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Il Paese della Cuccagna del produttore

2. L’uomo è antiquato

2.4. Il Paese della Cuccagna del produttore

Ideale dell’industria in generale è quello “d’imitare il metodo che applica l’industria di consumo: cioè di rendere il più piccolo possibile l’intervallo che si estende tra la produzione e la liquidazione del prodotto” (AM2, 43), di restringere dunque il tempo del suo uso (durante il quale rimane di proprietà di un consumatore). O anche, riecheggiando la terminologia heideggeriana, il suo ideale è “la durata che non vuole assolutamente assumere lo stato di durata” (AM2, 39). Anders descrive questa condizione ideale utilizzando la fiabesca immagine del Paese di Cuccagna , un mondo cioè “nel quale non esistesse più assolutamente l’usare, ma solo il più spietato consumare (…) un mondo nel quale l’industria, nel suo complesso, si fosse trasformata in un’unica industria comprendente tutti i prodotti di consumo”(AM2, 37).

Per questo motivo egli chiama «ontologia negativa» l’ontologia dell’era industriale (“L’elemento della distruzione è immanente alla produzione stessa” AM2, 37): essa costituisce un nuovo stadio, nel quale “la fluidificazione dell’oggetto sarà tanto caratteristica quanto la reificazione del non-oggettuale” (AM2, 48).

Anders fa qui espressamente riferimento al concetto, diventato ormai quasi banale, della cosiddetta “obsolescenza guidata, cioè del principio di produrre prodotti in maniera tale che non durino come oggetti” (AM2, 235).

Nonostante la pubblicità faccia appello alla durata e solidità del prodotto, questo in realtà mira a conformarsi a questo ideale dell’obsolescenza, “vale a dire ad avere vita più breve possibile. Ma dove non esiste più ciò che risale ad ieri, ciò che dura o deve durare, la storia è cancellata” (AM2, 261).

Anche gli oggetti dunque, come l’umanità che li consuma (come vedremo in seguito), sono astorici: essi non risalgono al passato, né sono progettati per il futuro, ma vivono soltanto nel presente” (AM2, 261).

Attraverso la fluidificazione dell’oggetto, la sua liquidazione, si distrugge il concetto stesso di proprietà, la cui stabilità è sostituita con “l’alternarsi di avere e non-avere” (AM2, 42)87.

Excursus: Vita activa di Arendt

Analoghe riflessioni (simili a quelle di Heidegger, soprattutto a proposito del rapporto tra Bestand ed oggetto, sulle quali più estesamente in seguito) svolgeva in quegli anni la Arendt, in Vita activa: “La rivoluzione industriale ha sostituito ogni specifica competenza artigianale con il lavoro, e ne è conseguito che le cose del mondo moderno sono diventate prodotti di lavoro il cui naturale destino è di essere consumate, invece che prodotti dell’operare, che esistono per essere usati” (Vita activa, p. 89).

L’operare – che la Arendt considera l’attività dell’ homo faber, attraverso cui si creano oggetti duraturi, opere (Werk) che devono essere usate e non consumate – si trasforma, per effetto della introduzione della divisione del lavoro e della processualità del lavoro delle macchine, in lavoro (Arbeit), nell’attività cioè

87 Questo dissolvimento della durata caratterizza l’ontologia nichilista della tecnica “che vive della

negazione del mondo da lei prodotto, perché la sua permanenza significherebbe la sua fine” (Galimberti, 1999, p. 612).

propria dei processi vitali, attraverso la quale l’uomo, come animal laborans, consuma il mondo88.

La grande abbondanza trasforma gli oggetti d’uso prodotti da queste tecniche lavorative in beni di consumo: “L’interminabilità del processo lavorativo è garantita dalle sempre ricorrenti esigenze di consumo; l’interminabilità della produzione può essere assicurata solo se i prodotti perdono il loro carattere d’uso per acquistare sempre più quello di oggetti di consumo, o se, in altri termini, la velocità d’uso è così intensamente accelerata che la differenza oggettiva tra uso e consumo, tra la relativa durabilità degli oggetti d’uso e il rapido andirivieni dei beni di consumo, diminuisce fino ad essere insignificante” (ibid, p. 90).

L’uomo non può permettersi di rispettare le cose del mondo, conservando la loro naturale durevolezza: deve piuttosto consumarle, divorarle, come se fossero oggetti della natura. Si produce in questo modo “una contaminazione tra mondo dell’uomo (artificiale) e mondo della natura: prodotti e processi tipici dell’uomo vengono trattati secondo la ciclicità, il ripetersi incessante, che caratterizza le cose della natura, e non invece secondo la stabilità (anche se sempre in questione) che li caratterizza in quanto propri dell’uomo” (Nacci, 87).

“Gli ideali dell’homo faber, il costruttore del mondo, che sono permanenza, stabilità e durevolezza, sono stati sacrificati all’abbondanza, l’ideale dell’animal laborans” (Vita activa, p. 90)89.

“Il mondo, la casa dell’uomo, costruita sulla terra e fatta dai materiali che la natura affida alle mani dell’uomo, non consiste di oggetti da consumare ma di oggetti da usare. Se la natura ed in generale la terra costituiscono la condizione della vita umana, allora il mondo e le cose del mondo costituiscono la condizione in cui questa vita specificamente umana può avere la propria dimora sulla terra” (ibid, pp. 95-96): quest’ultima però “si manterrà stabile e sopravviverà all’incessante e sempre mutevole movimento delle loro vite e azioni, solo in quanto trascende sia la mera funzionalità delle cose prodotte per il consumo sia la mera utilità degli oggetti prodotti per l’uso. La vita nel suo senso non-biologico,

88 “Il pericolo della futura automazione non è tanto la deplorata meccanizzazione e

artificializzazione della vita naturale, quanto il fatto che, nonostante la sua artificialità, ogni produttività umana sarebbe risucchiata in un processo vitale enormemente intensificato, e seguirebbe automaticamente, senza pena o sforzo, il suo sempre ricorrente ciclo naturale. Il ritmo delle macchine intensificherebbe a dismisura il ritmo naturale della vita, ma non modificherebbe, rendendola solo più micidiale, la funzione principale della vita rispetto al mondo, che consiste nel consumare ciò che è durevole” (Vita activa, p. 93).

89 “Ma là dove le cose perdono la loro consistenza il mondo diventa evanescente e con il mondo la

l’arco di tempo che ogni uomo percorre fra la nascita e la morte, si manifesta nell’azione e nel discorso, i quali condividono con la vita la sua essenziale futilità” (ibid, p. 125).

Il pericolo che la moderna società, composta “di consumatori o di lavoratori”, rischia di correre, secondo la Arendt, è quello di non riconoscere, “abbagliata dall’abbondanza della sua crescente fecondità e assorbita nel pieno funzionamento di un processo interminabile”, proprio questa “futilità – la futilità di una vita che ‘non si fissa o si realizza in qualche oggetto permanente che duri anche dopo che la fatica necessaria a produrlo sia passata’ “ (ibid, p. 96).