III. L’ELABORAZIONE DI UN MODELLO AUTONOMO DI “INVALIDITÀ COMUNITARIA”
1.1 La possibile elaborazione di un “modello” di illecito statale per violazione del diritto comunitario.
Il tema della responsabilità statale per “invalidità comunitaria” degli atti amministrativi s’inserisce nel novero dei mezzi di tutela disponibili per il privato davanti all’azione amministrativa, in un contesto storico segnato da profonde innovazioni sotto il profilo delle riforme della giustizia amministrativa, a coronamento della rinnovata visione dei rapporti fra pubblica amministrazione e cittadino.
Passando ad esaminare, più in generale, i caratteri dell’“illegittimità comunitaria” – in tutte le sue possibili implicazioni del potere statale -, fra essi vi è la circostanza per cui, nonostante il diritto comunitario abbia una sua identità forte e distinta, spetta alle giurisdizioni dei singoli Paesi membri garantirne poi l’effettiva applicazione, assicurando i diritti attribuiti ai privati.
Se, quindi, si può rilevare una sorta di “obbligo” generale di risultato relativamente all’attuazione del diritto comunitario (in nome di quella “clausola di fedeltà” descritta dall’art. 10 TCE, sull’obbligo di leale cooperazione), in caso di inadempienze l’ordinamento italiano è parte in causa, ed è chiamato ad offrire i suoi strumenti per ricomporre la “frattura” e riparare le varie conseguenze dannose.
Il modello di responsabilità invocabile per rispondere alle ipotesi di “illecito statale” mostra, significativamente, caratteri misti, nascendo dalla sovrapposizione degli elementi delineati dalla Corte di Giustizia in tema di responsabilità risarcitoria ed illecito, rispetto alle corrispondenti categorie del diritto interno.
L’elaborazione di tale modello può vedere infatti schierati in campo gli apporti ricostruttivi dei singoli Paesi membri, chiamati ad influenzarsi ed integrarsi.
non d’ufficio, prescindere quindi da un’azione diretta dei singoli interessati. Ne scaturiscono quelle che sono state definite “posizioni soggettive comunitarie”, o interessi comunitari, situazioni intermedie, peraltro in una prospettiva “ambigua” dal punto di vista del diritto interno, caratterizzata da una parte dallo sviluppo nei privati di situazioni soggettive che sarebbero da considerare diritti o quasi diritti, e dall’altra dal permanere nella Pubblica Amministrazione di ampi margini di potestà amministrativa e quindi di discrezionalità”.
In diritto comunitario, del resto, lo stesso regime della responsabilità delle istituzioni è una sorta di istituto “adespota”, non definito compiutamente in via normativa ma disegnato passo passo dai contributi della giurisprudenza nazionale e comunitaria, integrato dalla normazione di diritto interno e tracciato in modo casistico, in base alle esigenze di effettività di volta in volta emergenti.
Una simile ottica di coordinamento è opportuna anche per verificare le ricadute e le ingerenze dell’esperienza comunitaria sul piano dei diritti interni, verificando anche se di fronte ad un modello così innovativo di responsabilità (lo Stato che “cede” una propria fetta di sovranità e risponde a tutto tondo per lesione del diritto sovraordinato), i modelli di responsabilità civile tradizionali abbiano resistito.
In particolare, partendo dai parametri già tracciati in ambito comunitario, ci si è chiesti se la responsabilità della pubblica amministrazione per illecito comunitario possa ricondursi in un modello di invalidità “speciale” e a sé stante, distinto rispetto a specifici modelli di diritto interno, o se possa confluire in uno di questi, ed in particolar modo nel paradigma della responsabilità aquiliana.
Più in generale, considerando che la responsabilità extracontrattuale della Comunità sorge solo a determinate condizioni (282), gli interpreti s’interrogano se tali requisiti siano idonei a riflettere il più ampio tema della responsabilità da parte degli organi dello Stato-apparato, quando siano commesse violazioni del diritto comunitario.
Il fatto che l’illecito statale possa mostrarsi con diverse sfaccettature, implicando le varie manifestazioni del potere statale, fa tuttavia ritenere che i soli presupposti tracciati dalla Corte di Giustizia siano inidonei a risolvere i problemi con cui invece è costantemente chiamato a misurarsi il giudice interno.
282
Sugli elementi costitutivi dell’illecito, come noto, per la giurisprudenza Francovich la prima delle condizioni per la responsabilità statale è “che il risultato prescritto dalla direttiva implichi l’attribuzione di diritti a favore dei singoli .
La seconda condizione è che il contenuto di tali diritti possa essere individuato sulla base delle disposizioni della direttiva. Infine, la terza condizione è l’esistenza di un nesso di causalità tra violazione del obbligo a carico dello Stato e il danno subito dai soggetti lesi. In particolare, sulla “sufficiente qualificazione” della violazione della norma
attributiva di diritti, cfr. CGCE, sentenza 19 aprile 2007, causa C-282/05, in Racc.I-2941, “il criterio decisivo per
considerare una violazione del diritto comunitario sufficientemente qualificata è quello della violazione grave e manifesta da parte di un’istituzione comunitaria dei limiti del suo potere discrezionale. Qualora tale istituzione disponga solo di un margine di valutazione considerevolmente ridotto, se non addirittura inesistente, la semplice trasgressione del diritto comunitario può essere sufficiente per accertare l’esistenza di una violazionesufficientemente qualificata. La natura generale o individuale di un atto non è pertanto determinante per stabilire se si sia in presenza di una violazione di tal genere”.
Verso tali conclusioni ha spinto il dato che non solo non esiste una disciplina comunitaria di per sé autonoma ed autosufficiente a descrivere l’illecito degli organi nazionali per lesioni arrecate all’ordinamento comunitario, ma anche che non si può parlare di una fattispecie unica, né tanto meno unitaria di “illecito dello Stato”.
Sarebbe piuttosto opportuno prendere in considerazione una pluralità di ipotesi eterogenee, ciascuna con proprie regole, seppur tutte incasellabili nell’unico denominatore comune dell’ “illecito civile dei Paesi membri per violazione del diritto comunitario”.
Se il modello elaborato dalla Corte di Giustizia non appare adeguato al composito mondo della responsabilità statale, esso deve trarre linfa e ispirazione, nei metodi e negli elementi costitutivi, dal diritto nazionale: si assiste così ad un curioso circuito, in cui la responsabilità nasce dall’alto, nell’ambito del diritto comunitario, per violazione delle sue fonti da parte di organi sia legislativi, sia amministrativi che giurisdizionali, per poi riconfluire, a livello di tutela e risarcimento dei danni, nei modelli elaborati dal diritto interno.
Così ricostruito, l’illecito comunitario, pur avendo una sua radice – giustamente – comunitaria, mostrerebbe delle conseguenze pesantemente disciplinate dal diritto nazionale.
La definizione della fattispecie di responsabilità “comunitaria” sarebbe quindi, di per sé, imputabile al diritto comunitario, implicando anche a livello probatorio un accertamento totalmente incentrato sulla norma comunitaria violata; tuttavia, spetterebbe al giudice interno valutare tutte le regole cui commisurare l’entità del risarcimento, identificare la procedura, fissare i termini di prescrizione, attivarsi in definitiva per approntare tutti i rimedi idonei alla tutela del singolo (283).
La giurisprudenza nazionale è stata così spinta a mutuare, nell’opera “casistica” di ricostruzione dell’illecito comunitario, schemi e concetti propri del diritto interno (284), in un’ottica di “assimilazione”.
283
Il tutto, naturalmente, a condizione di rispettare quello standard minimo ed insopprimibile di tutela che risponde ai più volte richiamati concetti di effettività ed equivalenza. Come noto, per la Corte i criteri di determinazione del risarcimento non devono essere meno favorevoli di quelli che riguardano analoghe azioni fondate sul diritto interno e devono essere tali da non rendere impossibile o eccessivamente difficile il risarcimento, che deve essere quindi “adeguato” al danno subito.
284
Scoditti E., op. cit., p. 14, rileva che per la natura “anfibologica” di tale responsabilità non ha molto senso interrogarsi sull’estrazione comunitaria piuttosto che nazionale dell’illecito: in tale ottica, anche aderendo al paradigma aquiliano di responsabilità, lo stesso ne risulterebbe snaturato, perché la norma all’uopo invocabile – il 2043 c.c. – sarebbe la risultante di una sovrapposizione fra norma comunitaria e norma interna, quindi verrebbe “sensibilmente trasformata nel processo di compenetrazione con le regole comunitarie”: “dire che la norma comunitaria prescrive il risultato, e quella
interna predispone i mezzi per conseguirlo, non significa altro che esprimere questa dinamica di reciproca congruità ed adattamento di fonti, in base al quale il diritto di cui si fa applicazione non ha alcuna monocromaticità, ma è
In ciò ha anche dovuto tener conto di alcune divergenze di fondo rispetto all’ordinamento comunitario, specie per quanto attiene alla definizione del concetto di “potere amministrativo”, oppure, di fronte a istituti nominalisticamente uguali – come elemento soggettivo, nesso causale – del diverso peso o significato che questi possono assumere per la Corte di Giustizia (285).
2. L’individuazione di un modello plausibile ed unitario di responsabilità per violazione del