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Il dibattito sull’industria culturale: Benjamin ed Adorno

2. L’uomo è antiquato

2.7. Il dibattito sull’industria culturale: Benjamin ed Adorno

Già queste prime riflessioni di Anders, che nascono in un contesto come quello della Repubblica di Weimar, nel quale sia la radio che i giornali che il cinema avevano conosciuto un grandissimo sviluppo, sembrano dunque escludere l’idea di poter utilizzare i nuovi mezzi di comunicazione in funzione progressiva e democratizzante, quella funzione che, invece, autori di formazione marxista, come Brecht o Benjamin, ritengono possano avere.

Per questi ultimi - sulla base della teoria classica marxiana secondo la quale lo sviluppo delle forze di produzione sarebbe caduto sempre più in contraddizione con i rapporti di produzione ed avrebbe condotto, attraverso la crisi del capitalismo, alla rivoluzione socialista - i nuovi mezzi di comunicazione (radio, film, giornali), dovevano “fungere proprio in questo senso come strumenti del progresso tecnologico e perciò come veicoli di illuminismo sociale; essi potevano essere utilizzati contro i rapporti di produzione capitalistici ed essere impiegati come strumento di mobilitazione politica” (Kellner, p. 486).

Se Brecht appare più interessato alla radio - di cui auspica la trasformazione “da mezzo di distribuzione in mezzo di comunicazione”, in strumento cioè capace “non solo di far sentire qualcosa all’ascoltatore ma anche di farlo parlare, non di isolarlo ma di metterlo in relazione con altri” (Scritti sulla letteratura e sull’arte, Torino, Einaudi, 1973, p.45) – Benjamin dedica invece, in un suo famoso saggio apparso nel 1936 sulla ZfS, numerose osservazioni al cinema ed al film, visto come espressione più significativa dell’Opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica.

Lo sviluppo delle tecniche di riproduzione meccanica, su cui si basa il cinema, ha modificato decisamente l’esperienza estetica, distruggendo quella componente dell’arte tradizionale che Benjamin sintetizza nel concetto di aura.

94 “Qui si trova espresso per la prima volta un pensiero fondamentale di Anders: che il medium

tecnico superi ciò che è conforme (das Gemäße) all’uomo e perciò tendenzialmente lo distrugga” (Liessmann., 2002, p.82).

Riflessioni simili svolgerà in seguito Adorno nel suo studio sull’ “Utilizzo musicale della radio” nel quale considera lo “shock dell’ubiquità” responsabile del fatto che “l’esperienza musicale ha perso il suo carattere enfatico” (citato in Liessmann 2002, p. 82).

Con il cinema è nata perciò, secondo lui, un’arte di tipo interamente diverso: se essa si basa su nuove possibilità tecniche che non possono venir raccolte interamente dal capitalismo (egli è infatti ben consapevole dei rischi di manipolazione insiti in esse) ritiene tuttavia che per mezzo di queste sia nata “un’arte di massa che per intima vocazione è politica, in quanto rende possibile una partecipazione attiva e critica della massa al fatto culturale” (Vacatello, p. 153) : “Al cinema l’atteggiamento critico e quello del piacere del pubblico coincidono” (Opera d’arte, Torino, 1966, p. 39) ed anche nella distrazione opera il giudizio (vedi ibid, pp. 45-46).

A Benjamin non interessa la questione dei contenuti dell’arte cinematografica, quanto piuttosto un’analisi dei suoi presupposti tecnico-formali, cioè il significato del cinema in quanto linguaggio nuovo, in quanto forma che promuove una “critica rivoluzionaria della nozione tradizionale di arte” (ibid, p.35).

Attraverso la nuova sensibilità estetica raggiunta dalla massa tramite le nuove tecniche egli pensava di poter contrastare quella che chiamava “estetizzazione della politica” (ibid, p.48) da parte dei regimi fascista e nazista, che avevano asservito l’arte di massa ai fini del mantenimento del consenso.

E’ proprio sulla base della personale esperienza della manipolazione del consenso, vissuta dapprima chiaramente sotto il regime nazista e poi in forma nascosta negli USA, che Adorno ed Horkheimer invece, pur d’accordo con Benjamin sulla funzione politica dell’arte (“quella di rappresentare un’anticipazione della società «diversa» negata dalla situazione attuale”, Jay, p. 324), ritenevano però che questa non potesse essere assolta dall’arte di massa, che serviva piuttosto a riconciliare il pubblico con lo status quo.

Essi perciò sviluppano quella teoria dell’Industria culturale - che rappresenta un momento fondamentale dell’analisi della modernità svolta nella Dialettica dell’Illuminismo - nel saggio, al quale lavorò soprattutto Adorno, ad essa dedicato: “La razionalizzazione dell’ozio (tempo libero) e della cultura procedeva insieme con la razionalizzazione del lavoro e del posto di lavoro e costituiva un passo ulteriore in quel processo, attraverso il quale il dominio della natura si convertiva in quello dell’uomo” (Kellner, p. 485)95.

95Le riflessioni in essa svolte si appoggiano in realtà ad una serie di precedenti lavori degli anni

30/40 (vedi Kellner, p. 484).

In particolare tra questi il saggio del 1938 Il carattere di feticcio in musica e la regressione

Come riferisce Adorno in Parva aesthetica, l’espressione ‘industria culturale’ fu utilizzata negli abbozzi preparatori di Dialettica dell’Illuminismo al posto di quella di ‘cultura di massa’ “per eliminare subito l’interpretazione che fa comodo ai suoi difensori: che si tratti di qualcosa come una cultura che scaturisce spontaneamente dalle masse stesse” (p. 58): in realtà “le masse non sono il criterio a cui si ispira l’industria culturale, bensì, (...) la sua ideologia” (ibid, p. 59)96.

Essa infatti “è sorta dalla tendenza all’utilizzazione che è propria del capitale. Si è sviluppata sotto la legge del mercato, l’obbligo di adattarsi ai suoi consumatori, ma poi si è rovesciata nell’istanza che fissa e consolida la coscienza nelle sue forme esistenti, nello status quo spirituale” (Adorno, Scritti sociologici, p.12), i cui ordini essa consolida: l’imperativo categorico dell’industria culturale “suona: devi adattarti (…) a ciò che immediatamente è, ed a ciò che, senza riflessione tua, come riflesso della potenza e onnipresenza dell’esistente, costituisce la mentalità comune. Tramite l’ideologia dell’industria culturale, l’adattamento prende il posto della coscienza” (Adorno, Parva aesthetica, p.65).

I prodotti culturali, ormai divenuti “merci da cima a fondo” (ibid, p. 60) assumono “fondamentale importanza per la costruzione della realtà sociale e la trasmissione del senso (Sinnvermittlung) così come per la formazione della coscienza dell’uomo” (AA.VV., Kritische Teorie heute, p. 134).

L’idea principale della teoria dell’industria culturale si basa sull’ipotesi “che, attraverso i mass media, controllati in modo centralistico, sia cresciuto, per il potere amministrativo, lo strumento di manipolazione della coscienza illimitatamente efficace” (Honnet, p. 137) a un punto tale “da consentire a malapena l’esistenza di uno spazio libero che permetta di rendersi conto di quella preformazione” (Adorno, Scritti sociologici, p.197).

capitalistici specifici il processo di produzione e riproduzione tecnica dell’opera d’arte da questi analizzato e “sottopone ad un esame approfondito quel rapporto tra cultura di massa e capitale che nell’economia generale del saggio di Benjamin svolgeva una funzione tutto sommato secondaria” (Vacatello, p.158); ed il saggio del 1941, Arte nuova e cultura di massa, in cui Horkheimer scrive che “con la progressiva dissoluzione della famiglia, con la trasformazione della vita privata in tempo libero e del tempo libero in attività insulse, completamente controllate, nei piaceri dello stadio e del cinema, del best-seller e della radio, scompare anche l’interiorità” (Teoria Critica, II, 310) ed alla radio ed al cinema è imputata la colpa di rafforzare le barriere che dividono gli esseri umani: “In questo la radio ed il cinema non sono da meno degli aeroplani e dei cannoni” (ibid, p. 312).

96 Adorno tendeva in questo modo - attribuendo la “stupidità generata dalla massificazione della

cultura non alle masse in sé ma al meccanismo industriale per il quale la cultura è diventata merce ed ai rapporti di potere che lo regolano” (Vacatello, p. 159) - a differenziarsi rispetto a quegli esponenti tipici della Kulturkritik, come Huxley e Duhamel, citati da Benjamin come esempio di pessimismo rispetto alle potenzialità della cultura di massa.

Il suo effetto globale perciò è quello “di un antilluminismo; in essa l’illuminismo (…) diventa inganno delle masse, mezzo per assoggettare le coscienze, impedimento all’affermazione di individui autonomi, indipendenti, capaci di giudicare e di decidere consapevolmente” (Adorno, Parva aesthetica, p. 68).

Le analisi che Adorno svolge nel saggio dedicato all’Industria culturale in Dialettica dell’Illuminismo costituiscono una base di riflessione sulla quale Anders converge ampiamente e di cui condivide non solo punti specifici (come ad esempio il divertimento, la pubblicità, il tempo libero), ma soprattutto il motivo di fondo e cioè il fatto che i moderni mass-media non sono strumenti neutrali, qualificati ideologicamente di volta in volta solo attraverso i loro mutevoli contenuti, ma (come dice efficacemente Moravia, anche se riferendosi al solo Adorno), “ben lungi dall’essere veicoli imparziali, i mass-media non solo trasmettono, ma sono ideologia e ciò indipendentemente dai particolari contenuti trasmessi” (Moravia, p. 35): proprio accentuando questo aspetto, “Nessun mezzo è soltanto un mezzo” (AM1, 123), Anders aprirà, come vedremo, il suo saggio sulla televisione97.

Da ciò la necessità, per coloro che intendono criticare l’assetto sociale esistente, di “aggredire non solo i messaggi ma anche i veicoli, non solo i contenuti ma anche le forme, non solo (saussurrianamente) i significati ma anche i significanti” (Moravia, p. 35).

Questo spiega l’attacco portato dagli autori francofortesi a quei mezzi di comunicazione (il cinema, la radio, ed infine la televisione), che rappresentano, nella loro interpretazione, fasi di una sempre maggiore radicalizzazione di potenzialità autoritarie e manipolatorie, sfruttabili non solo in società chiaramente non libere (come il nazismo di cui avevano fatto diretta esperienza), ma anche in quelle apparentemente democratiche (come gli USA, che li avevano ospitati in esilio).

Dunque sotto accusa finisce il cinema, al quale si rimprovera di provocare il blocco delle facoltà critico-riflessive dello spettatore, che è portato, attraverso le rivoluzionarie tecniche di riproduzione (invece apprezzate da Benjamin), ad

97 In questo consiste l’elemento di vicinanza alle, più famose, tesi di Mc Luhan: in Ketzereien,

Anders noterà, senza nominarlo espressamente, come le sue riflessioni sulla televisione del saggio di AM1 sarebbero “diventate famose in tutto il mondo nella felice formulazione di un altro: ‘the medium is the message’ (p. 218). Lo stesso si potrebbe dire per Postmann, il cui libro del 1985,

Divertirsi da morire, si muove sulla base di riflessioni che si appoggiano esplicitamente a Mc

identificare il film con la realtà: “La vita – almeno tendenzialmente– non deve più potersi distinguere dal film sonoro” (Dialettica dell’illuminismo, p. 133).

Anche la radio, “frutto tardivo e più avanzato della cultura di massa” (ibid, p. 171), è criticata in quanto strumento immune “dal pericolo di deviazioni liberali come quelle che gli industriali del cinema possono ancora permettersi nel loro campo” (ivi)98 e come tale organo proprio del nazismo, come la stampa lo era stata

della Riforma99, ma capace di esercitare effetti totalitari anche in società

apparentemente democratiche: “Da ultimo può benissimo accadere che il diktat della produzione, ancora mascherato da una illusoria parvenza di libertà e di possibilità di scelta, trapassi nel comando aperto e dichiarato del capo” (ibid, p. 172).

Ma anche la televisione, pur a quel tempo solo agli esordi (le prime trasmissioni iniziano negli USA negli anni….), cade sotto la critica di Adorno, che anzi vede in essa preannunciarsi lo strumento principale dell’industria culturale: “La televisione tende ad una sintesi di radio e cinema, che viene ritardata finchè le parti interessate non si saranno messe completamente d’accordo, ma le cui possibilità illimitate possono essere potenziate a tal punto dall’impoverimento progressivo dei materiali estetici che l’identità oggi appena larvata di tutti i prodotti dell’industria culturale potrebbe trionfare apertamente quanto prima, realizzando in chiave sarcastica il sogno wagneriano dell’«opera d’arte totale»” (ibid, p. 130).

Adorno prognostica una situazione nella quale la televisione avrebbe rappresentato in tale misura “l’apoteosi della commercializzazione della cultura” (Kellner, p. 489) che rispetto a questa il film doveva sembrare una espressione culturale priva di messaggi commerciali: “La televisione prefigura una evoluzione che potrebbe mettere facilmente i fratelli Warner nella posizione a loro certo poco gradita di promotori di spettacoli riservati ad un pubblico ristretto e di paladini e difensori della cultura tradizionale” (DI, 174).

Qualche anno dopo la pubblicazione della Dialettica dell’Illuminismo (nel 1954, quindi poco prima dell’uscita di AM1 di Anders) Adorno dedicherà alla televisione uno studio specifico “Televisione e modelli di cultura di massa” nel quale, utilizzando categorie delle Teoria Critica e della psicanalisi, si propone di

98 Anche rispetto al telefono la radio appare “autoritaria”, vedi Dialettica dell’illuminismo, p. 128 99 “la radio diventa la bocca universale del Führer (…) Anche i nazisti sapevano perfettamente che

la radio dava forma e rilievo alla loro causa, come la stampa lo aveva dato alla Riforma” (ibid, p. 172).

studiare “il potenziale effetto della televisione – la sua efficacia sui diversi aspetti della personalità dello spettatore (…) la natura dell’odierna televisione e del suo linguaggio” (in AA.VV., Comunicazione e cultura di massa, p. 379).

Al centro della sua analisi egli pone la standardizzazione e la ripetizione di stereotipi e convenzioni televisive (“occhiali fumè”, ibid. p. 390), che hanno effetti dannosi per la coscienza individuale100.