “ordinamenti coordinati e comunicanti” (106) riporta nel recinto dell’ordinamento interno le disposizioni comunitarie direttamente applicabili.
Logico corollario di quest’ultima tesi è che la norma di diritto interno con esse contrastanti non sarà semplicemente inapplicabile, ma affetta da invalidità, e, soprattutto, troverà nelle fonti comunitarie un possibile parametro diretto di legittimità, se non la fonte stessa di attribuzione del potere (107). Un esplicito punto di svolta nella diatriba fra tesi monista e dualista appare segnato dalla novella alla legge n. 241/1990 recata dalla l. n. 15/2005, in particolare dall’aggiunta del comma 1-ter all’art. 1, che annovera fra i principi generali dell’azione amministrativa i principi dell’ordinamento comunitario, assunti quindi come parametri diretti, pienamente integrati nel sistema delle fonti interne. Il rinvio alle fonti comunitarie, per la sua natura onnicomprensiva, sembra peraltro destinato ad operare non solo per le materie di stretta derivazione comunitaria, ma a tutto tondo per l’attività amministrativa in genere, nelle sue più vaste applicazioni.
Tuttavia, ad un più attento esame dell’ordinamento giuridico italiano, si può ritenere che verso il riconoscimento della tesi monistica abbia spinto prima ancora che la legge sul procedimento amministrativo, l’art. 117 Cost., che ha segnato un importante passo avanti nella ricerca di un solido fondamento costituzionale alla “cessione” di sovranità in favore delle istituzioni sovranazionali. Invero, una lettura innovativa della norma costituzionale in esame, nel contrapporsi ad una visione di tipo “continuista o minimalista” (108), ritiene che essa abbia elevato il contrasto tra norma interna
106
Secondo la suggestiva visione di Corte Cost., in Granital c. Ministero delle Finanze, cit.
107
Così l’art. 1, l. n. 241/1990, come novellato dalla legge 1 febbraio 2005, n. 15 recante "Modifiche ed integrazioni
alla legge 7 agosto 1990, n. 241, concernenti norme generali sull'azione amministrativa”, suffraga secondo accorta
dottrina la prospettiva della compenetrazione fra gli ordinamenti, richiamando espressamente il diritto comunitario fra i parametri di legalità dell’azione amministrativa.
108
Per la ricostruzione dei rapporti fra le due tesi, Chieppa R., Nuove prospettive per il controllo di compatibilità
comunitaria da parte della Corte Costituzionale, Relazione al Convegno “Diritto comunitario e diritto interno” (Roma,
Corte Cost., 20 aprile 2007), in Il diritto dell’Unione europea, 2007, 3, 493 ss., esclude che i riconoscimenti innovativi dell’art. 117 Cost. possano implicare un ritorno al passato, ovvero ad un giudizio di costituzionalità accentrato come
e norma comunitaria a “parametro di costituzionalità”, sottraendo così le regole dei rapporti tra ordinamenti alla disponibilità della legge ordinaria e dando quindi piena forza all’accoglimento della tesi monistica.
È alla luce dei rapporti fra sistemi giuridici, così delineati, che la giurisprudenza amministrativa ricostruisce l’illegittimità comunitaria degli atti amministrativi interni.
2. Le possibili fattispecie degli atti amministrativi “anticomunitari”.
Si possono prospettare diverse ipotesi di invalidità dell’atto amministrativo per contrasto con la norma europea, rilevabili e sanzionabili dal giudice nazionale attraverso distinte discipline. Tuttavia, le “macroaree” in cui convogliare le possibili situazioni di conflitto sono due: da un lato, il contrasto diretto con normativa comunitaria self-executing, dall’altro il contrasto mediato, attraverso l’attuazione in via amministrativa di una norma italiana difforme dal diritto comunitario, e come tale disapplicabile.
Nell’ambito della prima categoria, la prima e macroscopica ipotesi consiste nella violazione diretta, non mediata da fonti interne, ravvisabile quando l’amministrazione adotti un atto in diretto contrasto con la norma sovraordinata e auto-esecutiva.
Tale può essere il caso della violazione di un regolamento comunitario, parametro diretto di legalità per l’atto amministrativo, perché direttamente applicabile e vincolante in ogni suo elemento, oppure il contrasto immediato con direttive auto-esecutive, da considerare come parametri, sia pure mediati, di legalità dell’atto amministrativo interno.
II problema del rapporto tra atti amministrativi nazionali e diritto comunitario si è inoltre posto per contrasto diretto rispetto a norme comunitarie non self-executing, quali direttive non direttamente applicabili o non ancora attuate: l’autorità amministrativa potrebbe infatti operare a prescindere da una direttiva non tempestivamente attuata, assumendo atti che ad essa non fanno alcun riferimento, o che da essa si discostano.
Giurisprudenza e dottrina sono tuttavia concordi nel ritenere che le direttive, pur se non “auto- esecutive”, vincolano pienamente le autorità chiamate ad attuarle sotto un duplice profilo: da un lato, ponendosi in positivo quale parametro di legittimità per l’attività diretta alla loro esecuzione, dall’altro, in negativo, precludendo qualsiasi iniziativa amministrativa da esse difforme.
unico strumento per risolvere le antinomie tra diritto interno e diritto comunitario, ritenendos, al contrario, che il riconoscimento del sindacato diffuso ponga un vincolo di stretta derivazione comunitaria, secondo la stessa giurisprudenza della Corte di Giustizia.