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La vergogna prometeica

2. L’uomo è antiquato

3.4. La vergogna prometeica

La vergogna prometeica - la cui esperienza significò per Anders (come visto precedentemente) prendere piena consapevolezza che il vero ambiente che circonda l’uomo non è il mondo animale, ma piuttosto il mondo dei prodotti - è la reazione emotiva che l’uomo prova, di fronte ad essi, per la propria inadeguatezza ed inferiorità, il segno visibile del dislivello prometeico: l’uomo davanti alla perfezione delle macchine da lui stesso progettate e costruite, ha vergogna di se

stesso, della propria origine contingente, “si vergogna di essere divenuto invece di essere stato fatto” (AM1, 58)134.

Per questo l’uomo odierno desidera diventare un selfmade man: “Non già perché non sopporta più nulla che egli stesso non abbia fatto, vuole fare se stesso; ma perché non vuole essere qualcosa di non-fatto. Non perché provi indignazione per essere fatto da altri (Dio, dei, natura), ma perché non è fatto per nulla e, nella sua qualità di non-fatto, è inferiore a tutti i suoi prodotti fabbricati” (AM1, 59)135.

Ogni vergogna è un turbamento dell’identificazione: nel caso della vergogna prometeica però l’es con cui l’uomo in questo caso non può identificarsi, non è il preindividuale, la «dotazione ontica» (il corpo, il sesso, la famiglia), ma piuttosto l’insieme dei prodotti del mondo tecnico: “qui è la macchina che si presenta in veste di «es», l’attività meccanica, a cui l’uomo partecipa con funzione di parte di macchina; ed egli si investe a tal punto in questa funzione che, invece di trovarsi di fronte a se stesso in quanto io, trova se stesso nella funzione di macchina, dunque «quale» parte di macchina. Per distinguere questo «es» dal primo, chiamiamolo l’ «es-macchina»” (AM1, 108).

La vergogna prometeica nasce dunque non dal sentirsi macchina o pezzo di meccanismo in un mondo umano («l’io si vergogna dell’es») - quando cioè “l’uomo posto di fronte a se stesso, invece di trovare se stesso, trova qualche cosa che è già conforme al mondo delle macchine” (AM1, 114), “trova se stesso in veste di es”, scopre “sconcertato o terrorizzato di essere già divenuto un pezzo di meccanismo” (AM1, 115), come Chaplin aveva voluto rappresentare in Tempi moderni: questa possibilità è infatti già antiquata - ma dal sentirsi ancora troppo uomo in un mondo di macchine e prodotti, quando “«l’es si vergogna dell’io»” (AM1, 114), “trova se stesso in qualità di io” (AM1, 115), quando cioè “l’uomo si è già volontariamente integrato nella macchina (ovvero nel mondo della macchina, preso nel suo insieme); ma, poiché la completa conversione in

134 Seppur possa apparire strano che qui a svolgere la funzione di istanza (sotto gli occhi della

quale soltanto può un uomo vergognarsi) siano le cose inanimate e prive di occhi, Anders afferma che “nulla è più plausibile per chi è libero da teorie che essere guardato dalle cose (…) egli concepisce la visibilità come un rapporto assolutamente reciproco: tutto ciò che egli vede vede

anche lui”. Si tratta per Anders di “una concezione del mondo preteoretica” (AM1, 106),

suffragata inoltre da innumerevoli testimonianze empiriche (ad esempio l’inibizione a spogliarsi completamente nudi anche in totale solitudine). Egli riprenderà questo concetto in AM2, a proposito della merce: “non siamo noi ad osservare il mondo ma siamo invece osservati dalle

merci esposte e dai manifesti pubblicitari”(AM2, 289).

135 Come abbiamo visto, questo è l’epiteto spesso utilizzato da Anders per definire Heidegger, il

‘selfmade man acosmico’, accusato di costruire - con il suo rifiuto del natum esse (a cui oppone il concetto di ‘gettatezza’), con il concetto di ‘esistenza’ come un ‘fare’ se stessi, - una variante del fichtiano ‘l’io pone se stesso’.

macchina, la «fedeltà alla linea», la consustanzialità non gli riescono, ritrova nonostante tutto ancora se stesso invece di una parte di macchina” (AM1, 114). L’uomo ritrova infatti la sua individualità solo nel momento in cui avviene un intoppo nel lavoro, quando cioè non riesce ad adattarsi completamente alla macchina, quando diventa forza antagonistica della macchina, dunque un “inetto (...) la sua individualità risalta soltanto perché (...) è una negatio. Ancora più chiaramente: il turbamento dell’identità non è percepito perché ci si trova di fronte a se stessi; al contrario si è posti di fronte a se stessi perché c’è un turbamento” (AM1, 117).

L’io che in questo caso “torna in sé, soltanto allora si trova di fronte a se stesso” (AM1, 117), è però ora l’io “che si giudica con il criterio della macchina, si vede dal punto di vista di quella” (AM1, 118), si vede dunque non solo antiquato, arretrato, ma unito in un unico complesso al corpo: invece della frattura tra io e corpo, che “un tempo (quando l’io si vergognava del corpo) aveva avuto tanta importanza (…) c’è ora soltanto la frattura tra la macchina (e il conformista che la rappresenta), da una parte, e l’antica arretratezza, dall’altra; e di questa arretratezza fanno parte ora io e corpo uniti insieme” (AM1, 118).

E’ dunque nella realtà del moderno mondo produttivo che si può fare reale esperienza della vergogna prometeica (che nella descrizione iniziale aveva destato il sospetto potesse trattarsi di una semplice metafora), si può capire quanto sia andata avanti la reificazione dell’uomo: l’uomo infatti non considera vergognoso “essere ridotto a cosa, ma al contrario di non esserlo” (AM1, 63), non solo accetta questa riduzione, ma si adopera egli stesso per attuarla, si sforza cioè di adattarsi alle cose, così da divenire simile a loro136.

Cerca in sostanza di compensare questo sentimento di inferiorità non recuperando lo specifico umano (immaginazione, sentimento, fantasia, responsabilità), ma al contrario cercando di sopprimerlo attraverso una strategia di adattamento alla macchina ed ai prodotti: “è sempre la macchina, ciò che la macchina esige, che stabilisce che cosa deve diventare il corpo” (AM1, 71).

Questo processo di adattamento alla macchina (nel quale molti contemporanei vedono in realtà realizzarsi quel paradigma di libertà ed artificialità che lui stesso

136 Citando il brano di Kafka, Pro e contro - nel quale Anders parla di un mondo estraniato in cui

“la natura diviene ‘nature morte’ e perfino il prossimo diviene spesso mera ‘cosa’” (p. 24), in cui “l’uomo ci appare come ‘inumano’ non [è] perché egli possieda una natura ‘animalesca’, ma perché è retrocesso a funzioni di cosa” (p. 25), ed allude al famoso brano di Marx sul tavolo che balla - Kofler contesta ad Anders che questi abbia mai inteso rappresentare, attraverso questa immagine, “il divenir cosa dell’uomo” (p. 90).

aveva proclamato nella sua antropologia negativa) non deve essere rifiutato, secondo Anders, perché danneggerebbe un concetto metafisico dell’uomo od una sua inquietante naturalità: “Non è l’alterazione in quanto tale che ci sembra «inaudita». Non c’è posizione che mi sia più estranea di quella dell’«etico metafisico», che considera «buono», «status quo già prescritto», ciò che è, perché è così come è. (...) E’ gran tempo che per una «morale metafisica» la partita è perduta” (AM1, 77).

Non si tratta di proclamare un immodificabile modo di essere dell’uomo o prescrivere cosa possa significare essere uomo: si tratta del sospetto che proprio la tecnica si possa opporre alla sua indeterminatezza, alla sua apertura e libertà, sottoponendolo, non al dettato della natura, ma a quello della macchina: “No, l’alterazione del nostro corpo non è qualcosa di radicalmente nuovo e inaudito perché con essa rinunciamo al nostro «destino morfologico» o trascendiamo il limite di prestazioni che è previsto per noi, bensì perché ci autotrasformiamo per amore delle nostre macchine, perché prendiamo le macchine a modello delle nostre alterazioni, rinunciamo quindi ad assumerci noi stessi come unità di misura e con ciò limitiamo la nostra libertà o vi rinunciamo” (AM1, 78)137.

Anders definisce questo atteggiamento dell’uomo “«arrogante autodegradazione» e «umiltà fatta di ubris»” (AM1, 78), perché alle ‘offese’ che egli deve aspettarsi dalla natura (miseria, malattia, vecchiaia, morte) “egli ne aggiunge masochisticamente un’altra: quella prodotta dall’autoriduzione a cosa” (AM1, 79)138.

Oggetto di queste strategie di adattamento alla macchina è in primo luogo il corpo, causa principale di questo sentimento di inferiorità, in quanto difettoso al confronto del mondo delle cose: esso infatti (in quanto generato, prodotto della natura, nato da donna, creatura) ha non solo il difetto di essere ottuso, rigido, “troppo dichiaratamente determinato per poter partecipare ai cambiamenti del mondo dei suoi prodotti” (AM1, 67), ma, rispetto a questi (rinnovabili a piacere e pronti a cambiare, a trasformarsi), anche quello di essere di “«facile deteriorabilità»”, esemplare unico, insostituibile e mortale (ha il “«malaise dell’unicità»”, AM1, 81).

137 Per Pulcini “il problema riguarda..ciò che l’uomo perde, in termini di risorse simboliche e

psichiche” se aderisce passivamente alle richieste della macchina e cioè “la sua capacità di

orientarsi nel mondo e di interagire responsabilmente col vivente” (2004, p. 22).

138 “Anders critica l’adattamento dell’uomo ai bisogni della tecnica, proprio perché vuole restare

fedele all’affermazione di Protagora, secondo la quale l’uomo sarebbe la misura di tutte le cose” (Liesmann, 2002, p. 70).

Se dal punto di vista delle istituzioni sociali infatti l’uomo appare sostituibile (il ‘platonismo burocratico’ di cui Anders parlava in Kafka, 61), questo non è vero dal punto di vista del singolo individuo: “il mio proprio io resterà insostituito e insostituibile” (AM1, 85) e costituisce, per l’uomo di oggi, un difetto ed una macchia di cui si vergogna.

Per ovviare al primo difetto, per adattare perciò il corpo e le sue funzioni alle macchine, egli non solo lo sottopone a faticosi esercizi fisici e spirituali, ma cerca realmente di trasformarlo, di produrlo, anche per mezzo della chirurgia e della genetica, attraverso “certe autometamorfosi che chiama Human engineering, cioè «ingegneria applicata all’uomo»” (AM1, 69), “i riti di iniziazione dell’epoca dei robot” (AM1, 73)139.

Un modo per sfuggire al secondo difetto, invece – e nello stesso tempo un indizio di questo, una prova ‘schiacciante’ – è, secondo Anders, la imperante mania delle immagini, la «iconomania», con cui si cercherebbe di superare l’individuale unicità attraverso la riproducibilità della immagine umana (sia essa foto o qualsiasi altro tipo di riproduzione iconica).

L’uomo è perciò immaginato da Anders “stretto tra due forze, che, tutte e due, gli contestano il suo essere-io: da un lato oppresso dalla forza dell’«es naturale» (quello del corpo, della specie, ecc.), dall’altro da quella dell’«es macchina», «artificiale» (burocratico e tecnico)” (AM1, 109).

Che il trionfo finale spetterà alla macchina, che “non si incorporerà soltanto l’io, ma anche l’altro es, il corpo” (AM1, 109), lo prova, secondo Anders, un fenomeno proveniente dal mondo della cultura, cioè il jazz (inteso non solo come espressione musicale, ma anche come ballo), “in cui l’identità con la macchina è ottenuta con il mezzo violento di un rito estatico” (AM1, 113), cioè “estatiche danze sacrificali, che vengono celebrate come un culto in onore del Baal della macchina” (AM1, 110): la loro sincope “è il simbolo senza sosta e senza cedimenti, con cui la macchina interrompe il ritmo del corpo” (AM1, 110)140.

139 Come esempio, certo secondario, ma rivelatore della tendenza alla “riduzione a cosa” da parte

dell’uomo Anders cita il ‘make-up’, attraverso il quale, rinnegando la precedente vita organica, le donne (ma oggi non solo loro) vogliono dare l’impressione di essere fabbricate, dal momento che

“oggi non è il corpo svestito ad essere considerato «nudo», bensì quello non lavorato” (AM1,

64). L’antichità di questa pratica non sembra però un elemento a favore di questa interpretazione…

140 Anche Adorno interpreta similmente il jazz come una forma di assimilazione del corpo alle