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L’approccio al problema nella giurisprudenza amministrativa italiana: il raccordo con i principi della

II. LA PATOLOGIA DELL’ATTO AMMINISTRATIVO NAZIONALE PER VIOLAZIONE DEL DIRITTO

6. L’approccio al problema nella giurisprudenza amministrativa italiana: il raccordo con i principi della

All’approccio pragmatico della Corte di Giustizia, volto ad affermare il primato del diritto comunitario, pur nel rispetto dell’autonomia processuale dei Paesi membri, si contrappongono le argomentazioni della giurisprudenza amministrativa nazionale.

Mentre la prima fa leva sulla “non necessità” di disapplicare gli atti difformi, i giudici nazionali evidenziano la “necessità di non” disapplicare, pena la violazione di principi basilari del nostro diritto, come la non elusività del termine di decadenza e del superiore principio di certezza dei rapporti giuridici pubblicistici.

Si giunge quindi al medesimo risultato, dato dalla regola della non disapplicazione, pur partendo da diverse considerazioni di fondo e valutazioni giuridiche.

La più immediata impressione che si ha dell’approccio della giurisprudenza di merito è che essa si destreggia fra il rispetto di equivalenza ed effettività, propri del diritto comunitario, e l’osservanza di due principi fondanti del processo amministrativo. Non è difficile immaginare che le attenzioni interpretative si concentrino per lo più sul principio di consolidazione degli atti, strettamente connesso a sua volta alla certezza dei rapporti giuspubblicistici, alla tutela dell’affidamento, alla stabilità e continuità dell’azione amministrativa.

Fra i provvedimenti che più comunemente si prestano ad un contrasto col diritto comunitario viene in rilievo la materia dei bandi di gara e di concorso.

In tale ambito, infatti, è molto probabile che un vizio procedurale integri la violazione di legge per contrasto, mediato o immediato, con le fonti comunitarie, che hanno letteralmente “riscritto” l’evidenza pubblica ed il principio di concorsualità a partire dagli anni ’80.

La contiguità della materia alle fonti sovranazionali ha anzi più volte sollecitato la riflessione del giudice comunitario, che proprio in questo campo si è indotto a stemperare e poi superare il suo più rigido, iniziale orientamento, proclive ad ammettere l’istituto della disapplicazione, cosi vanificando i termini di decadenza.

In questo peculiare settore il problema della disapplicazione è inoltre complicato dall’“interferenza” con la tematica dell'interesse a ricorrere.

È infatti dirimente, rispetto alla possibilità stessa di disapplicare l’atto lesivo, stabilire in quale momento sorga e vada esercitato l’interesse a ricorrere: si è posta così la tormentata questione se esso debba essere coevo all’emanazione dell'atto applicativo delle disposizioni del bando – che, di conseguenza, non deve essere tempestivamente impugnato – ovvero se emerga in una fase anteriore, coincidente con quella in cui l'amministrazione detta le regole con cui autolimita la propria libertà di apprezzamento .

Se un primo orientamento, espresso dalla giurisprudenza maggioritaria, ha fissato l'interesse ad impugnare gli atti di aggiudicazione di un appalto solamente all'esito del relativo procedimento, una seconda tesi lo ha ravvisato nel momento di formazione del bando, in cui sono definiti i criteri di aggiudicazione, con conseguente onere di tempestiva impugnazione in capo alle imprese partecipanti.

Un emblematico punto di contatto di questa problematica con la più ampia questione della disapplicabilità dei bandi di gara si ravvisa in una recente pronuncia del Consiglio di Stato (184). Nel caso portato all’attenzione dei giudici di Palazzo Spada, una cittadina austriaca, senza aver previamente impugnato la clausola del bando contestata, lamentava l’illegittimità comunitaria del bando nella parte in cui prevedeva la cittadinanza italiana quale requisito essenziale per partecipare ad una procedura selettiva per l’assegnazione di alloggi con beneficio dei mutui agevolati; conseguentemente, chiedeva la disapplicazione della clausola controversa al fine di conformare la procedura di gara alle regole comunitarie.

Il Consiglio di Stato, anziché far leva sul principio di efficacia diretta delle norme comunitarie, ha fondato il suo ragionamento su una posizione consolidata della giurisprudenza amministrativa, che sostiene la necessità di impugnare tempestivamente le clausole del bando immediatamente lesive. Tale ricostruzione poggia sulla classificazione dei bandi quali atti amministrativi: come tali, essi non sono passibili di quella disapplicazione riservata ai soli atti normativi (al pari di quelli regolamentari), imponendo a chi li ritenga viziati di impugnarli tempestivamente, a pena di decadenza.

184

A sua volta l’impugnazione, secondo i principi generali del sistema, postula una lesione attuale, immediata e concreta.

Ora, gli atti di gara, essendo atti generali, insuscettibili per loro natura di incidere concretamente ed attualmente sulla sfera giuridica dei destinatari (determinabili, peraltro, soltanto a posteriori), vanno impugnati secondo la dominante visione giurisprudenziale congiuntamente agli atti esecutivi, anche perché solo questi permettono di identificare il soggetto leso dal provvedimento e di rendere attuale ed effettiva la compressione della posizione soggettiva dell’interessato.

L’atto finale, in altri termini, non ripeterà una lesione già sostanziata nel bando, ma susciterà solo per la prima volta una violazione che, nel bando, esisteva solo “in potenza”.

Per contro, quelle clausole che si pongano come immediatamente lesive (185), perché richiedenti determinati requisiti di partecipazione, ovvero impeditive dell’accesso stesso alla selezione, vanno tempestivamente impugnate, pena la sanzione della decadenza (186).

Non si perverrebbe a questa conclusione se si ritenesse, come sostenuto solo da parte minoritaria di giurisprudenza e dottrina, che il bando ha natura di lex specialis: il supremo Consesso di giustizia amministrativa (con Adunanza Plenaria n. 1/2003) ha del resto sancito che un bando di gara non è fonte dell’ordinamento, non avendo attitudine all’indefinita ripetibilità, ponendosi al contrario come atto sostanzialmente e formalmente amministrativo, pienamente assoggettato al principio generale della perentorietà dei termini d’impugnazione.

Tale inquadramento si riflette, a catena, sul regime di disapplicazione, se si tiene conto della distinzione, elaborata in via pretoria, fra disapplicazione provvedimentale e disapplicazione

185

Tali sono nella giurisprudenza del Consiglio di Stato quelle che non lasciano alcuna “libertà di manovra” all’amministrazione nell’esercizio del suo potere, vincolandola in modo così stringente da escludere ogni possibile ulteriore valutazione sul punto. La materia è stata esaustivamente trattata dall’Ad. Plenaria del Consiglio di Stato, 29 gennaio 2003, n.1, secondo cui sussiste un onere di immediata impugnazione di un bando laddove esso “rechi una

immediata lesione, per i contenuti requisiti di partecipazione, tali da precludere ex ante la proposizione, con esito favorevole, della domanda di ammissione, quali quelle che ammettono o escludono determinate categorie di soggetti. Sono immediatamente impugnabili (nel senso che ne sussiste l’onere) le clausole del bando che stabiliscono i requisiti di partecipazione o siano impeditive dell’ammissione agli interessati alla selezione, in quanto idonee a ledere immediatamente e direttamente l’interesse sostanziale del soggetto, perché esattamente identificate, preesistenti alla gara, non condizionate dal suo svolgimento” (AP 1/2003, richiamata da Cons. Stato, n. 579/2005).

186

Nell’ampia dottrina sul punto, cfr. Chirulli P., Impugnabilità e disapplicazione dei bandi di gara: giurisprudenza

conservativa e fermenti innovativi, in Giustizia civile, 2004, 547; Vaiano D., L’onere di immediata impugnazione del

bando, cit.; Pizza P., Impugnazione diretta del bando, clausole immediatamente lesive ed interesse a ricorrere: una

tutela giurisdizionale incerta, in Dir. Proc. Amm., 2002, 3, 743 ss.; Id., L’Adunanza Plenaria e l’impugnazione diretta dei bandi, nota ad Adunanza Plenaria 29 gennaio 2003, n. 1, in Foro amministrativo Consiglio di Stato (di seguito,

normativa: mentre la prima coinvolge singoli provvedimenti non normativi, incidenti su posizioni di diritto soggettivo, ed è ammessa in via incidentale nell’ambito della sola giurisdizione ordinaria (187), ovvero – per assimilazione - nella sola giurisdizione esclusiva del G.A., la disapplicazione normativa prescinde dalle posizioni soggettive in gioco, attenendo piuttosto alla necessità di rilevare d’ufficio un atto normativo contrario ad una superiore previsione di legge, secondo i principi comuni in tema di gerarchia fra le fonti.

La tesi dell’impugnabilità immediata delle clausole direttamente lesive s’intreccia col principio di non disapplicazione degli atti amministrativi difformi dal diritto comunitario, anche in un’altra importante sentenza del Consiglio di Stato (188):il parallelismo di queste tematiche ha offerto al Collegio lo spunto per passare in rassegna alcuni punti cardine della giustizia amministrativa.

La questione sollevata in primo grado verteva sulla disapplicabilità di un capitolato speciale, ritenendosi illegittima una clausola del bando, impugnata dal ricorrente perché ritenuta in contrasto col criterio comunitario di aggiudicazione al prezzo più basso.

187

Cfr. art. 5 Legge di abolizione del contenzioso amministrativo (n. 2248/1865, all. E); per consolidata visione dottrinale e giurisprudenziale, i contenuti della legge abolitrice del contenzioso sarebbero più generale espressione del principio di ragionevolezza, riconoscendo la necessità che il giudice, nell’individuare lo schema normativo da applicare al caso concreto, applichi quanto strettamente conforme a diritto, superando in favore della legge l’eventuale contrasto fra questa e gli atti di normazione secondaria come i regolamenti. Inoltre, si evidenzia che l’eventuale, riconosciuta illegittimità di un atto amministrativo pur non potendo portare in sede di giurisdizione ordinaria al suo annullamento, non può tuttavia generare diritti opponibili alla controparte nell’ambito di un processo. La disapplicazione sarebbe quindi un fondamentale principio processuale volto a consentire al giudice ordinario – originariamente giudice unico – di ovviare all’infrazione del principio di legalità da parte delle amministrazioni pubbliche, preservando il superiore parametro della legalità dell’azione amministrativa.

188

Cons. Stato, sez. V, 10 gennaio 2003 n. 35. In materia, peraltro, si è “rischiata” una pronuncia risolutiva da parte dell’Adunanza Plenaria (1/2003) che tuttavia ha espresso il non liquet: la questione (disapplicabilità delle disposizioni del bando di gara contrastanti con norme comunitarie) presupponeva infatti che si fosse di fronte ad una omessa o tardiva impugnazione della clausola del bando di gara, circostanza non sussistente nel caso concreto, in cui il bando era stato impugnato con ricorso tempestivo.

Il problema dell’illegittimità comunitaria sub specie di contrasto con una clausola nazionale, disciplinante i criteri di valutazione delle offerte anomale, è stato sollevato con ordinanza di rimessione da Cons. Stato, sez. V, 6 maggio 2002, n. 2406. L'ordinanza, dopo aver richiamato l'orientamento di alcuni giudici di merito secondo cui il bando deve essere disapplicato - anche in difetto di impugnazione tempestiva - almeno quando l'illegittimità derivi dal contrasto con la normativa comunitaria, aveva demandato alla decisione anche la soluzione di tale questione.

L’ordinanza, dopo aver richiamato l'orientamento di alcuni giudici di merito secondo cui il bando deve essere disapplicato - anche in difetto di impugnazione tempestiva - almeno quando l'illegittimità derivi dal contrasto con la normativa comunitaria, aveva demandato alla decisione anche la soluzione di tale questione.

Il giudice di primo grado ammetteva tale soluzione, ritenendo annullabile l’esclusione della ricorrente dalla procedura e l’aggiudicazione del servizio alla società controinteressata, poiché viziate in via derivata.

In sede di gravame il Consiglio di Stato si focalizza sull’illegittimità della clausola, controversa perché confliggente con un criterio comunitario di aggiudicazione, oltre che priva di adeguata giustificazione nel suo contenuto precettivo (189).

Analizzare tale contrasto significa per il collegio concentrarsi sulla violazione dei canoni di “coerenza, logicità e ragionevolezza” che presiedono all’azione amministrativa e non anche, nonostante alcune diverse indicazioni rinvenibili nella motivazione, l’inosservanza di specifiche disposizioni normative.

Da una simile qualificazione dei vizi, il Consiglio di Stato trae che l’indagine sulla disapplicabilità del capitolato speciale non involge il più complesso tema dell’ammissibilità della disapplicazione di atti amministrativi nazionali contrastanti con il diritto comunitario (o con le norme nazionali derivate), in quanto estraneo alla materia controversa.

L’indagine che compete al Collegio dev’essere, invece, circoscritta alla verifica del potere del giudice amministrativo di sindacare incidentalmente ed eventualmente disapplicare gli atti amministrativi (tardivamente impugnati), sotto il profilo della difformità dal diritto nazionale.

189

Il problema si pone, ovviamente, nei soli casi in cui il bando (o altro atto contenente la disciplina di gara) non sia stato impugnato tempestivamente, ma solo insieme all’atto applicativo (ad es. esclusione dalla procedura dell’impresa ricorrente) della prescrizione (contenuta nel bando) che si assume illegittima. Occorre perciò verificare in via preliminare la sussistenza, nel caso di specie, dell’onere (e, in caso positivo, del suo rituale assolvimento dalla parte oneratavi) di immediata impugnativa del capitolato speciale (relativamente alla clausola contestata).

Sul punto, il Consiglio di Stato si riallaccia ad una plenaria (Ad. Plen., ord. 4.12.1998, n. 1), che, specificamente investita della questione, aveva provveduto a distinguere le clausole immediatamente lesive dell’interesse degli aspiranti concorrenti alla partecipazione alla procedura, da impugnarsi autonomamente e tempestivamente nel termine di decadenza dalla pubblicazione del bando, rispetto alle altre regole di gara, che possono essere impugnate unitamente all’atto applicativo.

189

In quest’ambito, la Corte afferma che il potere del giudice amministrativo di disapplicare atti non ritualmente impugnati è ammesso nelle sole ipotesi di giurisdizione esclusiva, relativamente alla controversie su diritti soggettivi (sulla base di un’interpretazione estensiva dell’art. 5 L. n. 2245/1865 all. E), nonché avverso regolamenti illegittimi, sia quando il provvedimento impugnato sia contrastante con il regolamento (Cons. Stato, Sez. V, n. 154/92) sia quando sia conforme al presupposto atto normativo (Cons. Stato, Sez. V, 24 luglio 1993, n. 799) e, in ogni caso, anche quando si verte in materia di interessi legittimi (Cons. Stato, Sez. V, 19 settembre 1995, n. 1332).

L’organo giudicante nega inoltre ogni carattere normativo ai provvedimenti di disciplina della gara, non ritenendo in essi configurabili i requisiti essenziali per la qualificazione di un atto come fonte dell’ordinamento, in particolare gli elementi dell’innovatività e dell’astrattezza.

Questa prima parte della sentenza ragiona sul tema della disapplicabilità senza direttamente chiamare in causa il contrasto con le fonti comunitarie, ma il Collegio non ignora che la problematica è attuale e merita ulteriori considerazioni.

Si prende così in esame il presunto vizio di violazione di norme comunitarie (da un lato, la surrettizia introduzione, in contrasto con l’art. 25 D. Lgs. n. 157/1995, di un meccanismo di esclusione automatica delle offerte anomale, dall’altro principi di estrazione comunitaria, come la tutela della concorrenza) per concludere che, in ogni caso, si perverrebbe alle “medesime

conclusioni reiettive”.

Infatti, “la più complessa questione della disapplicabilità di atti amministrativi nazionali

contrastanti con il diritto comunitario” (al quale può equipararsi il diritto interno di recepimento

delle fonti sovranazionali) per il Collegio va risolta in ogni caso in senso negativo, negando, come per il caso di violazione di norme dell’ordinamento interno, il relativo potere in capo al giudice amministrativo.

Una disposizione comunitaria violata – argomenta il Collegio giudicante -, soprattutto quando convertita in norma nazionale, si pone come diretto parametro di legalità dell’atto amministrativo, anche tenuto conto del rapporto di integrazione tra i due ordinamenti, da giudicarsi preferibile rispetto alla tesi dualistica che condurrebbe alla reciproca separatezza ed autonomia.

Conseguenza logica e coerente della tesi monistica è la “compenetrazione” del sistema delle fonti, e da qui il passo è breve per affermare che la violazione di una norma comunitaria implica un vizio di illegittimità-annullabilità dell’atto interno difforme dal relativo paradigma di validità (190).

Appare significativo, in tal senso, che nell’originario progetto di riforma della legge sul procedimento amministrativo, l’art. 13-sexies – poi non confluito nella l. n. 15/2005 - qualificasse espressamente come “annullabile” il provvedimento viziato da violazione di disposizioni di fonte comunitaria (191): l’inciso è stato quindi eliminato nella versione definitiva, tuttavia non può ignorarsi che l’art. 21-octies attualmente qualifichi come causa di annullabilità la violazione di legge, e che per tale, nell’ottica dell’integrazione degli ordinamenti, deve intendersi anche la norma comunitaria dotata di efficacia diretta.

Nessun riferimento all’illegittimità comunitaria appare invece, fra le tassative cause di nullità, nell’art. 21-septies, che ha aderito al criterio dell’enunciazione tassativa delle ipotesi di nullità

190

Al contrario, la diversa forma patologica della nullità (o dell’inesistenza) sarebbe configurabile per il Collegio nella sola ipotesi in cui il provvedimento nazionale fosse stato adottato esclusivamente sulla base di una norma interna (attributiva del potere nel cui esercizio è stato adottato l’atto) incompatibile (e, quindi, disapplicabile) con il diritto comunitario.

191

È in ogni caso significativo che nell’art. 1, l. n. 241/90 attualmente vigente sia stata espressamente indicata la fonte comunitaria come parametro diretto di legalità dell’azione amministrativa.

radicale dell’atto amministrativo. La mancata codificazione del contrasto al diritto comunitario fa dunque propendere per la tesi del residuale, ordinario regime di annullabilità (192).

Accertato così che il provvedimento contrastante con il diritto comunitario soggiace al regime sostanziale e processuale dell’atto illegittimo-annullabile, occorre verificare se la disciplina processuale interna, che impedisce il sindacato incidentale ed ufficioso dell’atto inoppugnato o tardivamente impugnato (ad eccezione degli atti di normazione secondaria) e, quindi, la sua disapplicazione, sia compatibile con la primauté del diritto comunitario e con il suo carattere vincolante per i giudici, oltre che per i legislatori e le amministrazioni, degli Stati membri.

Sul tema, il Consiglio di Stato si riallaccia puntualmente alla Corte di Giustizia: l’esercizio della potestà normativa in materia di tutela giurisdizionale di posizioni soggettive fondate sul diritto comunitario è libera, pur se soggetta ai noti, inderogabili principi di equivalenza e di effettività. In base al primo, nel caso di specie non è dato riscontrare alcun trattamento deteriore riservato al ricorrente che azioni una posizione soggettiva costituita dal diritto comunitario, rispetto a chi denunci invece l’illegittimità dell’atto per contrasto con la legislazione nazionale.

Quanto all’effettività, essa appare invece garantita dalla fissazione di termini ragionevoli, congegnati in modo da far valere efficacemente le pretese comunitariamente protette.

In particolare, l’ordinamento processuale nazionale (come quello italiano) deve porre il soggetto in grado di comprendere pienamente il pregiudizio generato da un atto amministrativo violativo del diritto comunitario, ed apprestare validi strumenti di reazione, agevolmente azionabili (quali la proposizione di un ricorso giurisdizionale entro il termine di sessanta giorni).

In un simile contesto, l’omessa attivazione di tali rimedi deve addebitarsi a negligenza della persona (fisica o giuridica) lesa dal provvedimento rimasto inoppugnato, e non a disfunzioni o a carenze del sistema di tutela di riferimento. Sarebbe semmai interessante, in quest’ipotesi, avanzare la tesi di un concorso del fatto colposo del creditore, ricorrendo a schemi propriamente civilistici.

Oltre alla clausole di bandi di gara, un’ulteriore, rilevante ipotesi di lesione del diritto comunitario da parte di provvedimenti – sia pure “atipici” - può risiedere nell’adozione di ordinanze di necessità

192

Le considerazioni sulla tassatività delle cause di nullità sono fatte proprie anche dalle più recenti pronunce del Consiglio di Stato (cfr. sez. V, 22 novembre 2006, nn. 6831, 6832 e 6833, ) secondo cui, neppure in tema di impatto ambientale si può sostenere che il provvedimento adottato in violazione del diritto comunitario sia nullo, in quanto l’entrata in vigore dell’art. 21-septies l. 7 agosto 1990 n. 241, introdotto dalla l. 11 febbraio 2005 n. 15, ha codificato le ipotesi di nullità del provvedimento amministrativo, che costituiscono quindi un numero chiuso. Peraltro, le più recenti pronunce del Collegio (fra cui, cfr. sez. VI, 3 marzo 2006, n. 1023, in Giur. It, 2006, p. 2414), spostano l’analisi sul versante dell’autotutela, riconoscendo che il principio del consolidamento dei provvedimenti amministrativi non impugnati e della non doverosità dell’attivazione del procedimento di autotutela opera anche quando il vizio dedotto sia costituito dalla violazione del diritto comunitario (sul tema, amplius, sez. II del presente capitolo).

ed urgenza, tipicamente espressive del potere di derogare a norme di legge, sia pure nel rispetto del quadro costituzionale e dei principi generali dell’ordinamento.

L’interrogativo che si è prontamente manifestato, all’indomani dell’emersione del sistema di responsabilità civile degli Stati membri per violazione del diritto comunitario, è se tali fonti possano derogare, sia pure nel rispetto dei principi inviolabili dell’ordinamento costituzionale, alle disposizioni di diritto comunitario.

La questione ha ovviamente destato clamore, dividendo giurisprudenza – tendenzialmente favorevole a tale deroga – e dottrina.

Quest’ultima, in particolare, denuncia come da un simile regime possa derivare un sistema gerarchico di fonti “rovesciato”, in cui si concederebbe ad atti amministrativi, sia pure “speciali”, quanto non concesso, neppure in via di eccezione, alle fonti normative. Con il risultato, in definitiva, di attentare pesantemente al primato del diritto comunitario.

In termini pragmatici, si suggerisce quindi di risolvere il problema a monte, avvalendosi di strumenti flessibili ed alternativi messi a disposizione dallo stesso diritto comunitario (193).

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