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Alle origini del mondo moderno: critica dell’antropocentrismo

4. Il mondo, senza uomo della tecnica

4.6. Alle origini del mondo moderno: critica dell’antropocentrismo

Quali sono però per Anders le cause che hanno portato alla situazione attuale, cosa ha spinto l’uomo nella situazione storica definita dall’assolutismo della tecnica?

Alcuni interpreti (Hildebrandt, p.52, Lohmann M., p.181) pongono un significato anche forse eccessivo ad una affermazione che, oltretutto unica, Anders fa nel primo libro di AM: “ Quanto più aumenta l’infelicità dell’uomo che produce, quanto meno si sente all’altezza dei suoi prodotti, tanto più moltiplica senza posa, instancabile, con avidità e terrore panico, il numero dei suoi inservienti, dei suoi congegni e sottocongegni”(AM1, 68): lo scatenamento delle forze produttive sarebbe dunque originato, secondo questi studiosi, da quel sentimento di inferiorità dell’uomo nei confronti dei suoi prodotti che Anders definisce, come abbiamo visto, “vergogna prometeica”.

Questa interpretazione appare però debole, soprattutto perché essa presuppone ciò che vorrebbe spiegare e cioè un mondo di prodotti talmente sviluppati da procurare vergogna all’uomo: ammesso che questa spiegazione abbia una qualche plausibilità, essa potrebbe valere solo per giustificare la continuazione di un processo storico, la cui origine rimarrebbe comunque ancora da spiegare.

Anche se Anders, più interessato a descrivere la situazione attuale che a ricercarne la genesi, limita la riflessione su quest’ultima ad accenni e riflessioni sporadiche (talvolta relegate nelle note), credo che siano due le spiegazioni che egli aveva in mente.

Innanzitutto la già analizzata prima rivoluzione industriale e specialmente ciò che ne costituisce il principio, cioè l’introduzione della macchina: essa costituisce uno spartiacque storico, un salto qualitativo, proprio perché appare dotata fin da subito di una propria soggettività, una inarrestabile, indipendente ed autonoma tendenza espansiva, una “fame di accumulazione”, una logica autoriproduttiva e

169 “Con ciò si intende un aggancio senza pari, una reale incorporazione degli uomini (appena

saranno socialmente mediati con se stessi) nella natura (appena la tecnica sarà mediata con la natura). Mutamento e automutamento delle cose in beni, natura naturans e supernaturans, al posto della natura dominata: questo dunque intendono i lineamenti fondamentali di un mondo migliore,

cumulativa: il passaggio dallo strumento alla macchina significa infatti per lui non tanto una trasformazione di tipo tecnico od economico, ma semplicemente l’inizio del processo in cui lo strumento, autonomizzandosi, diventa macchina. Questo processo, già in parte intravisto sia da Marx, ma soprattutto da Hegel - che definendo lo strumento “il medio razionale esistente, l’universalità esistente del processo pratico” ed esaltandone la sua superiorità rispetto “agli scopi finiti della finalità esterna” (Scienza della logica, p.848), aveva posto le premesse per le quali esso in quanto mediatore universale, diventasse il ‘fine’ a cui erano subordinati tutti gli scopi - appare caratterizzato soprattutto dall’aspetto ‘quantitativo’: è l’incremento, l’accumulo di strumenti, di simmeliana ‘oggettività’, che produce quella trasformazione ‘qualitativa’ che è la subordinazione della natura e dell’uomo alla tecnica.

Il principio del capovolgimento della quantità in qualità (studiato da Hegel nell’Enciclopedia e nella Scienza della logica e ripreso da Marx ne L’ideologia tedesca e ne Il capitale) “ci consente di dire che, finchè la tecnica a disposizione dell’uomo era appena sufficiente per raggiungere quei fini in cui si esprimeva la soddisfazione dei bisogni, la tecnica era un semplice mezzo il cui significato era interamente assorbito dal fine” : essa cioè rimaneva quello che Anders definisce propriamente come ‘strumento’, caratterizzato dal suo essere isolato, a completa disposizione del volere dell’uomo (che certo lo può utilizzare per scopi sia buoni che cattivi); “ma quando la tecnica aumenta quantitativamente, al punto da rendersi disponibile per la realizzazione di qualsiasi fine, allora muta qualitativamente lo scenario, perché non è più il fine a condizionare la rappresentazione, la ricerca e l’acquisizione dei mezzi tecnici, ma è la cresciuta disponibilità tecnica a porre qualsivoglia fine che per suo tramite può essere raggiunto” (Galimberti, 1999, p. 339): la tecnica è diventata ora ‘macchina’, ha assunto la fisionomia di reti di strumenti, di apparati connessi, guidati da una immanente razionalità.

In realtà, come già visto a proposito del rapporto tecnica-economia, Anders non analizza le motivazioni storico-economiche, il ruolo che queste hanno avuto nel determinare il passaggio dallo strumento alla macchina: egli si limita a prendere atto che questo passaggio ha radicalizzato quel dislivello tra le facoltà umane che, seppur antropologicamente radicato nell’uomo, era rimasto, fino a quel momento, limitato ed innocuo.

Se la macchina costituisce una svolta nella storia umana, che subisce da quel momento una accelerazione che sfugge al controllo dell’uomo (assumendo, con l’introduzione della bomba atomica, aspetti di inaudita drammaticità), appare anch’essa però conseguenza di un principio ancor più radicale (la seconda spiegazione di cui parlavamo poco sopra).

Alla base della scienza, della tecnica e dell’industrialismo c’è infatti per Anders uno specifico atteggiamento dell’uomo nei confronti della realtà e della natura, quell’antropocentrismo, iniziato nell’ambito monoteistico della tradizione giudeo- cristiana con Genesi 1, “che aggiudica all’uomo il «senso» di essere «sfruttatore dell’ente» e vede il senso dell’ente in questo essere materia prima per l’uomo” (AM2, 425, nota 1) e che ha trovato, secondo lui, uno sviluppo determinante in Kant ed Heidegger.

La polemica nei confronti dell’antropocentrismo attraversa in effetti tutta quanta la riflessione teorica di Anders: lo abbiamo già visto a proposito dell’antropologia filosofica e lo vedremo trattando il concetto di nichilismo e di contingenza; essa costituisce lo sfondo della critica a Kant ed Heidegger, alla visione cioè che essi hanno dell’uomo come posto ‘fuori’ della natura (come ‘fine’ o come ‘pastore dell’essere’), a cui è dovuta, in questo modo, una necessità che lo fa essere padrone del mondo.

Seppur deciso oppositore della strumentalizzazione dell’uomo - secondo la celeberrima massima della Seconda Critica, secondo la quale nessun uomo può essere trattato come mezzo, ma solo come fine - Kant non si è avveduto che il suo corollario, “«tutto quello che si vuole e su cui si ha un qualunque potere è lecito usarlo come mezzo, tranne l’uomo»”, comportava una “terribile licenza generale” (AM2, 404, nota 11), la trasformazione cioè di tutto l’essente in mezzo, ‘licenza’ che alla fine si ripercuote sull’uomo stesso: infatti è possibile supporre la compatibilità di entrambe le parti della massima, rispetto dell’uomo ed utilizzo di tutto il resto come mezzo, solo presupponendo un estremo antinaturalismo, l’idea cioè che l’uomo, benché creatura, non faccia parte del mondo naturale.

Lo stesso rimprovero Anders muove ad Heidegger: con il suo concetto di uomo come “pastore dell’essere”, egli si dimostra “ancora un nipote dell’antropocentrismo veterotestamentario. La sua tesi, un secolo dopo Origin of Species , rappresenta il punto culminante dell’antinaturalismo esistente oggi nelle filosofie non-religiose” (AM2, 425, nota 21).

4.6.1. Excursus: La Dialettica dell’illuminismo

Individuare nello sguardo antropocentrico l’origine ed uno dei tratti principali della storia dell’occidente significa avanzare una interpretazione che, seppur espressa da Anders (come appena visto) solo attraverso brevi accenni, richiama analoghe proposte teoriche, quella di Heidegger per esempio o, in questo sua vera allieva, della Arendt od anche degli autori francofortesi.

Su questi ultimi, per la vicinanza che presenta nel complesso la loro riflessione rispetto a quella di Anders, soprattutto per alcune analogie nella loro diagnosi della deriva perversa della modernità, crediamo sia importante focalizzare l’attenzione: ciò che essi infatti chiamano ‘illuminismo’ - è noto che in loro questo termine non si riferisce né alla filosofia né al periodo storico che si è solito definire con questo nome, ma ha, come ribadisce Adorno, “un senso straordinariamente vasto” (Terminologia filosofica, p. 60), sicchè “storia universale ed illuminismo diventano la stessa cosa” (Dialettica dell’illuminismo, p. 54) – non è altro che questo sguardo padronale sulla natura.

Horkheimer ed Adorno intendono con esso da un lato, la ragione in generale, la totalità della storia umana intesa come processo di progressiva razionalizzazione, dall’altro la tendenza al dominio insita in esso: “la traduzione sul piano intellettuale del progredente dominio sulla natura da un lato, della crescente demitizzazione e razionalizzazione dei comportamenti e delle credenze dall’altro”(Petrucciani, 1984, p. 38).

Esso consiste in un “preciso atteggiamento dell’uomo verso la natura, ovvero nella pretesa di conoscerla per trasformarla e plasmarla ai propri fini” (Bedeschi, p. 117), così da rendersi simile a Dio: “Come signori della natura, Dio creatore e spirito ordinatore si assomigliano. La somiglianza dell’uomo con Dio consiste nella sovranità sull’esistente, nello sguardo padronale, nel comando” (Dialettica dell’illuminismo, p. 17).

Con “dominio” Horkheimer ed Adorno intendono quelle strategie che l’uomo, spinto dall’impulso all’autoconservazione (che nasce dalla paura mitica di perdere il proprio “io”), mette in atto per sopravvivere.

Il dominio è dunque in primo luogo l’atto dell’oggettivazione, attraverso il quale nasce la ragione e la natura è ridotta ad oggetto: “il nesso fra ragione e dominio non è dunque un accidente storico ma fa parte della struttura della ragione”

(Cortella, 2006, p. 8): esso nasce con lo “ sguardo con cui il primo uomo vide il mondo come una preda” (Horkheimer, L’eclisse della ragione, p.151): la ragione inizia caratterizzandosi come ciò che è opposto alla natura e la domina170.

La nascita del soggetto autonomo, emancipato dalla soggezione alla natura, implica però (ed in questo consiste il movimento dialettico) l’ estraniazione da se stesso, dalla natura esterna, dagli altri uomini ed alla fine la sua sottomissione ad un nuovo destino mitico, in quanto irrazionale. “Gli uomini pagano l’accrescimento del loro potere con l’estraneazione da ciò su cui l’esercitano. L’illuminismo si rapporta alle cose come il dittatore agli uomini: che conosce in quanto è in grado di manipolarli” (Dialettica dell’illuminismo, p. 21)

L’uomo dunque si estranea da se stesso, perché il dominio sulla natura e sugli altri uomini è possibile solo in forza di un rigoroso ascetismo al quale l’uomo deve sottomettersi. Ulisse vince le forze naturali solo rinunciando a tutti i propri desideri. La soggettività si forma dunque attraverso la repressione della natura interna e delle pulsioni più forti. L’uomo è costretto “a negare quella eteronomia interna che sono i bisogni, i sentimenti, il piacere, il corpo” (Petrucciani, 1984, p.260), divenendo cosa a se stesso.

L’uomo si estranea dalla natura esterna, che diventa puro oggetto di sfruttamento, sottoposta alla manipolazione di un pensiero il cui unico criterio è il calcolo e l’utilità. Nella matematizzazione della natura, funzionale ad una società unicamente tesa alla trasformazione tecnico-pratica della natura ed il cui “meccanismo complessivo di unificazione è costituito dallo scambio e quindi dalla riduzione di tutte le cose al loro valore astratto, espresso in termini quantitativi, ovvero numerici” (Bedeschi, p. 120), le differenze e le qualità vengono semplicemente trascurate o dichiarate inesistenti: “L’illuminismo è totalitario più di qualunque sistema” (Dialettica dell’illuminismo, p. 33).

L’uomo si estranea dagli altri: “la società umana si è sottratta alla immediata soggezione alla natura dividendosi in classi e così scambiando il rapporto di dipendenza di tutti gli uomini dall’ambiente esterno con quello di sottomissione degli uni da parte degli altri che, dominando sulle condizioni di produzione, dominano sugli uomini e, dominando sugli uomini, diventano veramente padroni

170 In Eclisse della Ragione Horkheimer afferma, in consonanza con Anders, che “questa mentalità

che concepisce l’uomo come l’unico e assoluto padrone del mondo si può far risalire fino ai primi capitoli della Genesi” (p, 93).

della natura. La dipendenza dalla natura si traduce in dipendenza intrasociale.” (Petrucciani 1984, p.233).

Si crea così una unità di collettività e dominio in quanto la divisione sociale del lavoro, “a cui il dominio dà luogo sul piano sociale, serve al tutto dominato per autoconservarsi” (Dialettica dell’illuminismo, p. 30). Si potrebbe dire che il dominio “è, al tempo stesso momento necessario nella autoconservazione del tutto sociale e privilegio di una minoranza sostenuto dalla coercizione” (Petrucciani, 1995, p.104).

Alla dipendenza dalla natura si sostituisce perciò quella del dominio sociale. La libertà dell’uomo dalla costrizione naturale si trasforma in dipendenza da una società irrigiditasi in “seconda natura”: “La civiltà è la vittoria della società sulla natura, che trasforma tutto in mera natura” (Dialettica dell’illuminismo, p. 200); la tecnica si trasforma in mito (vedi Adorno, Scritti sociologici, p. 320).

Si compie in questo modo la ‘dialettica della ragione’: essa “vuole emanciparsi dalla natura , ma persegue tale emancipazione ribadendo contro la natura la medesima coattività naturale, e proprio per questo ogni tentativo di emancipazione si risolve in una ricaduta nella naturalità. L’espansione dell’illuminismo è in realtà l’ espansione del naturalismo, si risolve cioè in una ri- naturalizzazione della società. Adorno e Horkheimer vogliono scrivere qui un nuovo capitolo nella storia della teoria della reificazione sociale” (Cortella, 2006, p. 10).