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Ciò che in realtà Heidegger nasconde attraverso questa apparente lotta dell’esserci per la sua autenticità, attraverso l’uso del singolare Esserci, (“Un singolare che è sospetto”, NE, 201)60, “è qualcos’altro: è l’antagonismo tra gruppi, l’esistenza

della lotta e la lotta per l’esistenza tra gruppi”(ivi), che gli impedisce di comprendere come la vera inautentica esistenza sia quella del proletario descritto da Marx nei Manoscritti economico-filosofici e nella Ideologia tedesca, “«inautentico» perché, come tempo di lavoro incarnato, egli è proprietà di un altro esserci” (NE, 207).

Perciò, come Anders afferma nella sua introduzione a Uomo senza mondo (raccolta di scritti di critica letteraria apparsa nel 1984), il concetto di Dasein, “l’affermazione – intesa da Heidegger come antropologica, ovvero come universalmente valida – secondo cui ‘l’esserci’ (l’essere specifico dell’uomo) significa eo ipso ‘essere nel mondo’ “, definisce in realtà una condizione di classe, cioè “si riferisce esclusivamente all’uomo appartenente alla classe dominante: infatti questi solo riesce ad identificarsi con ciò che lo circonda, tanto da riconoscerlo come proprio mondo (‘mondo come esistenziale’)”(UsM, 30-3). Hegel con la sua celebre esposizione del rapporto ‘padrone-servo’ nella Fenomenologia dello Spirito appare perciò ad Anders “incomparabilmente più concreto (...) più attuale (...) ma anche più articolato”(NE, 202) di Heidegger: “ ‘L’essere del servo’ non è ‘un essere nel mondo’, poiché egli non vive nel suo mondo, ma nel e per il mondo dei ‘padroni’. La domanda «a chi appartenga il

mondo» (...) non è mai stata posta da Heidegger” (UsM, 31)61.

Nella conferenza su Rodin intitolata ‘Scultura senza casa’ (Homeless Sculture) Anders definisce gli anni dell’inizio del secolo come “un mondo che aveva reso tutto, l’uomo, il tempo dell’uomo e le relazioni tra uomo e uomo, elemento di scambio in un sistema di beni. Possibilità di scambio significa: ormai nessuna cosa più è uguale a se stessa, ma viene determinata e definita dalle relazioni tra i beni, dal mercato. Diviene, come dicono i sociologi, «alienata»” (Saggi, 7-8). Come le sculture di Rodin, gli uomini moderni sembrano diventati ‘senza casa’ (homeless), estromessi da ogni rapporto mondano ed umano, isolati ed atomizzati: l’estraneità al mondo (Weltfremdheit) propria dell’uomo, che nei primi scritti

60 “Guardati dall’uso del singolare fatto dai filosofi”, lo ammonì Olo. “Può mascherare molte

cose” (CM, 223).

61 Secondo Sonolet però Anders, omettendo “la seconda parte dell’analisi dialettica hegeliana che

riguarda la formazione della coscienza del servo attraverso il suo rapporto con il padrone”, descrive in modo statico “i rapporti dell’uomo senza mondo con i rappresentanti della classe dominante” (p. 49).

aveva carattere ontologico, viene riletta ora, sulla base di una considerazione che utilizza categorie storiche, come ‘mancanza di mondo’ (Weltlosigkeit).

Proprio questo Anders definisce, sempre nell’introduzione a Uomo senza mondo, il suo “originario tema principale”, prima della ‘svolta’ rappresentata dall’olocausto nucleare: “ ‘l’uomo senza mondo’ (Mensch ohne Welt). Cosa intendo con questa formula? Diverse cose” (UsM, 29).

In primo luogo appunto i proletari, che sono ‘senza mondo’ (weltlos), perché non solo non possono considerare come propri i mezzi di produzione od i prodotti che contribuiscono a creare, ma “sono costretti a vivere all’interno di un mondo che non è il loro; un mondo che, sebbene venga prodotto e tenuto in funzione dal loro lavoro quotidiano, «non è costruito per loro» (Morgenstern)62, non è qui per loro;

all’interno di un mondo per il quale sono presenti e in funzione del quale sono certo pensati ed utilizzati, ma i cui modelli, scopi, linguaggio e gusto non sono comunque loro, né sono loro concessi” (UsM, 29).

Laddove infatti si abbandoni il riferimento all’uomo (singolare), “che può certo essere libero per molti mondi, per una infinità di stili e di comportamenti” e ci si rivolga alla pluralità degli uomini che compongono la società, si potrà constatare, secondo Anders, che “la maggioranza degli uomini è libera solo al congiuntivo: essi potrebbero, ma non possono. E questo perché gli altri, cioè coloro che dominano, realmente possono, all’indicativo” (TuG, 207); non è dunque possibile contrabbandare “il congiuntivo ontico della libertà per un indicativo ontologico” (HE, 40).

Il mondo della maggioranza degli uomini, il mondo dei dominati, è perciò, secondo Anders, ‘falso’: “Falso è quel mondo che consiste esclusivamente di oggetti, che appartengono al mondo degli altri; quel mondo che è mio in senso esclusivamente psicologico, ma non lo è invece nel senso di essere a disposizione” (TuG, 209)63.

Tener ferma la distinzione tra mondo ‘vero’ e mondo ‘falso’ rende possibile capire qual è “il compito morale di oggi: il compito di rendere possibile un vero mondo; o, che è lo stesso, criticare e combattere quelle forze, che rendono gli uomini sistematicamente privi di mondo ed inumani” (TuG, 212).

62 Anders fa qui riferimento al poeta tedesco Christian Morgenstern (1871-1914).

63 Perciò il dominato “non prende parte allo schema datore di senso, al mondo, che l’altro ha

Ampliando la tesi marxiana per mirare “a qualcosa di ontologico, e precisamente di ontologico-negativo” (UsM, 30), non utilizzando più dunque come unico criterio di definizione tra ‘padroni’ e ‘servi’ quello dei rapporti di produzione, Anders finisce così con l’ampliare questa categoria a tutti coloro la cui vita può essere definita, come per i personaggi di Kafka, un ‘rimanere fuori’ (Außerhalb- Bleiben), un ‘non essere stato ammesso a questo mondo’ (Zur-Welt-Nicht- zugelassen-worden-Sein) (UsM, 31): coloro che vivono ai margini della società, dunque non solo i proletari, ma anche i disoccupati, gli esiliati, i bohémiens, i criminali.

Tra questi i disoccupati, sono “senza mondo in un senso ancor più pronunciato, no, potenziato”, perché essi “perdendo il lavoro perdevano persino quel mondo che non era neppure stato il ‘loro’, ma che rappresentava comunque qualcosa” (UsM, 32): ad essi è dedicata la canzone (scritta nel 1932, in dialetto berlinese) che apre il testo del 198464.

Questa figura dell’uomo senza mondo Anders trova espressa in modo esemplare nel romanzo di Döblin, Berlin Alexanderplatz, il “romanzo negativo” (UsM, 62) della “ ‘cattiva infinità’ del mondo” (UsM, 90), che condanna alla solitudine ed alla passività l’uomo espropriato della propria vita e soggettività, privato non solo di qualsiasi tradizione o dell’appartenenza ad una classe, ma persino della “consuetudine a una propria vita” (UsM, 70): “Dietro a Biberkopf non c’è niente: nessuna etica, né borghese né proletaria, né cittadina né rurale; nessuna natura, nessuna religione, nessuna indifferenza, nessun ambiente, nessuna famiglia. Egli è inumano perché solo: in un senso barbaro, è solo uomo” (UsM, 63)65.

Ciò che è rappresentato nell’opera di Döblin “non è più la vita di un individuo, ma il «semplice accadere» anonimo di un processo che non conosce più il soggetto. (...) nel quale non sussiste tra gli eventi e le cose altro legame che quello della loro simultaneità” (Portinaro, 2003, p.19): “il fatto della simultaneità, dell’adiacenza di tutte le cose, è il panico metafisico di Döblin” (UsM, 80).

L’uomo è perciò condannato alla passività, al ‘venire vissuto’, “la più terribile scoperta della vita odierna” (UsM, 73): essa diventa tema non solo della

64 In un testo scritto durante la prima settimana di emigrazione, nel 1933, Anders definisce la

disoccupazione come quello “stato nel quale non si è niente, non si appartiene ad alcun posto, non si è più una cosa utilizzabile [e che] non è la morte”. Il disoccupato dispone soltanto della sua esistenza fisica e di una rabbia ‘priva di oggetto’, “perché gli è impossibile, nell’immensità del mondo d’oggi, distinguere chi lo ha messo dentro questa situazione” (versione in francese, in AA.VV., G. Anders. Agir pour repousser la fin de monde, p.400).

letteratura moderna (Anders pensa a Döblin e Joyce, qui citati esplicitamente, ma anche a Kleist, di cui si occuperà in altra occasione, e si potrebbe aggiungere anche Broch, a cui dedica un saggio anch’esso contenuto nella raccolta Uomo senza mondo), ma anche di diverse costellazioni di pensiero: la psicanalisi, il marxismo, lo storicismo ed anche Heidegger (con la sua ‘deiezione’ nel si impersonale ).

Anders pensa certo anche a Kafka, le cui figure “rappresentano uomini astratti (...) strappati dalla pienezza dell’esistenza umana”, “uomini che vivono solo per la professione” (Kafka, 59): “Se l’uomo non è nient’altro che la sua ‘professione’, la sua esistenza si esaurisce nel ruolo per cui egli è pensato, allora lui stesso non è nulla, non è reale, ma in certo qual modo soltanto il duplicato del documento in corso a suo nome” (Kafka, 61).

All’espressione ‘uomo-senza-mondo’ Anders dà un ulteriore e più attuale significato: con essa egli intende infatti descrivere la situazione, apparentemente paradossale, dell’uomo di oggi, “l’uomo nell’epoca del pluralismo culturale” (UsM, 34).

Egli distingue due tipologie di pluralismo: quello ‘semplice’ e quello ‘interiorizzato’.

Con il primo definisce l’atteggiamento (storicamente ormai da lungo tempo sorpassato) dell’uomo ‘tollerante’, dell’uomo cioè che, pur leale nei confronti della propria fede o della propria convinzione (cioè della propria ‘divinità’), accetta tuttavia che altri possano averne diverse dalla sua: “ne consegue allora che sarà proprio della natura del pluralismo tollerare qualcosa che viene ritenuto falso; che la verità del pluralismo consisterà alla fine nel non avere più interesse per ‘la’ verità o, meglio, nel non prendere più sul serio la pretesa di verità della posizione tollerata (e da ultimo anche quella della propria posizione)” (UsM, 34- 35)66.

Con il secondo (pluralismo) Anders definisce invece, più propriamente, l’atteggiamento dell’uomo attuale, dell’uomo cioè che ha ormai interiorizzato il primo pluralismo e per il quale dunque questa condizione “sembra già essere naturale” (UsM, 35): questo uomo “essendo contemporaneamente partecipe di molti, troppi mondi, non ha un mondo determinato e perciò non ha nessun mondo” (UsM, 34).

66 In seguito a questo “ogni errore ed ogni fede hanno lo stesso diritto a considerarsi vere, no: a

In questo stato - una condizione che Anders definisce ‘alessandrina’67o

“acosmismo” (UsM, 35) - “non solo si tollerano le divinità altrui, ma le si riconoscono alla stregua delle proprie, in modo più o meno vincolante, e addirittura le si venerano; questo si può o si deve o si vuole o addirittura, per ragioni commerciali, si è costretti a fare” (UsM, 35-36)68.

Questo pluralismo – che si realizza “come un questo-e-quest’altro, come mera simultaneità o giustapposizione di contenuti, concezioni e sentimenti del mondo che, sebbene siano fra loro estranei o addirittura in contraddizione, stranamente non sembrano disturbarsi a vicenda” (UsM, 36): “la parola chiave, quasi sacra,

della nostra epoca è la ‘e’ “(UsM, 36-37)69 - si compie in primo luogo come

consumo culturale: “cultura è l’area di tutto ciò che è diventato privo di validità o di ciò che già lo era” (UsM, 39).

La cultura e l’arte perdono infatti in questo mondo, secondo Anders, quella legittimità che possono avere e mantenere soltanto finchè ad esse sia assegnato un valore non solo estetico, ma soprattutto morale e politico.

Questa indifferenza culturale, in cui sfocia “l’uguaglianza di validità” (UsM, 58, nota 6), questa onnivoria o onnivorismo, “in cui tutte le merci-divinità e divinità- merci in concorrenza fra loro, si offrono a pari diritto” (UsM, 37) – in cui consiste propriamente la verità del pluralismo odierno, il passaggio da quello semplice a quello interiorizzato – non è dunque per Anders “un puro passo della storia dello spirito (…) non si tratta di un fatto spirituale, ma innanzitutto di un fatto commerciale. Siamo tolleranti o indifferenti ecc., perché ogni oggetto, qualunque cosa (qualunque divinità) esso rappresenti, pretende, nella sua qualità di merce, di godere di pari diritti e quindi di avere un valore indifferente (…) La tolleranza attuale non deriva solo dalla storia religiosa o dalla politica ecclesiastica, ma anche dal mondo del commercio. Tutte le religioni, le concezioni del mondo, tutti gli stili artistici, i fenomeni e i ‘valori culturali’ hanno lo stesso diritto alla tolleranza, perché hanno lo stesso diritto di comparire come merci” (UsM, 42).

67 “Con allusione all’ellenismo tardivo, come lo ha caratterizzato Nietzsche nella Nascita della

tragedia” (Sonolet, p. 50).

68 “E’ una condizione del tutto fuorviante quella in cui si deve partecipare a tutto, si deve

rispettare tutto allo stesso modo, ma senza dovervi credere. E’ una situazione assurda.

Alessandrinismo escluso, non si è mai verificata. Secondo me ha origine dalla commercializzazione del mondo” (Uomini , 14).

69 Un’analisi simile e allusiva al concetto andersiano di ‚familiarizzazione’ (vedi cap.2.8 ) svolge, a

proposito dei mass-media, Peter Sloterdijk in Critica della ragione cinica (Garzanti, Milano, 1992): i media „possiedono un solo elemento intelligibile: la congiunzione «E». Grazie a questa «E» è possibile accostare, fare di ogni cosa la «vicina» dell’altra“ (pp. 267-268).

Nella democrazia capitalistica assistiamo così ad un fenomeno che, come vedremo nell’interpretazione datane da Anders, sarà tipico del mondo moderno: il passaggio alle cose, ai prodotti, di diritti nati originariamente per l’uomo: “Il fondamento della democrazia nel capitalismo non è la parità di tutti i cittadini, bensì quella di tutti i prodotti” (UsM, 44).

La critica della società pluralista, dell’uomo-senza-mondo di oggi, non comporta però per Anders, come si potrebbe pensare di conseguenza, la proposta di “abbandonare il pluralismo e di abbracciare d’un colpo un credo religioso o un certo credo – vale a dire posizioni di possibile intolleranza” (Uomini, 14).

Seppur incapace di opporre una condizione alternativa a quella finora descritta Anders rivendica tuttavia la legittimità della sua critica: “Ma il fatto che non ho una soluzione non mi dispensa né dalla facoltà né dal dovere di criticare ciò che è diventata o ciò che si presume sia la civiltà, in cui tutto è indifferente e ha quindi la stessa validità” (Uomini,15)70.

In “questi pensieri sulla relazione fra tolleranza, ‘cultura’, pluralismo, diritto di essere merce e essere-senza-mondo” (UsM, 44), che hanno accompagnato l’intera vita di Anders, e nei quali si possono riconoscere certamente echi delle riflessioni marxiane e simmeliane, si realizza anche uno dei momenti di maggiore vicinanza alle riflessioni della Scuola di Francoforte, in particolare di Adorno.

1.7. Dalla libertà antropologica alla schiavitù nel mondo della tecnica: la