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II. IL REGIME DI TUTELA AVVERSO L’ILLEGITTIMITÀ COMUNITARIA DEGLI ATT

1. L’autotutela nel diritto amministrativo italiano

Il potere di ritornare su precedenti provvedimenti e incidere sulla rispettiva durata e permanenza di effetti risiede nella potestà dei pubblici poteri, non configurando quindi un preciso privilegio della

pubblica amministrazione, ma corrispondendo alla potestà in gran parte posseduta anche da altri organi pubblici di rettificare propri atti.

Definita tradizionalmente come un complesso di attività con cui ogni pubblica amministrazione è legittimata a risolvere i conflitti potenziali o attuali relativi ai suoi provvedimenti o alle sue pretese, in virtù dei mezzi a sua disposizione, la matrice dell’autotutela risiede pertanto nella potestà generale di ogni amministrazione, implicando il potere di pronunciarsi unilateralmente su tutte le questioni di propria competenza.

Se vista come “potere di farsi giustizia da sé”, senza dover ricorrere all’ordine giurisdizionale, l’autotutela è senz’altro una delle manifestazioni più pregnanti dell’autoritatività (219): di essa si sottolineano fortemente i caratteri della funzionalità e funzionalizzazione, preordinata alla “revisione” di quanto già espresso attraverso un potere tipico.

Del resto, qualora l’organo amministrativo ne usufruisca nell’ambito di rapporti privatistici, il potere di autotutela ha natura eccezionale (220), tassativamente delineato dalla legge.

In tutti gli altri casi in cui l’amministrazione spenda la sua potestà pubblicistica, l’autotutela si pone come una regola generale, intimamente connaturata ai suoi poteri di azione, che la giurisprudenza identifica nel potere di riesaminare i provvedimenti precedentemente adottati, nelle forme dell’annullamento e della revoca.

Circa i “contenuti” di questo potere di azione, il suo configurarsi - specie in passato - in termini di mera imperatività è stato motivo di profonde perplessità, ritenendosi che l’amministrazione, una volta rilevata l’invalidità dell’atto, avesse il dovere di agire per ripristinare l’osservanza della

219

Per Cammeo F., Corso di diritto amministrativo, Padova, 1914, rist. Padova, Cedam 1992 (citato da Corso G.,

Autotutela (Dir. Amm.), Enc. Dir. Pubbl., Utet, Torino, c. 608 – con richiami bibliografici anche a Benvenuti F., voce

Autotutela (dir. Amm.) in Enc. Dir., IV, Giuffré, Milano, 537 ss., Coraggio G., voce Autotutela 1) Dir. Amm., in Enc.

Giur., IV, Treccani, Roma, 1988), nell’esercizio del potere di riesame dei propri atti, l’amministrazione può surrogare

“un atto proprio a quelle sentenze di accertamento e costitutive che nel sistema del diritto positivo occorrerebbero in

egual caso”, laddove con l’esecuzione coattiva si potrebbe “surrogare il giudizio di cognizione diretto ad ottenere una sentenza di condanna, come il giudizio di esecuzione, che altrimenti occorrerebbe secondo il sistema procedurale privato”. L’idea della sostituzione al modello statualistico di tutela giurisdizionale è stata successivamente sviluppata da

Benvenuti, che considerando la Pubblica amministrazione come un microcosmo compiuto e perfetto nel sistema-Stato, di questo racchiude potenzialmente tutti gli aspetti, potendo così provvedere a correggere sue precedenti manifestazioni di potere o a risolvere i conflitti, potenziali o attuali, insorgenti con gli altri soggetti, in relazione ai suoi provvedimenti o alle sue pretese.

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norma, in linea con il superiore principio di legalità sancito dall’art. 97 della Costituzione, cui deve improntarsi l’intera azione amministrativa (221).

In realtà, per come impostato e da ultimo disciplinato dalla legge sul procedimento amministrativo, il riesame degli atti amministrativi in sede di revoca o di annullamento d’ufficio costituisce espressione di un potere discrezionale, di una “mera facoltà” riconosciuta alla pubblica amministrazione, stante il principio di inesauribilità dei relativi poteri (222).

La forma di autotutela che interessa ai fini del presente esame è quella decisoria, realizzata attraverso l’emanazione di decisioni amministrative vertenti sia su atti sia su rapporti giuridici, diretta a misurare tanto la validità dei primi, quanto la persistente utilità dei secondi.

Le sue manifestazioni più rilevanti, date dall’annullamento d’ufficio e dalla revoca, hanno ricevuto una collocazione normativa nella novella alla legge n. 241/1990.

In una precedente fase storica, i due istituti avevano configurazione esclusivamente dottrinale o pretoria, e l'inquadramento dogmatico del potere dell’amministrazione pubblica di riesaminare atti in precedenza emanati era oggetto di un intenso dibattito, volto a supplire proprio al difetto di riferimenti normativi. Si riteneva, diversamente, incompatibile il riesercizio del potere alla stregua dei principi di legalità e tipicità dei provvedimenti amministrativi.

Se in un primo momento queste due figure-cardine di riesercizio del potere confluivano nell’indistinta nozione di “revoca”, poi sono state riportate ciascuna alla propria autonoma dignità giuridica dall’evoluzione dottrinaria, giurisprudenziale, ed infine dalla codificazione normativa. Ad oggi, le relative fattispecie sono nitidamente separate dalla formulazione degli artt. 21 quinquies e 21-nonies della l. n. 241/1990 (223).

Peraltro, va osservato per completezza ricostruttiva che l’inquadramento dei poteri di ritiro nell’alveo dell’autotutela non è neppure pacifico, ritenendo parte della dottrina che l’emanazione

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Una soluzione attualmente antistorica, pur non potendosi semplificare il discorso: ci sono oggi, del resto, casi in cui l’amministrazione può non agire per la mera rimozione della situazione di illegittimità, sia pure a fronte di espressa previsione di legge.

222

In effetti, tale carattere discrezionale sembra discendere dal peso giocato dal corretto perseguimento dell’interesse pubblico per il quale è attribuito il potere. Non bastano, del resto, a giustificare il ritiro la sola illegittimità e l’inopportunità del provvedimento, occorrendo anche un distinto interesse alla eliminazione dei suoi effetti.

La discrezionalità può dunque apprezzarsi nella ponderazione degli interessi coinvolti, incluso quello alla eliminazione del vizio eventuale e di quello che la pubblica amministrazione e gli altri soggetti coinvolti abbiano alla conservazione degli effetti prodotti, dall’altro la scelta fra mantenere o eliminare gli effetti provvedimentali.

223

Sulle novità in tema di patologia dell’atto amministrativo e riesame, e sullo sforzo di codificazione e “recepimento” di decennali orientamenti giurisprudenziali, con riflessi anche verso la definitiva evoluzione del giudizio amministrativo dalle secche del giudizio sull’atto alla cognizione piena del rapporto, cfr. Caringella F., L’annullabilità dell’atto

dei provvedimenti di secondo grado incidenti sui correlativi provvedimenti di primo grado sia in realtà espressione del medesimo potere, originariamente speso.

Aderire alla tesi dell’amministrazione attiva piuttosto che a quella dell’autotutela non è una distinzione puramente scolastica, implicando un diverso atteggiamento nella valutazione dell’interesse pubblico all’emanazione dell’atto.

Se lo si considera un’esternazione canonica dell’autotutela, il ripensamento dell’amministrazione esprimerà un nuovo ed autonomo potere, potendosi quindi prescindere dalla riconsiderazione dell’originario interesse, cristallizzato nell’originario provvedimento.

Verranno allora in esame, se necessario, tutti i rilevanti interessi pubblici, anche se sopravvenuti e distinti da quelli considerati nella norma attributiva del potere originario.

Avrà inoltre un peso considerevole l’esame dell’affidamento nutrito dalla controparte privata della pubblica amministrazione nella persistenza dell’atto che si intende rimuovere.

Secondo il distinto orientamento, l’amministrazione dovrà riesaminare il medesimo interesse fondante la norma attributiva del potere, non anche interessi pubblici diversi ed estrinseci, e il maturare dell’affidamento non precluderà il riesame, strettamente ancorato alla valutazione dell’interesse originario.

Ai fini della presente ricerca, interessano i caratteri tanto della revoca quanto dell’annullamento d’ufficio.

In effetti, se la prima postula un ripensamento della pubblica amministrazione in vista della rivalutazione dell'interesse pubblico sotteso all’atto “incriminato”, anche a seguito di sopravvenienze che impongano di rivisitare l'interesse pubblico originario, il secondo poggia su un’illegittimità di tipo originario, pur se sorretto da un interesse pubblico attuale e concreto, ossia ulteriore rispetto al mero ripristino della legalità violata dall'atto viziato.

In dottrina si pone l’accento sulla riferibilità al rapporto e non all'atto quale elemento peculiare della revoca rispetto all’annullamento, che a differenza della prima interviene a fronte di un vizio originario dell'atto (224).

Come ulteriore tratto distintivo, la giurisprudenza richiede ai fini della legittimità della revoca che sussista un interesse pubblico attuale alla rimozione degli effetti del provvedimento originario.

Nel caso dell’annullamento d’ufficio, l’amministratore è tenuto ad un più delicato bilanciamento degli interessi coinvolti, incluso quello all’eliminazione del vizio ed all’eventuale conservazione degli effetti prodotti, oppure alla modifica degli effetti del provvedimento stesso.

224

Questa distinzione vale ad inquadrare nell’una figura piuttosto che nell’altra le particolari ipotesi di invalidità sopravvenuta dell’atto amministrativo, a seguito di jus superveniens con cui il medesimo risulti confliggente.

Quest’opera di mediazione rispetto all’esigenza di non incidere su posizioni consolidate e definitive, non a caso, potrebbe sfociare nella decisione di conservare l’atto, ancorché illegittimo: in sostanza, la validità del ritiro dipende dal corretto perseguimento dell’interesse a cui risponde la causa del potere conferito, quindi la mera illegittimità o inopportunità del provvedimento di primo grado, per comune ammissione di dottrina e giurisprudenza, non bastano a giustificarne il ritiro, dovendo sussistere un distinto interesse alla eliminazione dei suoi effetti (225).

Ne consegue la qualificazione dell’annullamento d’ufficio in termini di discrezionalità, che in questa sede rispecchia le sue più “classiche” definizioni, volte a dipingerla come ponderazione fra più interessi ed esigenze configgenti, onde giungere alla soluzione più opportuna e ragionevole per il caso concreto, anche nelle ipotesi in cui il riesame si attivi su istanza del privato (226). La connotazione pubblicistica del riesercizio del potere appare dunque indefettibile (227): non è del resto configurabile un interesse legittimo in capo al privato, se non in caso di attivazione spontanea da parte dell’amministrazione, così come non appare ipotizzabile un’ipotesi di silenzio – rifiuto nel caso d’inerzia verso l’istanza dell’interessato.

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